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I MILLE ANNI |
Gli unici dell'intera
discendenza di Costanzo Cloro rimasti in vita, oltre all'imperatore
Costanzo, erano i due suoi cugini (figli di Giulio Costanzo fratello
del padre), Gallo di dodici anni e Giuliano di sei, salvati dal
furore dei soldati. I due ragazzi furono relegati in una villa
isolata dove furono allevati e istruiti. Quando Gallo raggiunse
l'età di venticinque anni, Costanzo lo nominò Cesare,
affidandogli la prefettura orientale.
Gallo aveva fissato la sua sede in Antiochia (definita città
dove lo splendore della illuminazione notturna eguagliava quello
del giorno) e nel governo si era mostrato violento e insofferente.
Pare che anche la moglie Costanza (detta Costantina, sorella dell'imperatore
Costanzo), vedova del cugino Annibaliano, ch'era stato ucciso,
non era da meno, tanto da essere stata definita <una furia
sanguinaria>.
Costoro avevano delle spie che per interesse riferivano informazioni
distorte ed erano molti coloro che, accusati ingiustamente, venivano
uccisi o condannati alla confisca dei beni e costretti ad abbandonare
le proprie case. I processi fondati su accuse false erano oramai
giornalieri. Subirono il processo, per omonimia, il filosofo Epigono
ed Eusebio (i due con lo stesso nome dovevano partecipare ad un'
insurrezione). Messi sotto tortura, Epigono, vergognosamente (dice
A. Marcellino), pur non sapendone nulla, ammise ciò che
non sapeva, Eusebio, coraggiosamente, negò le imputazioni,
chiedendo anche insistentemente il nome dell'accusatore e che
il processo si svolgesse secondo le regole.
Gallo, per tutta risposta, ordinò di procedere alla scarnificazione
(aggiunge Marcellino <come se si trattasse di un audace calunniatore>;
evidentemente era prevista anche questa forma di tortura che appare
unica nel suo genere!).
Gallo aveva ordinato tra l'altro l'uccisione dei capi del Senato
per il sol fatto che questo si era rifiutato di abbassare i prezzi,
come lui aveva richiesto, e godeva quando nel circo vedeva i lottatori
ricoperti di sangue.
Tutto ciò era regolarmente riferito a Costanzo, com'era
stato anche riferito che Gallo era insoddisfatto della carica
ricoperta e pensava di impadronirsi del potere.
Costanzo chiamò Gallo e gli disse che doveva prendere una
decisione su una situazione che si andava aggravando e aveva bisogno
di rivedere la sorella. Costei, messasi in viaggio, morì
di febbri prima di giungere dal fratello. Quando Gallo stava per
arrivare dal fratello, vide presentarsi Barbazione, che era stato
<comes> proprio della sua guardia e successivamente era
passato al servizio di Costanzo. Barbazione, dopo avergli contestato
le accuse, lo arrestò. Gallo fu quindi portato su un carro,
con le mani legate dietro la schiena, a Pola, dove già
era stato ucciso Crispo, e lì gli fu tagliata la testa
(354). Gallo aveva ventinove anni e aveva regnato quattro anni.
Di tutta la famiglia
rimaneva ora il fratello di Gallo, Giuliano, dedito agli studi
delle arti liberali. Egli sottolineava la sua appartenenza al
mondo degli studiosi, indossando il pallio, la sopraveste greca
che indossavano coloro che erano dediti agli studi filosofici.
Giuliano aveva corso il rischio di fare la fine di tutti gli altri
componenti della sua famiglia. Questa volta era stata la potente
casta degli eunuchi di corte ad ordire trame contro di lui. Convocato
alla presenza del cugino Costanzo egli si difese con franchezza.
Dopo questo incontro l'imperatore lo aveva destinato ad un onorevole
esilio in Atene, centro di cultura, dove Giuliano si trovava a
suo agio.
Dopo la morte di Gallo, Costanzo si trova da solo a regnare sull'immenso
impero sentendone tutto il peso. Tra l'altro in Occidente, ai
confini delle Gallie vi erano le pressioni delle tribù
germaniche. In Oriente vi erano le minacce del re di Persia, Sapore
II che continuava a premere sui confini.
