I MILLE ANNI
DELL' IMPERO
BIZANTINO

TRA INTRIGHI
COMPLOTTI E
COLPI DI STATO
ALLA CORTE DI BISANZIO

MICHELE DUCAS-PUGLIA

 

CAPITOLO QUINTO

 

SOMMARIO:L'IDEA IMPERIALE DI GIUSTINIANO E L'IMPERO ROMANO EREDITATO DA GIUSTINO II; TIBERIO II-COSTANTINO, MAURIZIO, FOCA IL SANGUINARIO; ERACLIO I RIFORMA LO STATO, ERACLEONA, COSTANTINO, MARTINA E COSTANTINO III-COSTANTE II; COSTANTINO IV, LE EFFERATEZZE DI GIUSTINIANO II; GLI USURPATORI: LEONZIO, TIBERIO III-APSIMAR, FILIPPICO BARDANE, ARTEMISIO-ANASTASIO II, TEODOSIO III.

 

L'IDEA IMPERIALE DI GIUSTINIANO
E L'IMPERO ROMANO
EREDITATO DA GIUSTINO II


L'impero con Giustiniano, grazie ai due grandi generali Belisario e Narsete, aveva raggiunto il massimo della sua espansione. L'imperatore aveva ricostituito, anche con sacrifici economici, l'insieme dei territori (tutta la Gallia e buona parte della Spagna escluse), del vecchio "Impero Romano", non suscettibile di ulteriore espansione.
Infatti, a nord-est i confini erano bloccati dagli àvari (popolazione unno-turco-mongolica), occupati cinque anni prima della morte di Giustiniano (560); l'Illiria era chiusa a nord dai longobardi; a nord-ovest dell'Italia, nella Gallia, erano insediati i burgundi; la Spagna era sotto il regno dei visigoti, ad eccezione della protuberanza di nord-ovest, che si affacciava sull'Atlantico e sul golfo di Biscaglia, dov'erano insediati i Suebi (popolazione germanica, da cui deriveranno gli svevi).
A sud della Spagna, vi era la Mauritania, affacciata sul Mediterraneo, che proseguiva nella fascia a nord dell'Africa con l'Egitto, Siria, Medio oriente, andando a congiungersi a Costantinopoli (v. pianta nel cap. III). La conquista dell'Africa, da parte di Belisario (533-34), comportò una vera e propria pulizia etnica, con l'eliminazione di tutti i vandali che l'abitavano. Di questa popolazione, quelli che riuscirono a salvarsi, con donne e bambini, furono ridotti in schiavitù (come vedremo nell'articolo: I barbari).
Giustiniano aveva dato all'impero grandezza e splendore, ma era solo la facciata. L'Impero, infatti, mentre all'esterno appariva splendido, all'interno aveva un popolo, che piangeva le proprie miserie e le vessazioni fiscali, come abbiamo visto dai racconti di Procopio (cap. III).
L'inasprimento fiscale e i prestiti forzosi erano stati dovuti prima alle ricostruzioni e alle guerre, poi agli impegni presi da Giustiniano con i persiani (562) e, nello stesso periodo, con gli unni, bulgari e slavi, che avevano invaso l'Illiria, la Macedonia e la Tracia.
Giustiniano, non avendo potuto respingere questi invasori con le armi, aveva pensato di tenerli a bada con il pagamento di tributi, gravosi per lo Stato e per i cittadini.
L'imperatore, in religione, come abbiamo visto, era rigidamente ortodosso. Egli non solo applicava e osservava integralmente i precetti religiosi, ma combatteva tutti i non ortodossi, comportandosi da "fondamentalista" (come si direbbe oggi).
Egli, poi, la praticava con la massima assiduità e devozione, partecipando alle preghiere, alle veglie e ai digiuni (come un "monaco" aveva scritto Gibbon). Nello stesso tempo (sin dai primi anni della sua elezione) non aveva dato pace a pagani, eretici e samaritani, perseguitandoli.
Aveva, infatti, tolto loro il diritto di fare testamenti e donazioni, di stare in giudizio nelle cause con ortodossi e di avere schiavi ortodossi o di ricoprire cariche e dignità. Nel 529, aveva imposto ai pagani di convertirsi e farsi battezzare, oppure, di andarsene in esilio (con espropriazione dei loro beni). Ai non cristiani, giunse anche il divieto d' insegnare, che aveva portato come conseguenza la soppressione della gloriosa Scuola filosofica d'Atene, dopo novecento anni d'esistenza.
L'imperatore, nel porre in atto queste discriminazioni, aveva in mente "l'impero universale", che conteneva in sé, tutti i crismi della teocrazia, retta dalla sacralità dell'imperatore, accentuata da un complicato cerimoniale.
"L'impero universale" (esaltato da Dante nel Paradiso,V) doveva essere costituito da un territorio (corrispondente a quello dell'impero romano), unificato nella religione dei suoi abitanti, vale a dire, di tutti coloro che credevano in Cristo, Dio e Salvatore.
Molte delle sue notti insonni, Giustiniano le aveva passate discutendo di religione, con vecchi venerandi sapienti e consultando libri religiosi. Quando tra i suoi titoli era indicato il nome di "Pio", egli se ne compiaceva grandemente.
Negli ultimi anni della sua vita, tale predisposizione religiosa e ascetica aveva avuto il sopravvento, portandolo ad una vita contemplativa, che gli faceva trascurare le cose terrene e l'attività di governo.
Giustiniano non aveva figli, ma sette nipoti, figli del fratello Germano e della sorella Vigilanzia. Vivevano tutti a corte, educati nello splendore di una vita principesca. Ad essi ereano stati assegnati posti di comando nell'esercito e nelle province, per tenerli lontani dal potere centrale. L'imperatore, infatti, non aveva associato nel regno nessuno dei nipoti e rimandava continuamente la scelta e la nomina (perché il potere è una droga che non si vuol condividere con nessuno, nda.), assumendo lo stesso atteggiamento tenuto con lui dallo zio Giustino I.
Non si sa bene se il suo prediletto fosse effettivamente Giustino, figlio di Vigilanzia, ma appena morto l'imperatore (poco prima della mezzanotte tra il 13 e 14 nov. 565), la notizia non fu fatta trapelare, per evitare disordini. Un gruppo di suoi amici e sostenitori si recò nei suoi appartamenti, e, presentatisi alla servitù come rappresentanti del senato, lo fecero svegliare, convincendolo ad accettare subito la nomina.
Essi raccontarono a Giustino che l'imperatore, prima di morire, aveva indicato lui come il più diletto e meritevole dei suoi nipoti.
