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I MILLE ANNI |
L'impero con Giustiniano, grazie ai due grandi generali Belisario
e Narsete, aveva raggiunto il massimo della sua espansione. L'imperatore
aveva ricostituito, anche con sacrifici economici, l'insieme
dei territori (tutta la Gallia e buona parte della Spagna escluse),
del vecchio "Impero Romano", non suscettibile di ulteriore
espansione.
Infatti, a nord-est i confini erano bloccati dagli àvari
(popolazione unno-turco-mongolica), occupati cinque anni prima
della morte di Giustiniano (560); l'Illiria era chiusa a nord
dai longobardi; a nord-ovest dell'Italia, nella Gallia, erano
insediati i burgundi; la Spagna era sotto il regno dei visigoti,
ad eccezione della protuberanza di nord-ovest, che si affacciava
sull'Atlantico e sul golfo di Biscaglia, dov'erano insediati i
Suebi (popolazione germanica, da cui deriveranno gli svevi).
A sud della Spagna, vi era la Mauritania, affacciata sul Mediterraneo,
che proseguiva nella fascia a nord dell'Africa con
l'Egitto, Siria, Medio oriente, andando a congiungersi a Costantinopoli
(v. pianta nel cap. III). La conquista dell'Africa, da parte di
Belisario (533-34), comportò una vera e propria pulizia
etnica, con l'eliminazione di tutti i vandali che l'abitavano.
Di questa popolazione, quelli che riuscirono a salvarsi, con donne
e bambini, furono ridotti in schiavitù (come vedremo nell'articolo:
I barbari).
Giustiniano aveva dato all'impero grandezza e splendore, ma
era solo la facciata. L'Impero, infatti, mentre all'esterno appariva
splendido, all'interno aveva un popolo, che piangeva le proprie
miserie e le vessazioni fiscali, come abbiamo visto dai racconti
di Procopio (cap. III).
L'inasprimento fiscale e i prestiti forzosi erano stati dovuti
prima alle ricostruzioni e alle guerre, poi agli impegni presi
da Giustiniano con i persiani (562) e, nello stesso periodo,
con gli unni, bulgari e slavi, che avevano invaso l'Illiria, la
Macedonia e la Tracia.
Giustiniano, non avendo potuto respingere questi invasori con
le armi, aveva pensato di tenerli a bada con il pagamento di tributi,
gravosi per lo Stato e per i cittadini.
L'imperatore, in religione, come abbiamo visto, era rigidamente
ortodosso. Egli non solo applicava e osservava integralmente
i precetti religiosi, ma combatteva tutti i non ortodossi, comportandosi
da "fondamentalista" (come si direbbe oggi).
Egli, poi, la praticava con la massima assiduità e devozione,
partecipando alle preghiere, alle veglie e ai digiuni (come un
"monaco" aveva scritto Gibbon). Nello stesso tempo
(sin dai primi anni della sua elezione) non aveva dato pace a
pagani, eretici e samaritani, perseguitandoli.
Aveva, infatti, tolto loro il diritto di fare testamenti e donazioni,
di stare in giudizio nelle cause con ortodossi e di avere schiavi
ortodossi o di ricoprire cariche e dignità. Nel 529, aveva
imposto ai pagani di convertirsi e farsi battezzare, oppure,
di andarsene in esilio (con espropriazione dei loro beni). Ai
non cristiani, giunse anche il divieto d' insegnare, che aveva
portato come conseguenza la soppressione della gloriosa Scuola
filosofica d'Atene, dopo novecento anni d'esistenza.
L'imperatore, nel porre in atto queste discriminazioni, aveva
in mente "l'impero universale", che conteneva in sé,
tutti i crismi della teocrazia, retta dalla sacralità
dell'imperatore, accentuata da un complicato cerimoniale.
"L'impero universale" (esaltato da Dante nel Paradiso,V)
doveva essere costituito da un territorio (corrispondente a
quello dell'impero romano), unificato nella religione dei suoi
abitanti, vale a dire, di tutti coloro che credevano in Cristo,
Dio e Salvatore.
Molte delle sue notti insonni, Giustiniano le aveva passate discutendo
di religione, con vecchi venerandi sapienti e consultando libri
religiosi. Quando tra i suoi titoli era indicato il nome di "Pio",
egli se ne compiaceva grandemente.