La moglie di Costanzo, Eusebia, donna di grande intelligenza,
che apprezzava Giuliano, cercava di metterlo in buona luce agli
occhi del marito, dicendogli che lo riteneva di natura mite e
non ambiziosa, che la sua fedeltà e gratitudine si potevano
assicurare con la concessione della porpora e che Giuliano sarebbe
stato capace di occupare onorevolmente una posizione subordinata
e certamente non avrebbe avuto la velleità di oscurare
la gloria dell' imperatore.
Vinte le resistenze
degli onnipotenti eunuchi, fu deciso che Giuliano, dopo aver sposato
Elena, sorella dell'imperatore, avrebbe avuto la carica di Cesare
per le province Galliche. Quindi fu invitato a Milano dove Giuliano
si presentò con la veste da filosofo e la barba lunga e
incolta.
Fu sbarbato e vestito con le vesti imperiali e, sempre timoroso
per la sua vita (Eusebia però cercava di rassicurarlo),
fu presentato alle truppe per l'acclamazione. La cerimonia cadde
il giorno del suo ventiquattresimo compleanno.
Giuliano era di media altezza, aveva spalle larghe, collo robusto
e uno sguardo penetrante; i suoi occhi rivelavano l'acutezza della
sua mente, ma anche una certa modestia, perché il suo precettore
Mardonio, lo aveva educato a tenere lo sguardo rivolto a terra.
Egli aveva fatto buona impressione sui soldati che, dopo il discorso
di presentazione dell' imperatore, approvarono la sua scelta battendo
gli scudi sui ginocchi (il battere sugli scudi con le aste era
invece indice di disapprovazione, ira o dolore).
Dopo alcuni giorni prese in moglie Elena. Mentre si recava a Torino
gli fu data la notizia, che gli era stata tenuta nascosta, che
la città di Colonia era stata presa dai barbari e data
alle fiamme.
Giuliano si rese conto dei mali che lo avrebbero perseguitato.
Non a caso, quando era sul cocchio con l'imperatore il giorno
della sua acclamazione, aveva mormorato i versi d'Omero (Iliade):
<lo colse la morte e la Parca possente>. Ma nonostante i
suoi timori, egli mostra di essere un ottimo condottiero. Dopo
aver ripreso Colonia ai Franchi, aveva reso sicuri i confini dagli
assalti delle tribù barbare assicurando la pace nelle Gallie.
Col risultato che l'Occidente era tranquillo, mentre in Oriente
si stavano accumulando le nubi della guerra contro i persiani
che premevano sui confini. Questo non poteva che suscitare l'invidia
di Costanzo, il quale perfidamente richiese a Giuliano di mandargli
le sue truppe (360), che dovevano presentarsi ai confini persiani
(i confini gallici rimanevano così sguarniti e alla mercé
delle tribù germaniche).
Le truppe fedeli a Giuliano lo avevano acclamato Augusto e avevano
avuto la sua parola, che non sarebbero state obbligate ad attraversare
le Alpi. Giuliano voleva mantenere la parola data e, nell'incertezza
sulla decisione da prendere, aveva mandato a Costanzo suoi ambasciatori
con una lettera di sottomissione alla sua superiorità.
Egli faceva nello stesso tempo presente che intendeva mantenere
il titolo d'Augusto, che gli era stato riconosciuto dall'esercito
e dal popolo, e mantenere i territori che aveva avuto fino a quel
momento. Costanzo si era infuriato con gli ambasciatori, che si
erano ritenuti fortunati di aver salvato le loro vite.
La sua risposta fu che egli doveva rinunciare al potere imperiale
e alla carica d'Augusto, se voleva aver salva la vita. Inoltre,
mettendosi a disposizione dell'imperatore, non avrebbe subito
nulla di più grave di una punizione che sarebbe stata pari
a ciò che aveva osato.
Dopo queste assicurazioni, di cui certamente non c'era da fidarsi,
Giuliano aveva intercettato delle lettere di Costanzo indirizzate
ai barbari, che venivano aizzati ad invadere le province occidentali.
Egli quindi ritenne
che la rapidità nel muoversi gli avrebbe dato solo dei
vantaggi. Dopo aver dato precise istruzioni ai suoi comandanti,
che da due strade diverse lo dovevano raggiungere a Sirmio-Sirmium
(bassa Panonia, oggi Sremska Mitrovica), prese con sé tremila
soldati e da Parigi si diresse verso la Selva Marciana (Foresta
Nera), dove i suoi movimenti non sarebbero stati notati.