Giustino, dopo aver mostrato sorpresa, dolore e dignitosa modestia, anche su consiglio della moglie Sofia, accettò e fu condotto al "sacro palazzo", dove fu vestito degli abiti imperiali (veste di porpora, tunica bianca e calzari rossi). Un soldato della guardia ebbe la presenza di spirito di mettergli attorno al collo la collana militare (e fu subito promosso tribuno). Quindi, Giustino fu sollevato sullo scudo, ricevendo l'adorazione di tutti i cortigiani e la benedizione del patriarca, che gli pose, sul capo, il diadema.
In mattinata, la popolazione si radunò nell'ippodromo, dove apparve il nuovo imperatore, che assiso sul trono, fu acclamato da ambedue le fazioni, azzurri e verdi.
Ma il popolo rumoreggiò, chiedendo a Giustino, la restituzione dei prestiti fatti allo Stato, per la guerra e per il riscatto dei prigionieri. L'imperatore promise che avrebbe fatto giustizia degli abusi commessi negli ultimi anni da Giustiniano. Giustino promise un governo giusto e benefico e l'immediato pagamento dei debiti dello zio. Fece subito presentare una schiera di servitori, che portavano sacchetti d'oro, mettendoli a disposizione, come dono spontaneo, dei creditori di Giustiniano.
Altrettanto magnanimamente si comportò in seguito la moglie Sofia (nipote dell'imperatrice Teodora), che liberò molti cittadini poveri dai debiti e dall'usura.
Nei giorni che seguirono l'incoronazione, Giustino incominciò a ricevere le ambascerie.
La prima fu quella degli àvari, accolti in un'atmosfera di sfarzo, non insolito per la corte bizantina, ma che voleva anche avere l'effetto d'impressionare i visitatori. L'ambasceria attraversò il lungo percorso, dalla porta del sacro palazzo agli ampi cortili, ai portici, fino alla sala del trono, tra due file interminabili di guardie (selezionate in base al fisico atletico), parate con superbi cimieri e scudi aurei, che presentavano lance e asce, dando il senso della potenza militare.
Tutti i membri della corte, nei loro abiti sfarzosi, erano disposti secondo l'ordine della gerarchia militare e civile.
Il trono era posto sotto un baldacchino, sostenuto da quattro colonne e sormontato da una statua alata della vittoria. Era coperto da un velo, che fu sollevato per fare apparire l'imperatore in tutta la sua magnificenza.
Dopo i primi attimi di sorpresa, Tangezio, capo dell'ambasceria, senza lasciarsi troppo impressionare, attraverso l'interprete espose liberamente e con orgoglio il suo pensiero. Tangezio, dopo aver esaltato la grandezza del suo re, faceva presente all'imperatore che "solo la clemenza del suo popolo, che ora abitava le rive del Danubio, dopo aver attraversato i fiumi gelati della Scizia, permetteva una tranquilla esistenza ai popoli del Mezzogiorno (l'impero). Il defunto imperatore" riferiva Tangezio "aveva coltivato annualmente, con magnifici doni, l'amicizia di un monarca riconoscente. Gli stessi nemici di Roma" aggiungeva l'ambasciatore "rispettavano anche gli alleati degli àvari". Tangezio suggeriva quindi all'imperatore "di seguire lo zio Giustiniano, imitandone la liberalità e assicurandosi i benefici della pace con un popolo invincibile ed esperto negli esercizi di guerra, in cui eccelleva".
L'imperatore, a sua volta, rispose con la stessa provocatoria alterigia, richiamando la fiducia nel Dio dei cristiani, nella gloria dell'antica Roma, e i trionfi dello zio Giustiniano. "L'impero" aggiunse "abbonda di uomini, cavalli ed armi, sufficienti a difendere le frontiere e punire i barbari. Voi offrite aiuto, minacciate ostilità, noi disprezziamo la vostra inimicizia e i vostri aiuti…nostro zio si mostrò benigno verso le vostre miserie, piegandosi alle vostre umili preghiere. Noi vi faremo un più importante servizio: farvi conoscere la vostra debolezza. Ritiratevi dal nostro cospetto" concluse l'imperatore "la vita degli ambasciatori è sacra. Se ritornerete ad implorare il nostro perdono, forse, godrete della nostra bontà".
Riferito l'esito dell'ambasceria al loro re, gli àvari rinunciarono, per il momento, a molestare i confini dell'impero, in attesa di tempi migliori.
Fu poi la volta dell'ambasceria di Kosroe I Anoshak-rawan (531-579), che Giustiniano aveva tenuto a bada, col pagamento di un pesante tributo, concordato nel 562. L'ambasciatore era venuto a riscuotere il tributo. Le casse dello Stato però erano vuote, e Giustino non avendo la possibilità di pagare, oppose un rifiuto, che non poteva portare che alla guerra.
Ebbe inizio una lunga guerra, che si prolungò per quasi venti anni. La posta in gioco era l'Armenia, che alla fine sarà occupata dai persiani.
Il problema delle ostilità non fu solo con i persiani. Ai confini dell'impero ebbe inizio un'opera di erosione da parte delle tribù dei barbari, che continuò anche con gl'imperatori, che seguirono Giustino II.
Gli àvari avanzarono verso ovest, occupando e stabilendosi in Pannonia (568). I longobardi, nello stesso periodo, invasero l'Italia settentrionale, conquistando Pavia e, lasciata Roma, s'insediarono fino alla parte estrema della penisola. Leovigildo, in Spagna, conquisterà la parte spagnola della Mauritania, regnando quindi su tutta la penisola.
Giustino non aveva la tempra dello zio ed, in ogni caso, si era trovato con le casse dello Stato vuote e con l'esercito in pessime condizioni
Egli ci è stato descritto come un individuo mediocre, di non alte capacità, avarissimo, che disprezzava i poveri, e, contemporaneamente, depredava i senatori. Aveva raggiunto tali maniaci eccessi di cupidigia da farsi fare delle casse di ferro, dove ammucchiava i talenti d'oro, man mano che li rubava. L'imperatrice Sofia lo rimproverava, per il rischio di ridurre lo Stato in povertà. Alla fine, Giustino perse il lume della ragione e divenne pazzo. "Dopo tredici anni di regno" scrive il monaco cronista "fu liberato dalla pazzia e dalla vita" (565-578).