Negli ultimi anni della sua vita, tale predisposizione religiosa
e ascetica aveva avuto il sopravvento, portandolo ad una vita
contemplativa, che gli faceva trascurare le cose terrene e l'attività
di governo.
Giustiniano non aveva figli, ma sette nipoti, figli del fratello
Germano e della sorella Vigilanzia. Vivevano tutti a corte, educati
nello splendore di una vita principesca. Ad essi ereano stati
assegnati posti di comando nell'esercito e nelle province, per tenerli lontani dal
potere centrale. L'imperatore, infatti, non aveva associato nel regno
nessuno dei nipoti e rimandava continuamente la scelta e la nomina
(perché il potere è una droga che non si vuol condividere
con nessuno, nda.), assumendo lo stesso atteggiamento tenuto con
lui dallo zio Giustino I.
Non si sa bene se il suo prediletto fosse effettivamente
Giustino, figlio di Vigilanzia, ma appena morto l'imperatore (poco
prima della mezzanotte tra il 13 e 14 nov. 565), la notizia non
fu fatta trapelare, per evitare disordini. Un gruppo di suoi amici
e sostenitori si recò nei suoi appartamenti, e, presentatisi
alla servitù come rappresentanti del senato, lo fecero svegliare,
convincendolo ad accettare subito la nomina.
Essi raccontarono a Giustino che l'imperatore, prima di morire,
aveva indicato lui come il più diletto e meritevole dei
suoi nipoti.
Giustino, dopo aver mostrato sorpresa, dolore e dignitosa modestia,
anche su consiglio della moglie Sofia, accettò e fu condotto
al "sacro palazzo", dove fu vestito degli abiti imperiali
(veste di porpora, tunica bianca e calzari rossi). Un soldato
della guardia ebbe la presenza di spirito di mettergli attorno
al collo la collana militare (e fu subito promosso tribuno).
Quindi, Giustino fu sollevato sullo scudo, ricevendo l'adorazione
di tutti i cortigiani e la benedizione del patriarca, che gli
pose, sul capo, il diadema.
In mattinata, la popolazione si radunò nell'ippodromo,
dove apparve il nuovo imperatore, che assiso sul trono, fu acclamato
da ambedue le fazioni, azzurri e verdi.
Ma il popolo rumoreggiò, chiedendo a Giustino, la restituzione
dei prestiti fatti allo Stato, per la guerra e per il riscatto
dei prigionieri. L'imperatore promise che avrebbe fatto giustizia
degli abusi commessi negli ultimi anni da Giustiniano. Giustino
promise un governo giusto e benefico e l'immediato pagamento dei
debiti dello zio. Fece subito presentare una schiera di servitori,
che portavano sacchetti d'oro, mettendoli a disposizione, come
dono spontaneo, dei creditori di Giustiniano.
Altrettanto magnanimamente si comportò in seguito la
moglie Sofia (nipote dell'imperatrice Teodora), che liberò
molti cittadini poveri dai debiti e dall'usura.
Nei giorni che seguirono l'incoronazione, Giustino incominciò
a ricevere le ambascerie.
La prima fu quella degli àvari, accolti in un'atmosfera
di sfarzo, non insolito per la corte bizantina, ma che voleva
anche avere l'effetto d'impressionare i visitatori. L'ambasceria
attraversò il lungo percorso, dalla porta del sacro palazzo
agli ampi cortili, ai portici, fino alla sala del trono, tra due
file interminabili di guardie (selezionate in base al fisico atletico),
parate con superbi cimieri e scudi aurei, che presentavano lance
e asce, dando il senso della potenza militare.
Tutti i membri della corte, nei loro abiti sfarzosi, erano disposti
secondo l'ordine della gerarchia militare e civile.
Il trono era posto sotto un baldacchino, sostenuto da quattro
colonne e sormontato da una statua alata della vittoria. Era coperto
da un velo, che fu sollevato per fare apparire l'imperatore in
tutta la sua magnificenza.
Dopo i primi attimi di sorpresa, Tangezio, capo dell'ambasceria,
senza lasciarsi troppo impressionare, attraverso l'interprete
espose liberamente e con orgoglio il suo pensiero. Tangezio, dopo
aver esaltato la grandezza del suo re, faceva presente all'imperatore
che "solo la clemenza del suo popolo, che ora abitava le
rive del Danubio, dopo aver attraversato i fiumi gelati della
Scizia, permetteva una tranquilla esistenza ai popoli del Mezzogiorno
(l'impero). Il defunto imperatore" riferiva Tangezio "aveva
coltivato annualmente, con magnifici doni, l'amicizia di un monarca
riconoscente. Gli stessi nemici di Roma" aggiungeva l'ambasciatore
"rispettavano anche gli alleati degli àvari".