La sua meta era raggiungere il Danubio tra Ratisbona e Vienna
per imbarcarsi. La forza dei rematori e il vento favorevole gli
fecero coprire in undici giorni settecento miglia, giungendo a
Bonomia in prossimità di Sirmio.
Quando si sparse la voce che era arrivato l'imperatore, tutti
pensavano che fosse Costanzo. Giuliano prima di decidere il da
fare, interpellò gli indovini e questi gli consigliarono
di attendere e rimanere lì fino al verificarsi di una congiunzione
astrale.
Proprio nel momento in cui questa si stava verificando, giunse
una turba di cavalieri proveniente da Costantinopoli con la notizia
che Costanzo era morto (361) e che le legioni lo esortavano ad
assumere il comando supremo. Giuliano si diresse quindi a Bisanzio,
dove fu accolto con entusiasmo.
Il suo destino stava per compiersi. Due anni dopo (363), mentre
stava combattendo contro i Persiani (il re era sempre Sapore II,
che aveva avuto un lungo regno 310-380), imprudentemente, per
il caldo aveva tolto la corazza e buttatosi nella mischia, era
stato colpito da una lancia al fegato. Giuliano tentò di
estrarla, ma cadde esanime da cavallo. Quando fu portato sotto
una tenda, chiese quale fosse il luogo dove era stato colpito.
Gli risposero <Frigia>. Si rese conto che stava morendo.
Gli era, infatti, stato predetto che sarebbe morto in un luogo
che portava quel nome.
Giuliano era stato
soprannominato l'Apostata o Parabates <trasgressore>, dal
fanatismo del cristiano Gregorio Nazianzeno, il quale, in una
<orazione> scritta subito dopo la morte dell'imperatore,
aveva affermato che egli avesse rinnegato il cristianesimo per
il paganesimo (1).
Di cristiano, invece, Giuliano non aveva avuto nulla o ben poco.
Da ragazzo, infatti, la sua educazione religiosa era stata seguita
da Eusebio, vescovo di Nicomedia, il quale si era limitato a fargli
seguire le funzioni religiose (come si è sempre fatto con
i chierichetti) e, nella qualità di catecumeno (cioè
di chi era preparato, senza rendersene conto, per ricevere il
battesimo), gli faceva leggere in chiesa pagine delle sacre scritture.
L'istruzione di Giuliano, invece, era seguita da un precettore,
l'eunuco Mardonio che gli aveva insegnato i classici come Omero,
Pindaro, Bacchilide. Era stata questa la cultura di base dell'educazione
di Giuliano, il quale poi era andato ad approfondire gli studi
filosofici ad Atene, centro del paganesimo. Nell'opera <Misopogon>
Giuliano mostra tutta la sua gratitudine agli insegnamenti di
Mardonio e non d'Eusebio.
Giuliano, che partecipava anche alle funzioni religiose cristiane
per apertura mentale e tolleranza, era fondamentalmente ed esclusivamente
un pagano e vediamo, durante tutta la sua vita, che le sue invocazioni
e offerte erano rivolte solo agli dei. Egli quindi non era da
considerarsi un cristiano che aveva rinnegato quella religione.
L'averlo bollato con l'epiteto di <apostata-trasgressore>
era stata una grave ingiustizia verso un uomo, che aveva avuto
il torto, seguendo un'altra religione, di aver tollerato l'avanzare
del cristianesimo, che egli, per la sua apertura mentale e appunto
tolleranza, considerava allo stesso livello delle altre religioni.
Nel momento in cui i cristiani tendevano a sopraffare le altre
religioni, Giuliano emanò i tre editti, che furono considerati
- ahilui! - come l'inizio delle persecuzioni (sotto di lui non
v'erano state e non vi era stato alcuno spargimento di sangue).
Dopo la sua morte, su di lui si sfogò tutta l'acredine
dei cristiani, che lo accusarono di essere stato un tiranno crudele
e astuto; ogni calunnia, che potesse macchiare la fama dell'imperatore,
era stata ciecamente creduta come veritiera, dall'odio sprigionato
dal fanatismo. Non mancarono neanche le accuse dei segreti sacrifici
da lui fatti con corpi di bambini gettati poi nell' Oronte!