TIBERIO II-COSTANTINO,
MAURIZIO E FOCA IL SANGUINARIO


A Giustino II, seguì Tiberio II-Costantino (578-582), che Giustino aveva adottato come figlio ed erede (574), dandogli la carica di Cesare e nominandolo "magister militum", ossia generale in capo dell'esercito, al quale era riservato il comando della guardia imperiale e del palazzo.
Contrariamente al suo predecessore, riuscì ad avere disponibilità di oro. Pare che, mentre passeggiava nel palazzo, avesse visto scolpita una croce su una lastra di marmo e che avesse detto "Con la croce del signore dovremmo fortificare la nostra fronte e il nostro petto, ed ecco che la calpestiamo con i nostri piedi"; fece sollevare la lastra e ne trovò un'altra, e poi una terza. Sotto questa, infine, trovò una gran quantità d'oro, più di mille centenari, a dire del cronista.
Pare, quindi, che Tiberio avesse fortuna nel trovar tesori, se sono veri questi racconti. Egli comunque fu un regnante molto saggio ed oculato nelle spese, per cui può darsi che queste doti fossero state fatte passare per tesori trovati.
Gli avevano, infatti, riferito che il vecchio generale Narsete aveva nascosto un tesoro nel suo palazzo in Italia. Il generale, dopo aver fatto scavare una grande cisterna e aver ivi nascosto una gran quantità d'oro e d'argento, aveva fatto uccidere coloro che avevano eseguito lo scavo. Narsete però rivelò il segreto ad un vecchio, sotto il vincolo del giuramento. Il vecchio, dopo la morte del generale, andò a raccontarlo a Tiberio, che mandò i suoi messi. Fu trovata la cisterna, con tanto oro ed argento che ci vollero diversi giorni per svuotarla.
Tiberio era un uomo avvenente e di bell'aspetto e aveva suscitato i desideri amorosi di Sofia (moglie di Giustino II), la quale pensava di coinvolgerlo in una tresca per porterlo avere in pugno e mantenere il suo posto di imperatrice ed il suo potere. Ma Tiberio aveva già una sposa segreta, Anastasia, e pur respingendo le "avances" dell' imperatrice madre aveva dimostrato la sua riconoscenza onorando Sofia, alla quale aveva lasciato il suo posto a corte e gli onori. Ma Sofia volle vendicarsi e ordì contro Tiberio una congiura, facendolo sostituire da un nipote, Giustiniano (figlio di Germano), nel periodo in cui Tiberio, durante la vendemmia, era andato a riposarsi in campagna. Venutone però a conoscenza, Tiberio interruppe la sua vacanza, rientrando a Costantinopoli e sventando la trama. Sofia fu privata di tutti gli onori e le fu assegnato un modesto appannaggio, Giustiniano ebbe salva la vita e gli fu, magnanimamente, perdonato il tradimento.
Sotto Tiberio, una moltitudine di slavi avevano invaso e si erano stabiliti in Tracia, Macedonia e Grecia. Nello stesso periodo, Tiberio aveva sconfitto i persiani, ricavandone venti elefanti e "tanto bottino da poter soddisfare la cupidigia umana".
Tiberio II è stato descritto "di grandissima bontà, pronto alle elemosine, giusto nei giudizi, molto cauto nel pronunciare una sentenza; non disprezzava nessuno ed era sempre pronto ad abbracciare ed amare tutti, e da tutti era amato". Purtroppo, con tutte queste fortune, il suo regno fu di breve durata: di soli quattro anni (tre come Cesare).
Tiberio II si ammalò improvvisamente e, sentendo avvicinarsi la morte, designò come futuro successore Maurizio, originario della Cappadocia, al quale diede in moglie sua figlia Costantina, con la raccomandazione di "amare sempre la giustizia e l'equità".
Maurizio (582-602), avendo ereditato la guerra con i persiani, pensò alla difesa dell'oriente richiamando le truppe dall'occidente. Trasformò quindi in "esarcati" (l'esarca era la massima autorità civile e militare) quello che rimaneva delle province d'Italia (con capitale Ravenna) e d'Africa (con capitale Cartagine).
Maurizio riuscì a raggiungere la pace con i persiani, perdendo però l'Armenia. Non riuscì, invece, a liberarsi degli slavi, che rimasero in Grecia e Macedonia.
Per riconquistare i territori italiani, occupati dai longobardi, si rivolse a Childeberto (della schiatta merovingia), re dei franchi, mandando degli ambasciatori, con cinquantamila solidi. Childeberto giunse in Italia, ma i longobardi ebbero la stessa idea dell'imperatore, offrirgli ricchi doni. Childeberto li accettò e se ne tornò quindi nelle Gallie. Maurizio, venuto a conoscenza di queste circostanze, richiese la restituzione di quanto aveva dato, senza però ottenerla.
Dopo Teodosio, nessuno degli imperatori era andato più a combattere con l'esercito, ma tutti avevano preferito rimanersene al sicuro nei palazzi di Costantinopoli. Maurizio decise, invece, di partire per andare a combattere gli àvari, non dando ascolto al senato, al patriarca e alla moglie, che volevano trattenerlo.
Si era allontanato per sette miglia da Costantinopoli, "sperando, con le preghiere ("anziché sfoderare la spada" aveva scritto Gibbon), di avere una risposta miracolosa". Ebbe, invece, presagi (all'epoca ritenuti sfavorevoli) come l'uccisione del suo cavallo preferito da parte di un cinghiale, una bufera di vento e di pioggia, la nascita di un bambino mostruoso. Decise, poco onorevolmente, di rientrare nella capitale, dicendo che andava a ricevere gli ambasciatori persiani. Affidò il comando dell'esercito a suo fratello Pietro, che si comportò peggio di lui, perché si dette alla fuga.