Tangezio suggeriva quindi all'imperatore "di seguire lo
zio Giustiniano, imitandone la liberalità e assicurandosi
i benefici della pace con un popolo invincibile ed esperto negli
esercizi di guerra, in cui eccelleva".
L'imperatore, a sua volta, rispose con la stessa provocatoria
alterigia, richiamando la fiducia nel Dio dei cristiani, nella
gloria dell'antica Roma, e i trionfi dello zio Giustiniano. "L'impero"
aggiunse "abbonda di uomini, cavalli ed armi, sufficienti
a difendere le frontiere e punire i barbari. Voi offrite aiuto,
minacciate ostilità, noi disprezziamo la vostra inimicizia
e i vostri aiuti
nostro zio si mostrò benigno verso
le vostre miserie, piegandosi alle vostre umili preghiere. Noi
vi faremo un più importante servizio: farvi conoscere la
vostra debolezza. Ritiratevi dal nostro cospetto" concluse
l'imperatore "la vita degli ambasciatori è sacra.
Se ritornerete ad implorare il nostro perdono, forse, godrete
della nostra bontà".
Riferito l'esito dell'ambasceria al loro re, gli àvari
rinunciarono, per il momento, a molestare i confini dell'impero,
in attesa di tempi migliori.
Fu poi la volta dell'ambasceria di Kosroe I Anoshak-rawan (531-579),
che Giustiniano aveva tenuto a bada, col pagamento di un pesante
tributo, concordato nel 562. L'ambasciatore era venuto a riscuotere
il tributo. Le casse dello Stato però erano vuote, e Giustino
non avendo la possibilità di pagare, oppose un rifiuto,
che non poteva portare che alla guerra.
Ebbe inizio una lunga guerra, che si prolungò per quasi
venti anni. La posta in gioco era l'Armenia, che alla fine sarà
occupata dai persiani.
Il problema delle ostilità non fu solo con i persiani.
Ai confini dell'impero ebbe inizio un'opera di erosione da parte
delle tribù dei barbari, che continuò anche con
gl'imperatori, che seguirono Giustino II.
Gli àvari avanzarono verso ovest, occupando e stabilendosi
in Pannonia (568). I longobardi, nello stesso periodo, invasero
l'Italia settentrionale, conquistando Pavia e, lasciata Roma,
s'insediarono fino alla parte estrema della penisola. Leovigildo,
in Spagna, conquisterà la parte spagnola della Mauritania,
regnando quindi su tutta la penisola.
Giustino non aveva la tempra dello zio ed, in ogni caso, si era
trovato con le casse dello Stato vuote e con l'esercito in pessime
condizioni
Egli ci è stato descritto come un individuo mediocre, di
non alte capacità, avarissimo, che disprezzava i poveri,
e, contemporaneamente, depredava i senatori. Aveva raggiunto tali
maniaci eccessi di cupidigia da farsi fare delle casse di ferro,
dove ammucchiava i talenti d'oro, man mano che li rubava. L'imperatrice
Sofia lo rimproverava, per il rischio di ridurre lo Stato in
povertà. Alla fine, Giustino perse il lume della ragione
e divenne pazzo. "Dopo tredici anni di regno" scrive
il monaco cronista "fu liberato dalla pazzia e dalla vita"
(565-578).
A Giustino II, seguì Tiberio II-Costantino (578-582), che
Giustino aveva adottato come figlio ed erede (574), dandogli la
carica di Cesare e nominandolo "magister militum", ossia
generale in capo dell'esercito, al quale era riservato il comando
della guardia imperiale e del palazzo.
Contrariamente al suo predecessore, riuscì ad avere disponibilità
di oro. Pare che, mentre passeggiava nel palazzo, avesse visto
scolpita una croce su una lastra di marmo e che avesse detto
"Con la croce del signore dovremmo fortificare la nostra
fronte e il nostro petto, ed ecco che la calpestiamo con i nostri
piedi"; fece sollevare la lastra e ne trovò un'altra,
e poi una terza. Sotto questa, infine, trovò una gran
quantità d'oro, più di mille centenari, a dire del
cronista.