Gli editti non erano per nulla persecutori, perché, intanto,
con il primo Giuliano aveva mostrato tutta la sua tolleranza,
disponendo il rientro dei vescovi, che Costanzo (che abbiamo visto
essere ariano) aveva mandato in esilio.
Il secondo, sui Maestri (De professoribus), riguardava l'insegnamento
nelle scuole e il terzo editto riguardava i funerali.
Nell'editto sui Maestri si stabiliva il logico principio secondo
il quale gli insegnanti di fede cristiana dovessero insegnare
solo nelle scuole cristiane e non nelle altre, dove si studiavano
i classici (Omero, Esiodo, Eschilo e Pindaro) <che non potevano
essere letti e commentati, se non con l'ipocrisia che rende indegni
di esercitare l'insegnamento, solo da coloro che credono negli
dei>.
Su questo argomento il suo Maestro, amico e collaboratore Salustio
(o Sallustio, da non confondere col Sallustio di scolastica memoria,
autore della Congiura di Catilina) aveva scritto un libro <Sugli
dei e sul mondo> in cui, ritornando sull'argomento, spiegava
che chi professava la religione cristiana, poiché non riconosceva
validità alla cultura classica, non poteva insegnare nelle
scuole materie che costituivano la negazione di quella cultura
condannata e rifiutata.
Giuliano aveva avuto il senso della giustizia, ma n'era stato
mal ripagato. Bisogna anche ricordare che egli era stato un riformatore
della pubblica amministrazione e si sa (l'argomento è ancora
d'attualità!) che quando si toccano privilegi consolidati
certamente non si ottengono riconoscimenti positivi.
Appena arrivato
a Corte, avendo chiesto un barbiere, lui che tendeva a portare
una <irsuta e popolosa barba> e trascurava anche la pulizia
personale (tanto da avere unghie lunghe e le mani dal colore dell'inchiostro!),
si era visto presentare più che un barbiere, un funzionario
magnificamente vestito. Giuliano gli chiese quale fosse la sua
remunerazione e si sentì rispondere che oltre ad un alto
stipendio e a mance, aveva a disposizione venti servi e altrettanti
cavalli. E non era l'unico! A Corte ve n'erano a migliaia tra
barbieri, coppieri e cuochi a servire il sovrano, il quale si
distingueva da loro solo per la magnificenza degli abiti, della
tavola, del seguito e degli edifici.
I palazzi eretti a Bisanzio da Costantino e dai suoi figli erano
tutti ricoperti di marmi policromi, d'argento, d'oro massiccio
e d'avorio (v. in Schegge: Bisanzio la città d'oro). Gli
imperatori si procuravano le più raffinate rarità
non per soddisfare il gusto ma la vanità, con uccelli e
pesci esotici venuti dalle più lontane regioni; frutta
fuori stagione, rose d'inverno e neve d'estate.
Le spese per la turba dei domestici di palazzo superava quella
delle legioni e solo una minima parte di quella turba serviva
all'uso e allo splendore della Corte.
Tutto ciò costituiva un'infamia per l'imperatore ed era
il popolo ad esserne danneggiato. Una mastodontica amministrazione
dava luogo a sperperi inusitati. Gli stipendi, le mance, i donativi
erano altissimi ed erano estorti a coloro che temevano ritorsioni,
facendo la fortuna di questi domestici,, che si arricchivano da
un giorno all'altro. Le loro vesti erano di seta ricamate d'oro.
Le mense imbandite con ricchezza e raffinatezza, le loro case
immense. Un cittadino comune, quando incontrava un eunuco, doveva
scendere da cavallo per salutarlo.
Tutto questo sfarzo e spreco non potevano non colpire Giuliano,
educato alla semplicità nel mangiare e nel vestire e abituato
a dormire su un tappeto messo per terra, e non potevano non suscitare
la sua indignazione. Egli non poteva non rifiutare lo splendido
ed effeminato modo di vestire preso dagli asiatici e fatto di
riccioli, belletti, collane e anelli.
Giuliano usò immediatamente la scure. Con un editto, tutta
la massa di schiavi fu licenziata su due piedi senza discriminazioni
per l'età, i servizi resi o la fedeltà.