L'esercito, formato in buona parte di schiavi e mercenari, non aveva dei capi della tempra di Belisario e Narsete, che facessero sentire la loro autorità. Negli accampamenti serpeggiava la disubbidienza e vi erano continue e furiose sedizioni. Poiché le spese dell'esercito gravavano troppo sullo Stato e non vi erano rientri di bottino, con grosse vittorie, Maurizio aveva pensato d'introdurre una riforma, toccando la paga dei soldati.
Aveva emanato un editto in base al quale sottraeva dalle paghe, il prezzo dell'equipaggiamento dei soldati (armi e vesti). Questa iniziativa provocò un tale scontento che l'editto dovette essere revocato. A questo si aggiunse un altro errore: quello di non voler pagare un riscatto di seimila monete per dodicimila soldati prigionieri, che il re degli àvari minacciava di massacrare.
I soldati dichiararono Maurizio indegno di regnare e si diressero verso Costantinopoli.
Anche in città, il popolo mostrava il suo scontento e durante una processione Maurizio fu preso a sassate. Con la moglie e i nove figli (sul numero di questi non vi è molta certezza, alcuni parlano di nove, altri di cinque di cui tre femmine), si dette alla fuga, ma un vento violento gl'impedì di salpare, così andò a rifugiarsi in una chiesa. I due partiti, azzurri e verdi, designarono ciascuno un proprio candidato, Foca e Germano. Il popolo si recò da Foca, confermato dal senato e dal patriarca.
Foca (602-610), brutale e sanguinario, faceva parte degli ufficiali subalterni. Aveva il grado di centurione ed era stato eletto capo dai soldati, tra i quali si era distinto per le sue continue imprecazioni contro l'imperatore. Furono gli stessi soldati a dargli la porpora.
Foca era piccolo di statura e deforme, con ispide sopracciglia unite, rosso di capelli, senza barba, con una guancia sfigurata da un'enorme cicatrice. Ignorava le lettere, le leggi e le armi. Dopo aver ottenuto la carica imperiale, si dette alla lussuria e all'ubriachezza. Fu tanto spregevole che gli scrittori bizantini non lo hanno mai indicato col titolo di imperatore, ma considerato solo un vile usurpatore, indicandolo come "il tiranno", senza altri attributi.
Appena eletto, fece mandare a Roma il proprio ritratto e quello della moglie Leonzia (603), com'era consuetudine degl' imperatori appena saliti al trono.
Il ritratto era inviato anche a tutti i magistrati delle province, con seguito di soldati e flautisti. Al loro arrivo in città, la popolazione accoglieva il corteo in processione con ceri accesi, ed accompagnava le immagini imperiali (dette "laurata", forse perché il capo del sovrano era cinto di lauro).
A Roma, il ritratto di Foca e Leonzia fu portato in s. Giovanni in Laterano (allora detto "patriarchium").
Foca mostrò subito la brutalità di cui era capace, recandosi da Maurizio e facendo uccidere, sotto i suoi occhi, i figli maschi. Inutilmente la nutrice aveva offerto suo figlio, in cambio della vita di uno dei figli dell'imperatore (da questo episodio Corneille prenderà la trama della tragedia intitolata Heraclius). Quindi fece decapitare l'imperatore e gettare i cadaveri in putrefazione in mare. Poi fu il turno di tutti i suoi familiari e di chiunque potesse dargli ombra; soltanto la moglie di Maurizio, Costantina, e le tre figlie ebbero momentaneamente salva la vita.
In seguito, il sospetto di una cospirazione fece infuriare Foca, che si accanì contro Costantina, prima torturata e poi decapitata con le sue figlie.
Le crudeltà di Foca erano raccapriccianti. Tutte le congiure, appena scoperte, finivano in bagni di sangue. Si trafiggevano gli occhi, si strappava la lingua dalla radice, si amputavano mani e piedi. Alcuni morivano sotto le verghe, altri tra le fiamme, altri fatti bersaglio di frecce. L'ippodromo era pieno di teste, di membra e corpi straziati.
Soltanto da Roma Foca riuscì ad ottenere consenso. Già tra Roma e Costantinopoli era scoppiata una controversia, quando Gregorio I Magno (540-604) aveva protestato per l'uso del titolo di "patriarca ecumenico", di cui, da un secolo, si fregiavano i patriarchi di Costantinopoli. Mentre Maurizio non aveva dato peso e seguito a questa protesta, Foca si era mostrato disposto a cedere, emettendo un editto indirizzato al papa Bonifacio III (607), in cui riconosceva la chiesa di Roma a capo di tutte le chiese. In cambio di questo riconoscimento, Foca fu da Gregorio Magno glorificato con una colonna eretta nel Foro romano.
Àvari e slavi ripresero le incursioni e Kosroe II Parwiz (nipote di Kosroe I), per vendicare il suo amico Maurizio, riprese anch'egli la guerra, occupando Mesopotamia, Siria, Armenia ed Asia minore.
Dopo otto anni di regno, i metodi tirannici di Foca provocarono una rivolta di militari (610) ed egli fece una fine raccapricciante, degna delle sue brutalità.
Con Foca ebbe termine il periodo considerato dagli storici tardo-romano, che preclude al periodo greco-bizantino di Eraclio.