Pare, quindi, che Tiberio avesse fortuna nel trovar tesori, se sono veri
questi racconti. Egli comunque fu un regnante molto saggio ed
oculato nelle spese, per cui può darsi che queste doti
fossero state fatte passare per tesori trovati.
Gli avevano, infatti, riferito che il vecchio generale Narsete
aveva nascosto un tesoro nel suo palazzo in Italia. Il generale,
dopo aver fatto scavare una grande cisterna e aver ivi nascosto una
gran quantità d'oro e d'argento, aveva fatto uccidere coloro
che avevano eseguito lo scavo. Narsete però rivelò
il segreto ad un vecchio, sotto il vincolo del giuramento. Il
vecchio, dopo la morte del generale, andò a raccontarlo
a Tiberio, che mandò i suoi messi. Fu trovata la cisterna,
con tanto oro ed argento che ci vollero diversi giorni per
svuotarla.
Tiberio era un uomo avvenente e di bell'aspetto e aveva suscitato i desideri
amorosi di Sofia (moglie di Giustino II), la quale pensava di coinvolgerlo in una tresca per porterlo
avere in pugno e mantenere il suo posto di imperatrice ed il suo potere.
Ma Tiberio aveva già una sposa segreta, Anastasia, e pur respingendo le
"avances" dell' imperatrice madre aveva dimostrato la sua riconoscenza onorando
Sofia, alla quale aveva lasciato il suo posto a corte e gli onori. Ma Sofia volle
vendicarsi e ordì contro Tiberio una congiura, facendolo
sostituire da un nipote, Giustiniano (figlio di Germano), nel
periodo in cui Tiberio, durante la vendemmia, era andato a riposarsi
in campagna. Venutone però a conoscenza, Tiberio interruppe
la sua vacanza, rientrando a Costantinopoli e sventando la trama.
Sofia fu privata di tutti gli onori e le fu assegnato un modesto
appannaggio, Giustiniano ebbe salva la vita e gli fu, magnanimamente,
perdonato il tradimento.
Sotto Tiberio, una moltitudine di slavi avevano invaso e si erano
stabiliti in Tracia, Macedonia e Grecia. Nello stesso periodo,
Tiberio aveva sconfitto i persiani, ricavandone venti elefanti
e "tanto bottino da poter soddisfare la cupidigia umana".
Tiberio II è stato descritto "di grandissima bontà,
pronto alle elemosine, giusto nei giudizi, molto cauto nel pronunciare
una sentenza; non disprezzava nessuno ed era sempre pronto ad
abbracciare ed amare tutti, e da tutti era amato".
Purtroppo, con tutte queste fortune, il suo regno fu di breve
durata: di soli quattro anni (tre come Cesare).
Tiberio II si ammalò improvvisamente e, sentendo avvicinarsi
la morte, designò come futuro successore Maurizio, originario
della Cappadocia, al quale diede in moglie sua figlia Costantina,
con la raccomandazione di "amare sempre la giustizia e l'equità".
Maurizio (582-602), avendo ereditato la guerra con i persiani,
pensò alla difesa dell'oriente richiamando le truppe dall'occidente.
Trasformò quindi in "esarcati" (l'esarca era
la massima autorità civile e militare) quello che rimaneva
delle province d'Italia (con capitale Ravenna) e d'Africa (con
capitale Cartagine).
Maurizio riuscì a raggiungere la pace con i persiani, perdendo
però l'Armenia. Non riuscì, invece, a liberarsi degli
slavi, che rimasero in Grecia e Macedonia.
Per riconquistare i territori italiani, occupati dai longobardi,
si rivolse a Childeberto (della schiatta merovingia), re dei franchi,
mandando degli ambasciatori, con cinquantamila solidi. Childeberto
giunse in Italia, ma i longobardi ebbero la stessa idea dell'imperatore,
offrirgli ricchi doni. Childeberto li accettò e se ne tornò quindi
nelle Gallie. Maurizio, venuto a conoscenza di queste circostanze,
richiese la restituzione di quanto aveva dato, senza però
ottenerla.
Dopo Teodosio, nessuno degli imperatori era andato più
a combattere con l'esercito, ma tutti avevano preferito rimanersene
al sicuro nei palazzi di Costantinopoli. Maurizio decise, invece,
di partire per andare a combattere gli àvari, non dando ascolto al
senato, al patriarca e alla moglie, che volevano trattenerlo.