L'imperatore filosofo non si limitò solo a licenziare,
ma ritenne di dover punire con un giusto e imparziale processo
chi ne aveva approfittato. Per non essere accusato d'azione persecutoria
nei confronti di nemici personali, istituì un tribunale
straordinario, con sei giudici d'alto grado presi dall'amministrazione
e dall'esercito, con il potere dell'immediata esecuzione delle
sentenze.
Questo tribunale, in effetti, non usò il pugno di ferro
e non giunse a punizioni esemplari. Finì che i <malvagi>
ottennero la gratificazione della pubblica opinione, ritenendo
che costoro <avevano sofferto per la loro ostinata fedeltà>.
Gli altri furono amnistiati e si lasciò che godessero impunemente
i loro guadagni. Anche il numeroso esercito di spie, delatori
e agenti, di cui si era circondato Costanzo, fu licenziato.
Giuliano aveva regnato come imperatore Augusto per sedici mesi,
ma
per le sue realizzazioni e il suo super attivismo, era come se
avesse regnato per sedici anni. Infatti, in uno stesso giorno
dava udienza a più ambasciatori, scriveva o dettava un
gran numero di lettere a generali, magistrati, amici personali
e agli amministratori delle varie città del suo impero.
Nel momento in cui gli venivano letti i rapporti, con rapidità
di decisione dettava velocemente le sue risposte, tanto da mettere
gli stenografi che le scrivevano, in difficoltà.
Il suo pensiero, allenato sugli studi platonici, poteva essere
concentrato contemporaneamente su tre attività diverse,
quella di scrivere, ascoltare e dettare contemporaneamente. Quando
i suoi ministri nel pomeriggio si concedevano il riposo pomeridiano,
Giuliano si ritirava nella biblioteca e vi rimaneva fino a quando,
prima di sera, non doveva riprendere le attività di governo.
Delle sue leggi ben cinquantaquattro furono recepite nel Codice
teodosiano e successivamente in quello di Giustiniano.
Appena morto
Giuliano, i comandanti dell'esercito ritennero dare la corona
imperiale a Gioviano, il cui regno durò appena otto mesi.
Gioviano dopo aver firmato la pace con Sapore II fu colto da morte
improvvisa (364), nel momento in cui lasciata Antiochia stava
rientrando a Costantinopoli.
Gioviano era cristiano e si era precipitato a disconoscere tutto
l'operato di Giuliano. Aveva avuto appena il tempo di sostituire
tutti gli ufficiali dell'esercito, che, pur valorosi, avevano
il demerito d'essere pagani. Si era in ogni modo mostrato tollerante
verso chi avesse inteso continuare a coltivare e sacrificare secondo
l'antico culto. Ciò che era vietato e severamente punito
erano invece i riti di magia.
Il suo regno era durato dal giugno a 363 a febbraio 364. Dopo
una cena abbondante al mattino fu trovato morto. La morte fu attribuita
ai funghi o all'aria malsana sprigionata dall'intonaco fresco
si
trattò certamente d'infarto, che a quell'epoca non si conosceva.
I comandanti dell'esercito volevano dare la corona a Sallustio,
prefetto del pretorio e amico di Giuliano. Presso quest' imperatore,
del quale era stato amico, era caduto in disgrazia), ma egli rifiutò
ritenendosi troppo vecchio, e rifiutò anche per il figlio,
che disse, era troppo giovane per assumere quella carica.
La scelta cadde quindi su Valentiniano che aveva partecipato a
molte guerre e conosceva solo l'arte militare e la lingua latina.
Valentiniano ricevette la nomina a Nicea.
Si stava dirigendo a Costantinopoli quando, durante la marcia,
già per sua natura irascibile, fu colto da follia. Gli
amici gli consigliarono di prendere con sé un collega,
perché non gliel'avrebbe fatta a reggere tutto l'impero.
Scelse il fratello Valente, che fu incoronato nello stesso anno
(364), al quale affidò tutto l'Oriente, oltre all' Illirico
e al Basso Danubio, tenendo per sé l'Occidente.
Mentre Valentiniano era stato indifferente con la religione, Valente,
essendo ariano, fu accusato ingiustamente dagli ortodossi di averli
perseguiti.