ERACLIO I RIFORMA LO STATO
ERACLEONA
COSTANTINO E MARTINA
COSTANTINO III-COSTANTE II


A Cartagine era esarca Eraclio, di origine armena, che non aveva accettato l'elezione di Foca e che, per contrastarlo, anche per le segrete richieste rivoltegli dal senato, aveva fatto partire (608) le sue truppe. Una parte doveva raggiungere Costantinopoli via terra, facendo tappa in Egitto: egli la affidò al comando di Niceta, figlio di un suo luogotenente e amico. L'altra, costituita dalla flotta, doveva raggiungere Costantinopoli via mare: l'affidò al figlio Eraclio.
Costui si diresse verso il Corno d'Oro e distrusse (610) la flotta di Foca, che, fatto prigioniero, fu portato alla presenza di Eraclio, in catene. L' esarca lo redarguì rinfacciandogli: <L'hai dunque governato tu questo impero?>, Foca gli rispose provocatoriamente: <Reggilo meglio, se ne sei capace>.
La fine di Foca fu una delle più atroci che si possano immaginare. Fu consegnato allo scorticatore, che gli tolse la pelle dal corpo come un guanto. Dopo essere stato tenuto in vita, per alcuni giorni, in quelle condizioni, fu bruciato sul rogo.
Eraclio (610-641), il giorno della sua incoronazione, sposò Fabia-Eudossia. L'unione durò solo due anni, il tempo per avere una figlia e un figlio, Eraclio-Costantino. Eudossia era malata d'epilessia e morì nello stesso anno in cui aveva dato alla luce Eraclio-Costantino (612).
Abbiamo visto in quali condizioni si trovava l'esercito, per cui Eraclio, nei primi anni di regno, dovette subire le invasioni dei persiani, che gli occuparono buona parte dell'impero. Essi, nel 612, presero Antiochia, Apamea e Cesarea; nel 614 Damasco, poi Gerusalemme, impadronendosi delle reliquie sacre ai bizantini. Nel 617 penetrarono in Egitto, poi in Asia minore, spingendosi fino a Calcedone (Bosforo). Eraclio, fatta la pace con il "khakhan" degli àvari, incominciò a ricostituire l'esercito, che aveva riorganizzato nei suoi quadri, addestrandolo anche con piccole spedizioni.
Successivamente, intraprese una grande offensiva contro i persiani, portando la guerra direttamente sul loro territorio. Durante la sua assenza, i persiani, alleatisi con gli àvari, posero l'assedio a Costantinopoli, che però resistette.
Poi Eraclio riuscì finalmente a sgominare l'esercito persiano, e, raggiunta Ninive, stava per investire la capitale, Ctesifonte (628), quando Kosroe II venne detronizzato e ucciso. Eraclio allora ritenne di non conquistare la città, cosa che gli avrebbe creato non pochi problemi, dato che trovò la disponibilità del nuovo re, Kavad II Shiroyeh, figlio del re ucciso, a firmare una pace remunerativa, che gli permise di rientrare in possesso di tutti i territori persi da Maurizio in poi, delle reliquie sottratte a Gerusalemme e del pagamento dei tributi di guerra.
Eraclio, dopo aver riportato le reliquie a Gerusalemme, rientrò, dopo sei anni di assenza, a Costantinopoli. La vittoria gli aveva dato grande prestigio. Potè quindi dedicarsi all'opera di fusione della popolazione dell'impero, dalle variegate diversità etniche, ed alla riorganizzazione dello Stato.
Eraclio, proseguì nell'organizzazione del territorio, già iniziata da Giustiniano con i distretti amministrativi "themata-temi", che, in un primo momento, erano zone di stanziamento dell'esercito per la difesa dei confini. I "temi" quindi erano costituiti da zone territoriali di confine, dov'erano dislocate le divisioni delle truppe. Ad ogni divisione era stato assegnato un proprio territorio. I primi "temi" furono quelli degli Armeniaci, degli Anatolici, dell'Opsichion e dei Traci. Poi si continuò nei secoli successivi, fino a raggiungere ventinove "temi" nel X sec..
Nel 680 a seguito della militarizzazione dell'apparato amministrativo imperiale, dovuta a motivi strategici ed alla necessità di approvigionamento delle truppe, vi fu la fusione dell'amministrazione militare con l'amministrazione tributaria in un'unica magistratura, con l'istituzione del logoteta militare (logothetese tou stratiotikou)
Eraclio, legando l'esercito ai "temi", legò i soldati (stratioti) al territorio, assegnando loro in proprietà dei poderi, che potevano essere trasmessi in eredità, con l'obbligo, anche per le generazioni successive, di prestazione del servizio militare ereditario e l'obbligo di presentazione su chiamata. Lo stratiota, cioè, ogniqualvolta veniva chiamato, doveva presentarsi con armi e cavallo. Per questo servizio gli veniva riconosciuto anche un minimo di paga.
Altra questione, per la quale si presentava la necessità di una soluzione, era quella religiosa tra ortodossi e monofisiti.
Come abbiamo visto, la questione verteva sulla "natura" di Cristo. Eraclio pensò di risolverla (suoi consiglieri erano i patriarchi Sergio di Costantinopoli, ortodosso, e Ciro di Alessandria, monofisita), cambiando indirizzo. Dalla "natura" di Cristo (natura umana e natura divina), si passò alla "volontà" di Cristo, con la formula della "fede monoteletica" indicata in Ektesisis, in cui dichiarava che in Cristo vi era una sola volontà (v. Schegge: Le dottrine Cristologiche). Dottrina che l'imperatore impose a tutti.