Si era allontanato per sette miglia da Costantinopoli, "sperando,
con le preghiere ("anziché sfoderare la spada"
aveva scritto Gibbon), di avere una risposta miracolosa".
Ebbe, invece, presagi (all'epoca ritenuti sfavorevoli) come l'uccisione
del suo cavallo preferito da parte di un cinghiale, una bufera
di vento e di pioggia, la nascita di un bambino mostruoso. Decise,
poco onorevolmente, di rientrare nella capitale, dicendo che andava
a ricevere gli ambasciatori persiani. Affidò il comando
dell'esercito a suo fratello Pietro, che si comportò peggio
di lui, perché si dette alla fuga.
L'esercito, formato in buona parte di schiavi e mercenari, non
aveva dei capi della tempra di Belisario e Narsete, che facessero
sentire la loro autorità. Negli accampamenti serpeggiava
la disubbidienza e vi erano continue e furiose sedizioni. Poiché
le spese dell'esercito gravavano troppo sullo Stato e non vi
erano rientri di bottino, con grosse vittorie, Maurizio aveva
pensato d'introdurre una riforma, toccando la paga dei soldati.
Aveva emanato un editto in base al quale sottraeva dalle paghe,
il prezzo dell'equipaggiamento dei soldati (armi e vesti). Questa
iniziativa provocò un tale scontento che l'editto dovette
essere revocato. A questo si aggiunse un altro errore: quello
di non voler pagare un riscatto di seimila monete per dodicimila
soldati prigionieri, che il re degli àvari minacciava di
massacrare.
I soldati dichiararono Maurizio indegno di regnare e si diressero
verso Costantinopoli.
Anche in città, il popolo mostrava il suo scontento e
durante una processione Maurizio fu preso a sassate. Con la moglie
e i nove figli (sul numero di questi non vi è molta certezza,
alcuni parlano di nove, altri di cinque di cui tre femmine), si
dette alla fuga, ma un vento violento gl'impedì
di salpare, così andò a rifugiarsi in una
chiesa. I due partiti, azzurri e verdi, designarono ciascuno un
proprio candidato, Foca e Germano. Il popolo si recò da
Foca, confermato dal senato e dal patriarca.
Foca (602-610), brutale e sanguinario, faceva parte degli ufficiali
subalterni. Aveva il grado di centurione ed era stato eletto capo
dai soldati, tra i quali si era distinto per le sue continue
imprecazioni contro l'imperatore. Furono gli stessi soldati a
dargli la porpora.
Foca era piccolo di statura e deforme, con ispide sopracciglia
unite, rosso di capelli, senza barba, con una guancia sfigurata
da un'enorme cicatrice. Ignorava le lettere, le leggi e le armi.
Dopo aver ottenuto la carica imperiale, si dette alla lussuria
e all'ubriachezza. Fu tanto spregevole che gli scrittori
bizantini non lo hanno mai indicato col titolo di imperatore,
ma considerato solo un vile usurpatore, indicandolo
come "il tiranno", senza altri attributi.
Appena eletto, fece mandare a Roma il proprio ritratto e quello
della moglie Leonzia (603), com'era consuetudine degl' imperatori
appena saliti al trono.
Il ritratto era inviato anche a tutti i magistrati delle province,
con seguito di soldati e flautisti. Al loro arrivo in città,
la popolazione accoglieva il corteo in processione con ceri accesi,
ed accompagnava le immagini imperiali (dette "laurata",
forse perché il capo del sovrano era cinto di lauro).
A Roma, il ritratto di Foca e Leonzia fu portato in s. Giovanni
in Laterano (allora detto "patriarchium").
Foca mostrò subito la brutalità di cui era capace,
recandosi da Maurizio e facendo uccidere, sotto i suoi occhi,
i figli maschi. Inutilmente la nutrice aveva offerto suo figlio, in cambio
della vita di uno dei figli dell'imperatore (da questo episodio
Corneille prenderà la trama della tragedia intitolata Heraclius).
Quindi fece decapitare l'imperatore e gettare i cadaveri in putrefazione in mare.
Poi fu il turno di tutti i suoi familiari e di chiunque potesse dargli ombra;
soltanto la moglie di Maurizio, Costantina, e le tre figlie ebbero momentaneamente salva la vita.