Valentiniano nei dodici anni di regno meno cento giorni (364-375),
riportò delle splendide vittorie nei confronti degli Alemanni,
Borgognoni e in Bretagna nei confronti delle tribù di Scoti-scozzesi,
che erano ritenuti così selvaggi da esserlo ancora quando
nel 1745 invasero l'Inghilterra.
Valentiniano
aveva avuto dalla moglie Severa un figlio, Graziano, che all'età
di nove anni era stato associato dal padre con la carica di Augusto,
confermata dall'esercito. Da un'altra moglie, Giustina, l'imperatore
aveva avuto un altro figlio cui era stato imposto lo stesso nome
di Valentiniano (II).
Quando Valentiniano (I) morì, il suo primo figlio aveva
raggiunto l'età di diciassette anni e il secondo, Valentiniano
(II) quattro anni. Quest'ultimo, presentato dalla madre alle legioni
fu anch'egli acclamato. Graziano accettò la nomina, dichiarando
che avrebbe considerato Valentiniano come fratello. Così
l'impero era retto da Valente, che aveva l'Oriente, e dai due
nipoti, ai quali erano stati assegnati: a Graziano Gallia, Spagna
e la Britannia, a Valentiniano l'Italia, l'Illiria e l'Africa.
Nel frattempo Valente muore nella battaglia d'Adrianopoli (378)
contro i Goti, che, per i romani, ebbe conseguenze disastrose,
pari a quelle della battaglia di Canne, con Annibale.
Graziano, che ritiene di non farcela da solo a resistere in questo
periodo turbolento alle pressioni dei barbari, si associa nella
carica d'Augusto, Teodosio, figlio di un generale spagnolo con
lo stesso nome, che si era coperto di gloria con il cognato Valentiniano
II .
Teodosio (I) quando fu insignito della porpora aveva trentatre
anni e aveva già fatto esperienze militari. Egli per prima
cosa riorganizzò le truppe, rinforzando fortificazioni
e guarnigioni, per far fronte agli attacchi dei barbari (Unni,
Alani, Goti comandati da Atanarico, Ostrogoti e Visigoti) che
poi affrontò con molta cautela e prudenza.
Con Graziano concluse accordi federativi, in base ai quali gli
Osatrogoti s'insediarono in Pannonia, i Visigoti nella parte settentrionale
della Tracia. Molti barbari entrarono a far parte, sempre come
federati, dell'esercito.
Graziano è assassinato (383) a seguito di un complotto
ordito da un compatriota di Teodosio, di nome Massimo, che in
Britannia era stato acclamato imperatore.
Teodosio I, detto
il Grande (aveva costruito in Costantinopoli diversi archi di
trionfo tra cui la Porta d'Oro, che aprendo la strada trionfale
partiva dalle mura arrivando al palazzo imperiale - v. Bisanzio
la città d'oro), dopo la morte di Graziano aveva regnato
da solo.
Egli era riuscito ad unificare l'impero, ma alla sua morte (395)
lo divise tra i due figli Arcadio e Onorio. Al primo toccò
l'impero d'Oriente, al secondo quello d'Occidente, di cui era
reggente il generale Flavio Stilicone.
Ambedue i fratelli, minori, erano stati affidati a Stilicone (imparentato
con la famiglia imperiale, avendo sposato Serena, figlia adottiva
di Teodosio), il quale lasciava che i due giovani principi si
disinteressassero degli affari di Stato.
Onorio era un tipo debole, apatico e freddo. Era stato fatto sposare
all'età di quattordici anni, ma lasciò che la moglie
Maria (figlia di Stilicone) morisse vergine dopo dieci anni di
matrimonio. Il suo unico interesse erano i polli.
Lo scrittore Gibbon, che ha accennato alla passione dell'imperatore
per questo tipo d'allevamento, si è rifiutato categoricamente
di riferire l'aneddoto citato da Procopio, al quale non aveva
ritenuto prestar fede.
Onorio era a Ravenna, dove si era rifugiato, dopo essere scappato
da Roma, a seguito della invasione dei Visigoti capeggiati da
Alarico. Gli si presentò l'eunuco, guardiano del pollaio,
riferendogli che Roma era perita! <Ma come>, rispose Onorio
<se ha appena finito di mangiare dalle mie mani!>. Roma
era anche il nome di un gallo gigante e l'eunuco, capito l'equivoco,
spiegò ad Onorio che si trattava della città, non
del gallo!