Questa nuova formula però non accontentò nessuno, anzi, scontentò tutti, ortodossi e monofisiti. Da Roma giunse anche l'opposizione del papa.
Il regno di Eraclio è considerato come il periodo finale dell'impero latino, con il definitivo distacco da Roma, durante il quale si era compiuto il lento processo di grecizzazione. E' con Eraclio che l'impero latino diventa greco-bizantino. I nomi romani sono sostituiti da quelli greci, cambiano i nomi di tutta la scala gerarchica, militare e burocratica, iniziando dall'imperatore, che diventa basileus. La lingua latina, rimasta solo per i documenti ufficiali (ricordiamo che il Corpus juris di Giustiniano era stato scritto in latino, mentre solo le Novelle - come abbiamo visto in Cap. III - che avrebbero avuto applicazione pratica, erano state scritte in greco), è ora sostituita dal greco. Gli imperatori rimangono comunque "imperatori romani" e i sudditi "romei-rhomaioi".
Sotto Eraclio l'impero, ristrutturato, appare un po' ridotto nella sua estensione, ma, comunque, è più compatto. Esso però non riesce a trovar pace, perché all'orizzonte incominciano ad apparire nuovi conquistatori: non più orde di barbari, ma tribù provenienti dai deserti dell'Arabia, accomunati da un'unica fede religiosa.
A costoro fu dato il nome generico di arabi. Essi combattevano spinti dall'entusiasmo travolgente della loro fede religiosa e colsero Eraclio quando ancora era stremato per le guerre persiane. Nel 634 le forze bizantine subirono un prima sconfitta a Rannah Moab. L'anno successivo (635) a Damasco ed ancora (636) a Yarmuk. In Siria, che contestava le decisioni centralistiche (religiose) dell'imperatore, la popolazione preferì parteggiare per i nuovi conquistatori e fu lasciata al suo destino.
Dopo la morte della moglie Eudossia, Eraclio aveva sposato la giovanissima nipote Martina, contro il volere del patriarca che considerava il legame incestuoso. Martina gli darà ben nove figli, dei quali i due maggiori nacquero deformi e quattro morirono in tenera età.
Secondo la superstizione di quei tempi, il vecchio Eraclio era stato punito con la sua malattia e la deformità dei figli per l'incesto commesso.
A Costantino (nato dalle prime nozze), di debole costituzione, all'età di ventotto anni, il padre concesse il titolo di <Augusto>, associandolo al trono. Martina, gelosa per questo riconoscimento, con le sue arti femminili, aiutata dalla sua giovinezza, riuscì ad ottenere dal vecchio imperatore l'associazione al trono anche per un suo figlio, Eracleona (diminutivo d'Eraclio), che aveva allora quindici anni.
La cerimonia di associazione fu fatta per ambedue, che apparvero uno al braccio dell'altro, per dimostrare l'unione che esisteva tra loro.
L'imperatore morì dopo lunga sofferenza (641). Aveva regnato per trent'anni e il suo regno era stato uno dei migliori che l'impero potesse ricordare. Egli lasciava l'impero ai due fratellastri, disponendo che Martina fosse considerata imperatrice madre.
Martina però era odiata dal popolo, fin dal momento del suo matrimonio, e quando fu reso pubblico il testamento dell' imperatore, il popolo pur accettando i due co-imperatori, non accettò per lei né la carica d'imperatrice, né la sua partecipazione al potere.
Si formarono quindi due partiti, uno parteggiava per Costantino III detto anche Costante II, l'altro per Eracleona e per Martina. Nel frattempo il giovane Costantino moriva (probabilmente di tisi), a trent'anni. Rimaneva il solo Eracleona, con la madre, che ne approfittò subito per mandare in esilio tutti quelli che avevano sostenuto Costantino.
La parte più elevata dello Stato non accettava ancora né la madre, né il figlio. A un certo punto Martina fu anche accusata di aver avvelenato Costantino.
Eracleona cercò di correre ai ripari, associando al trono, il figlio di Costantino, Eraclio, ma non servì, perché le truppe di stanza in Asia minore furono sobillate contro la coppia regnante ed il senato dispose la deposizione di ambedue.
Ad Eracleona fu tagliato il naso. La mutilazione doveva servire a rendere chi la subiva incapace a ricoprire le cariche pubbliche. A Martina fu tagliata la lingua. Entrambi furono esiliati a Rodi. Eraclio (che aveva undici anni) fu incoronato col nome di Costantino III, ma dal popolo fu chiamato Costante II.
Con Eracleona, era la prima volta che veniva operata la mutilazione del naso. Questo tipo di menomazione, come le altre, era d'origine orientale e fu adottata, come d'altronde altre usanze, dagli imperatori bizantini. Le mutilazioni furono poi codificate per la prima volta nella <Ecloga> di Leone III (v. più avanti).
Il taglio del naso, come vedremo, sarà ripetuto con Giustiniano II, ma verrà in seguito abbandonato perché non era stato di ostacolo all'esercizio della sovranità, avendo Giustiniano II ugualmente regnato senza naso.
Costante II (641-668) aveva proceduto alla colonizzazione in massa (iniziata con Eraclio), trasferendo la popolazione degli slavi (665) dai Balcani all' Asia minore. Nel 665, però, una divisione di cinquemila soldati, passò agli arabi che la fecero stabilire in Siria.