In seguito, il sospetto di una cospirazione fece infuriare Foca,
che si accanì contro Costantina, prima torturata e poi
decapitata con le sue figlie.
Le crudeltà di Foca erano raccapriccianti. Tutte le congiure,
appena scoperte, finivano in bagni di sangue. Si trafiggevano
gli occhi, si strappava la lingua dalla radice, si amputavano
mani e piedi. Alcuni morivano sotto le verghe, altri tra le fiamme,
altri fatti bersaglio di frecce. L'ippodromo era pieno di teste,
di membra e corpi straziati.
Soltanto da Roma Foca riuscì ad ottenere consenso. Già
tra Roma e Costantinopoli era scoppiata una controversia, quando
Gregorio I Magno (540-604) aveva protestato per l'uso del titolo
di "patriarca ecumenico", di cui, da un secolo, si fregiavano
i patriarchi di Costantinopoli. Mentre Maurizio non aveva dato
peso e seguito a questa protesta, Foca si era mostrato disposto
a cedere, emettendo un editto indirizzato al papa Bonifacio III
(607), in cui riconosceva la chiesa di Roma a capo di tutte le
chiese. In cambio di questo riconoscimento, Foca fu da Gregorio
Magno glorificato con una colonna eretta nel Foro romano.
Àvari e slavi ripresero le incursioni e Kosroe II Parwiz
(nipote di Kosroe I), per vendicare il suo amico Maurizio, riprese
anch'egli la guerra, occupando Mesopotamia, Siria, Armenia ed
Asia minore.
Dopo otto anni di regno, i metodi tirannici di Foca provocarono
una rivolta di militari (610) ed egli fece una fine raccapricciante,
degna delle sue brutalità.
Con Foca ebbe termine il periodo considerato dagli storici tardo-romano,
che preclude al periodo greco-bizantino di Eraclio.
A Cartagine era esarca
Eraclio, di origine armena, che non aveva
accettato l'elezione di Foca e che, per contrastarlo, anche per le
segrete richieste rivoltegli dal senato, aveva fatto partire (608)
le sue truppe. Una parte doveva raggiungere Costantinopoli
via terra, facendo tappa in Egitto: egli la affidò al comando
di Niceta, figlio di un suo luogotenente e amico. L'altra, costituita
dalla flotta, doveva raggiungere Costantinopoli via mare:
l'affidò al figlio Eraclio.
Costui si diresse verso il Corno d'Oro e distrusse (610) la flotta
di Foca, che, fatto prigioniero, fu portato alla presenza di Eraclio,
in catene. L' esarca lo redarguì rinfacciandogli: <L'hai
dunque governato tu questo impero?>, Foca gli rispose provocatoriamente:
<Reggilo meglio, se ne sei capace>.
La fine di Foca fu una delle più atroci che si possano immaginare.
Fu consegnato allo scorticatore, che gli tolse la pelle dal corpo
come un guanto. Dopo essere stato tenuto in vita, per alcuni giorni,
in quelle condizioni, fu bruciato sul rogo.
Eraclio (610-641), il giorno della sua incoronazione, sposò
Fabia-Eudossia. L'unione durò solo due anni, il tempo per
avere una figlia e un figlio, Eraclio-Costantino. Eudossia era
malata d'epilessia e morì nello stesso anno in cui aveva
dato alla luce Eraclio-Costantino (612).
Abbiamo visto in quali condizioni si trovava l'esercito, per cui
Eraclio, nei primi anni di regno, dovette subire le invasioni
dei persiani, che gli occuparono buona parte dell'impero. Essi,
nel 612, presero Antiochia, Apamea e Cesarea; nel 614 Damasco,
poi Gerusalemme, impadronendosi delle reliquie sacre ai bizantini.
Nel 617 penetrarono in Egitto, poi in Asia minore, spingendosi
fino a Calcedone (Bosforo). Eraclio, fatta la pace con il "khakhan"
degli àvari, incominciò a ricostituire l'esercito,
che aveva riorganizzato nei suoi quadri, addestrandolo anche con
piccole spedizioni.
Successivamente, intraprese una grande offensiva contro i persiani,
portando la guerra direttamente sul loro territorio. Durante la
sua assenza, i persiani, alleatisi con gli àvari, posero
l'assedio a Costantinopoli, che però resistette.