Onorio morirà nel 423, lasciando la sua parte dell'impero
d'Occidente a Valentiniano III, ma sarà retto dalla madre
Galla Placidia (che aveva sposato in prime nozze Ataulfo re dei
Visigoti e in seconde nozze Onorio da cui aveva avuto due figli,
Onoria e Valentiniano), fino alla sua morte (425-450). Valentiniano
III lo reggerà invece fino al 455, l'anno in cui fu assassinato
per vendetta per l'uccisione del famoso generale Ezio (1).
Arcadio era un uomo pio, non lo era la moglie Eudossia, in ogni
caso bella e avvenente, sposata a seguito degli intrighi d'Eutropio,
eunuco e gran ciambellano di corte. Ad Arcadio era stato preparato
un matrimonio con la figlia del ministro Rufino, prefetto per
l'Oriente, ma era stato convinto da Eutropio che vi era una fanciulla,
di nome Eudossia, ancora più bella, che meritava di essere
sposata.
Convinto l'imperatore, il giorno fissato per le nozze, il corteo
che portava vesti, diadema e ornamenti per la sposa (che doveva
essere la figlia di Rufino), cambiò percorso recandosi
invece a prendere Eudossia per portarla a palazzo. In seguito
la bella Eudossia rimase incinta di un maschio (avuto probabilmente
da un conte di palazzo, Giovanni, con cui era in intimità),
che fu accettato da Arcadio, come dono della provvidenza e come
un fausto evento per sé, per la famiglia e per il mondo
orientale. Arcadio morirà nello stesso anno in cui nacque
Teodosio (408), all'età di trentun anni, per sua fortuna
di morte naturale.
Teodosio, con lo stesso nome del nonno (era quindi il secondo
con quel nome), fu subito insignito dei titoli imperiali.
Durante la minore età di Teodosio, Pulcheria che per sua
scelta volle rimanere nubile (ma questo non la risparmiò
dal sospetto di avere avuto rapporti incestuosi col fratello Teodosio,
e con un giovane avvenente di nome Paolino), fece adottare lo
stesso nubilato alle altre due sorelle Arcadia e Marina. Non solo,
ma le tre sorelle consacrarono, alla presenza del clero e del
popolo, la loro verginità a Dio, e questo voto fu iscritto
in una tavoletta d'oro e di gemme che esse offrirono alla Chiesa
di s. Sofia. La voce corrente in Occidente era che la Corte bizantina
era stata trasformata in convento. Lo conferma un fatto singolare.
La sorella di Valentiniano III, Onoria, di sedici anni, era educata
nel palazzo di Ravenna. Onoria era stata scoperta <in intrighi
amorosi> con il maggiordomo di palazzo, di nome Eugenio.
Per punizione fu inviata a Costantinopoli dove, dice il cronista
<la Corte, per influsso di Pulcheria, si era trasformata in
un convento>. Onoria pur giovanissima, ma matura per i piaceri
del sesso, non accettando questa clausura, aveva mandato ad Attila
(v. in Schegge, Attila e gli Unni), a mezzo di un eunuco, il suo
anello, con la richiesta di liberarla e prenderla come moglie.
Di questa richiesta Attila se ne servì per minacciare continuamente
Valentiniano III, che gli era tributario. <Era un'infamia>,
commenta il cronista <barattare la libertà delle proprie
libidini contro la sciagura pubblica>.
Le tre sorelle
presero con sé un certo numero di damigelle e, ad eccezione
dei direttori spirituali, esclusero tutti gli uomini da quella
insolita comunità, che seguiva un regime di rinunzia alla
ricercatezza delle vesti, accompagnata da frequenti digiuni, diete
frugali, continue preghiere e canti religiosi. Con una vita del
genere non potevano mancare le visioni estatiche da cui era stata
presa Pulcheria.
Tutte queste attività religiose non tolsero a Pulcheria
la capacità di regnare con vigore. Presso Pulcheria si
trovava una fanciulla proveniente da Atene, il suo nome era Athenais,
figlia di un retore greco, che Pulcheria, sempre attenta a dominare
le situazioni, spinse tra le braccia del fratello il quale se
ne innamorò, sposandola (lui aveva vent'anni, lei ventotto).