COSTANTINO IV
LE EFFERATEZZE DI GIUSTINIANO II
GLI USURPATORI:
LEONZIO E TIBERIO III APSIMAR


A Costante II succedette Costantino IV Pogomate (Barba lunga: 668-685), che fu incoronato all'età di sedici anni. Sotto questo imperatore si verificò un avvenimento che avrebbe coinvolto l'intera Europa. Erano gli arabi, che incominciavano a sferrare, in maniera massiccia ed insistente, i loro attacchi per conquistare la capitale.
Non vi riuscirono perché Costantinopoli aveva mura possenti e perché furono scoraggiati dal fuoco greco, di cui avevano paura.
Si trattava di una mistura incendiaria, composta di olio di nafta, zolfo, pece, salnitro, ed altri ingredienti, inventata dal siriano Callinico. Essa veniva sparata da un tubo con uno stantuffo, collegato alla testa di un drago, sulla prua della nave. Questo lanciafiamme (non si sa bene come funzionasse non essendo state trovate descrizioni particolareggiate) sparava una fiamma a grande distanza, che nel cielo sembrava un drago di fuoco e che, cadendo sulle navi, le incendiava in gran numero. La sostanza si attaccava dappertutto e non c'era verso di spegnerla, perchè era resistente anche all' acqua. Il mare dopo un combattimento era coperto di fuoco. Se la fiamma veniva lanciata sui soldati, essa si attaccava alla pelle o alle vesti; peggio se avevano un' armatura: morivano tra spasmi atroci. Gli arabi ne erano terrorizzati e vedendola, spaventati, si davano alla fuga.
Sebbene la flotta araba abbia insistito per qualche anno ad ogni primavera a battere le acque del mar Nero, alla fine (677) si ritirò ed anzi fu anche distrutta da una tempesta. Ne acquistò prestigio l'imperatore, al quale pervennero gli omaggi, inviati con ambascerie, del khan degli àvari e delle tribù degli slavi, per la raggiunta pace tra Occidente e Oriente.
Essendosi la dottrina monotelita rivelata inefficace, l'imperatore indisse (come abbiamo visto in Schede: Le dottrine cristologiche) il VI Concilio ecumenico (v. anche in Cronologia dei Concili) a Costantinopoli, dirigendolo personalmente; alla fine fu acclamato come l'interprete della vera fede: <Tu hai rivelato l'essenza delle nature di Cristo. Signore, proteggi la Luce del mondo. Eterna memoria a Costantino, al nuovo Marciano. Eterna memoria a Costantino, al nuovo Giustiniano. Tu hai distrutto tutti gli eretici>.
Costantino IV mirava al potere assoluto e dopo il Concilio, che lo aveva rafforzato nel potere, privò della corona i suoi fratelli, Eraclio e Tiberio, incoronati quando era ancora in vita il padre. Ma trovò l'opposizione del senato e dell'esercito, che volevano mantenere in vita quelle regole, interpretate in senso mistico-cristiano.
Il tema d'Anatolia si era addirittura espresso contro l'atteggiamento dell'imperatore, facendogli sapere che: <noi crediamo nella Trinità e vogliamo vedere anche tre coronati>. Costantino IV però procedette ugualmente per la sua strada. Prima tolse ai due fratelli i titoli e poi (681) fece tagliare, a tutti e due, il naso. I rappresentanti del tema anatolico furono tutti uccisi.
Questo colpo di stato portò come conseguenza la fine delle lotte fratricide protrattesi per tanto tempo, essendo stato affermato che l'imperatore era uno solo e il successore doveva essere solo uno, il primogenito, che veniva associato con il sistema della co-reggenza, in modo da assicurare la continuità. Ma solo questa, in quanto il co-reggente non aveva alcuna partecipazione all'esercizio del potere, che rimaneva tutto nelle mani dell'imperatore.
Dopo un regno di diciassette anni, Costantino IV morì precocemente, all'età di trentatre anni; gli succedette il figlio Giustiniano II (685-95:705-11), salito anch'egli al trono alla stessa età del padre, a sedici anni. Il suo regno durò poco meno di quello del padre: sedici anni, durante i quali dimostrò un dispotismo sfrenato e sanguinario, deportando, a scopo di ripopolamento, intere popolazioni e imponendo duri gravami fiscali.
Incaricati delle finanze erano due funzionari, Stefano e Teodoro. Costoro, per la loro spietatezza e brutalità, si attirarono l'odio della popolazione, che sfociò in una rivolta contro Giustiniano II. I due perirono travolti dalla furia della folla; Giustiniano fu deposto, gli fu tagliato il naso ed esiliato a Cherson, nel Ponto (695).
Nell'assenza di Giustiniano, si era impossessato del trono Leonzio (695-698), sostenuto dal partito degli azzurri, stratega del tema dell'Ellade, il quale era stato il primo di una serie di usurpatori, che si alterneranno fino a Teodosio III.
Contro Leonzio si levò Tiberio (Apsimar) che, sostenuto dal partito dei verdi, gli tolse l'impero (698-705), tenendolo rinchiuso in un monastero per tutto il tempo del suo regno, dopo avergli fatto tagliare il naso, come lui aveva fatto con Giustiniano.
Nel frattempo Giustiniano II, riusciva a fuggire da Cherson, rifugiandosi presso il khan dei Cazari e prendendone in moglie la sorella. Questa, convertitasi, prese il nome di Teodora, come la più famosa imperatrice, moglie di Giustiniano I.
Tiberio, nel frattempo, mandò un'ambasceria al khan per reclamare l'estradizione di Giustiniano II. Il khan, per non turbare i rapporti con Bisanzio, si decise a consegnare Giustiniano, il quale, preavvertito in tempo, pensò di mettersi al sicuro fuggendo e rifugiandosi presso Tervel (o Terebello), re dei Bulgari, che lo aiutò a riprendere il trono (705).
Giustiniano si presentò sotto le mura di Costantinopoli, accompagnato da Tervel e dal suo numeroso esercito, ma le mura di Costantinopoli erano possenti e l'assedio non portava a nulla.. Giustiniano, però, con alcuni compagni riuscì ugualmente a penetrare in città attraverso le fogne. La sorpresa suscitò il panico in città e Tiberio si detta alla fuga. Giustiniano riuscì quindi ad insediarsi nel palazzo Blachernae e a riprendere il trono, dopo un'assenza di dieci anni.
Giustiniano II, ripreso il trono, si vendicò subito di Leone-Leonzio e Tiberio Apsimar, che fece sgozzare nel circo, in presenza di tutto il popolo. Inoltre eliminò tutti i patrizi che l'avevano deposto e tutti i suoi nemici, facendoli impalare, decapitare o accecare, come nel caso del patriarca Gallinico, che aveva incoronato i due usurpatori.
Giustiniano pensò solo a vendicarsi dei nemici interni, incurante degli arabi, che s'impadronivano di Tiana (709), una delle più importanti fortezze ai confini della Cappadocia. Mandò una spedizione a Ravenna, perché i ravennati si erano mostrati ostili durante la prima parte del suo regno, facendo devastare e saccheggiare la città. I più eminenti cittadini furono portati a Costantinopoli, dove furono uccisi; al vescovo furono cavati gli occhi.
Giustiniano II governò, incurante della mutilazione del naso tagliato (da ciò il soprannome di Rinotmetos), per sei anni (705-711), prendendo con sé la moglie chazara, che gli aveva dato un figlio, chiamato Tiberio e nominato co-imperatore.
L'imperatore durante questo secondo periodo di regno, oltre ad essersi comportato con inaudita ferocia, per vendicarsi del taglio del naso che aveva subito, aveva dato disposizione che tutte le volte che doveva pulirlo (e in inverno gli gocciolava per il freddo), un suo nemico doveva essere sgozzato.
Non contento dei massacri fatti a Costantinopoli, come aveva fatto con Ravenna, mandò una spedizione punitiva a Cherson dove era stato tenuto prigioniero. I chersonesi però si ribellarono e anche l'esercito e la flotta si ammutinarono e proclamarono imperatore l'armeno Filippico (711-713) detto Bardane, il quale si presentò con la flotta sotto le mura di Costantinopoli. La città aprì subito le porte e Filippico fu proclamato imperatore.
Nessuno era disposto a difendere Giustiniano, che fu ucciso da uno dei suoi ufficiali. Gli fu tagliata la testa e mandata a Ravenna e Roma per essere esposta in pubblico. Anche il figlio Tiberio, fu ucciso.
Ebbe termine la dinastia del grande Eraclio, una delle vere e proprie dinastie dell'impero bizantino, che aveva regnato per un secolo e aveva dato imperatori-statisti di grande spessore.