Pulcheria aveva fatto anche convertire al cristianesimo Athenais
che, nel momento della conversione, aveva preso il nome d' Eudocia.
Eudocia, come detto non solo proveniva dalla dotta Atene, ma era
figlia di un rétore, possedeva un patrimonio culturale
che la portò a rendersi promotrice della fondazione dell'università
(325), le cui cattedre furono assegnate a letterati greci e latini
per la formazione di giuristi, filosofi e medici.
Grazie a costoro il sistema scolastico d'insegnamento bizantino
fu considerato il migliore e fu assorbito nelle corti germaniche.
Teodosio II morì all'età di cinquant'anni (450)
cadendo da cavallo e rompendosi la schiena. Il suo regno, durato
quarantadue anni, era stato uno dei più lunghi e pacifici,
a parte il pericolo rappresentato da Attila, che Teodosio, e Marciano
che lo seguirà sul trono, erano riusciti a scongiurare.
Con la differenza che il trattato firmato da Teodosio II (446),
era stato piuttosto umiliante. Di diverso tenore era stato quello
di Marciano che, se pur vecchio, aveva mandato a dire con durezza
ad Attila attraverso i suoi legati, <oro e regali se se ne
sta tranquillo, uomini e armi se protesta>.
Sotto Teodosio II (il merito può andare alla moglie Athanais-Eudocia)
fu varato il Codice teodosiano (promulgato anche per l'Occidente
a nome di Valentiniano III) da considerare una delle più
importanti opere legislative che avevano preceduto quelle di Giustiniano.
Dopo la morte di Teodosio, Pulcheria era stata nominata imperatrice.
Non appena fu incoronata, fece giustiziare davanti alla porta
della città l'eunuco Crisafio, il quale aveva suscitato
il sentimento ostile della popolazione per la sua rapacità,
che gli aveva consentito di accumulare enormi ricchezze.
Pulcheria si rese conto che per il regno, anche se formalmente,
occorreva la presenza di un uomo, a condizione che questo rispettasse
il suo voto verginale e la superiorità del suo rango. Sposò
quindi nominalmente il senatore Marciano, che, incoronato imperatore,
regnò per sette anni, fino al 457.
Alla morte di
Marciano fu incoronato imperatore un tribuno, Leone di Tracia,
maggiordomo del generale Aspar, col nome di Leone I, detto il
Grande (457-474).
Aspar, per la sua potenza e ricchezza, avrebbe potuto egli stesso
proporsi come imperatore ma aveva ritenuto indicare Leone, nella
convinzione di poterlo manovrare. Aspar non era però riuscito
nel suo intento. Non solo, ma Leone fece trucidare lui con tutta
la sua famiglia.
Intanto, l'Occidente era tiranneggiato dai Vandali di Genserico
e Leone ritenne dare il suo appoggio alla nomina di Antemio (figlio
di Procopio che aveva sposato Eufemia, figlia di Marciano), riconoscendolo
come imperatore d'Occidente (per gli ultimi imperatori d'Occidente
v. sopra nota 1).
Costui non aveva figli maschi, ma una femmina Ariadne (Arianna)
che aveva sposato Zenone (cui aveva dato un figlio, Leone II,
il quale succedette al nonno (474)) .
Poiché Leone II era ancora fanciullo, il padre Zenone (aveva
così cambiato il suo nome, Trascalisseo) governò
per conto del figlio,che morì nell'autunno dello stesso
anno (474). Zenone rimase quindi solo e unico imperatore (474-491).
Nel 476 una congiura della vedova di Leone I, Verina, tolse il
potere a Zenone. Questo andò a rifugiarsi sulle montagne
d'Isauria, sostituito dal fratello di Verina, generale Basilisco.
Costui ebbe però un periodo di regno breve ed oltremodo
burrascoso (tra l'altro Basilisco fece ammazzare l'amante della
sorella). Dopo venti mesi Zenone riuscì a riprendere il
trono (476) e mantenerlo ancora per quindici anni. Alla sua morte
la moglie Ariadne sposava Anastasio, concedendogli la corona imperiale
(491). Anastasio regnò fino al 518 rimettendo in sesto
le finanze dell'impero, che lascerà in eredità a
Giustino I, prima dell'avvento di Giustiniano.