FILIPPICO BARDANE
ARTEMISIO-ANASTASIO II E TEODOSIO III


Il regno di Filippico Bardane (711-13) fu breve, ma carico di avvenimenti di carattere religioso. Con Filippico le diatribe dottrinarie presero una piega diversa. Incomincia infatti a delinearsi quello che sarà il nuovo indirizzo delle future diatribe (e lotte) religiose, che dalla cristologia si riverseranno sulle immagini.
Filippico, essendo di origine armena, aveva tendenze monofisite, dichiarate, come abbiamo visto, eretiche. Non solo, ma più specificamente Filippico era di tendenza monotelita, anch'essa ritenuta eretica dal VI Concilio.
Filippico , nel mandare a Roma la sua effige, inviò anche al papa Costantino I una confessione di fede, piena di accenti monoteliti. La reazione romana non si fece attendere: l'effige dell'imperatore non fu esposta in chiesa e non fu neanche coniata sulle monete; il suo nome non venne menzionato nelle funzioni religiose e nella datazione degli avvenimenti.
Filippico, a sua volta, emanò un editto imperiale con cui condannava il VI Concilio, dichiarando il monotelismo la sola dottrina ortodossa. Filippico inoltre sostituiva il patriarca Ciro, nominato da Giustiniano II, con il patriarca Sergio.
Poiché il VI Concilio era stato rappresentato in un dipinto, con iscrizione commemorativa sulla Porta Milion, Filippico fece cancellare questa iscrizione commemorativa e fece rimuovere il dipinto. Il papa, a sua volta, fece dipingere in san Pietro, la rappresentazione di tutti e sei i concili.
Erano le premesse di quella che sarà la futura lotta iconoclasta.
La presa di posizione religiosa di Filippico non fece altro che accelerare la sua caduta. Mentre le incursioni arabe si aggravavano, Tervel, khan dei bulgari, raggiunse Costantinopoli fin sotto le mura. Si rese necessario far venire le truppe dal tema Opsikion, che però si rivoltarono. Filippico, fu deposto ed accecato (713).
Questa volta fu eletto imperatore, un funzionario civile di corte, di nome Artemisio che prese il nome di Anastasio (713-16). Era il secondo con questo nome e si dichiarò di fede cattolica, mandando al papa Costantino a Roma una lettera, recapitata a mezzo dell'esarca di Ravenna, Scolastico, con la quale oltre a dichiararsi fautore della fede cattolica, dichiarava di accettare il VI concilio.
Il nuovo imperatore fece anche rimuovere le effigi di Filippico e del patriarca Sergio, ma il suo regno fu di breve durata. Gli stessi soldati del tema di Opsikion, che lo avevano sostenuto, mandati a fronteggiare gli arabi si ribellarono, proclamando imperatore un certo Teodosio, esattore delle tasse, il quale impreparato ad affrontare la carica e le incognite, pensò di sottrarsi,dandosi alla fuga. Ma i soldati opsiciani, con l'appoggio degli ostrogoti grecizzati (gotogreci), confermarono Teodosio (716-17), che fu terzo con quel nome e che, detronizzato Anastasio, gli fece prendere il saio, ordinare presbiterio e giurare fedeltà.
Il regno di Teodosio III, imperatore suo malgrado, durò ancora meno degli altri usurpatori che lo avevano preceduto. Egli, debole, fu travolto dalla forza di un generale, che aveva iniziato la sua carriera sotto Giustiniano II. Il suo nome era Leone.
Dopo la serie di usurpatori, Leone prenderà il potere ed inaugurerà una nuova dinastia, conosciuta come isaurica. Le lotte di religione non avranno tregua e prenderanno un'altra direzione. Questa volta si tratterà di guerre fondate sulle immagini, in cui si distinguerà la nuova dinastia, come vedremo nel prossimo capitolo.

 

Fine capitolo quinto

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continua... (capitolo sesto) (... in preparazione)

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