Poi Eraclio riuscì finalmente a sgominare l'esercito persiano,
e, raggiunta Ninive, stava per investire la capitale, Ctesifonte
(628), quando Kosroe II venne detronizzato e ucciso. Eraclio allora
ritenne di non conquistare la città, cosa che gli avrebbe creato
non pochi problemi, dato che trovò la disponibilità del nuovo re,
Kavad II Shiroyeh, figlio del re ucciso, a firmare una pace
remunerativa, che gli permise di rientrare in possesso di tutti
i territori persi da Maurizio in poi, delle reliquie sottratte
a Gerusalemme e del pagamento dei tributi di guerra.
Eraclio, dopo aver riportato le reliquie a Gerusalemme, rientrò,
dopo sei anni di assenza, a Costantinopoli. La vittoria gli aveva
dato grande prestigio. Potè quindi dedicarsi all'opera di fusione
della popolazione dell'impero, dalle variegate diversità
etniche, ed alla riorganizzazione dello Stato.
Eraclio, proseguì nell'organizzazione del territorio, già
iniziata da Giustiniano con i distretti amministrativi "themata-temi",
che, in un primo momento, erano zone di stanziamento dell'esercito
per la difesa dei confini. I "temi" quindi erano costituiti
da zone territoriali di confine, dov'erano dislocate le divisioni
delle truppe. Ad ogni divisione era stato assegnato un proprio
territorio. I primi "temi" furono quelli degli Armeniaci,
degli Anatolici, dell'Opsichion e dei Traci. Poi si continuò
nei secoli successivi, fino a raggiungere ventinove "temi"
nel X sec..
Nel 680 a seguito della militarizzazione dell'apparato amministrativo
imperiale, dovuta a motivi strategici ed alla necessità
di approvigionamento delle truppe, vi fu la fusione dell'amministrazione
militare con l'amministrazione tributaria in un'unica magistratura,
con l'istituzione del logoteta militare (logothetese tou stratiotikou)
Eraclio, legando l'esercito ai "temi", legò
i soldati (stratioti) al territorio, assegnando loro in proprietà
dei poderi, che potevano essere trasmessi in eredità, con
l'obbligo, anche per le generazioni successive, di prestazione
del servizio militare ereditario e l'obbligo di presentazione
su chiamata. Lo stratiota, cioè, ogniqualvolta veniva
chiamato, doveva presentarsi con armi e cavallo. Per questo servizio
gli veniva riconosciuto anche un minimo di paga.
Altra questione, per la quale si presentava la necessità
di una soluzione, era quella religiosa tra ortodossi e monofisiti.
Come abbiamo visto, la questione verteva sulla "natura"
di Cristo. Eraclio pensò di risolverla (suoi consiglieri
erano i patriarchi Sergio di Costantinopoli, ortodosso, e Ciro
di Alessandria, monofisita), cambiando indirizzo. Dalla "natura"
di Cristo (natura umana e natura divina), si passò alla
"volontà" di Cristo, con la formula della "fede
monoteletica" indicata in Ektesisis, in cui dichiarava
che in Cristo vi era una sola volontà (v. Schegge: Le dottrine
Cristologiche). Dottrina che l'imperatore impose a tutti.
Questa nuova formula però non accontentò nessuno,
anzi, scontentò tutti, ortodossi e monofisiti. Da Roma
giunse anche l'opposizione del papa.
Il regno di Eraclio è considerato come il periodo finale
dell'impero latino, con il definitivo distacco da Roma, durante
il quale si era compiuto il lento processo di grecizzazione. E'
con Eraclio che l'impero latino diventa greco-bizantino. I nomi
romani sono sostituiti da quelli greci, cambiano i nomi di tutta
la scala gerarchica, militare e burocratica, iniziando dall'imperatore,
che diventa basileus. La lingua latina, rimasta solo per i documenti
ufficiali (ricordiamo che il Corpus juris di Giustiniano era stato
scritto in latino, mentre solo le Novelle - come abbiamo visto
in Cap. III - che avrebbero avuto applicazione pratica, erano state
scritte in greco), è ora sostituita dal greco. Gli imperatori
rimangono comunque "imperatori romani" e i sudditi "romei-rhomaioi".
Sotto Eraclio l'impero, ristrutturato, appare un po' ridotto nella sua estensione,
ma, comunque, è più compatto. Esso però non
riesce a trovar pace, perché all'orizzonte incominciano
ad apparire nuovi conquistatori: non più orde di barbari,
ma tribù provenienti dai deserti dell'Arabia, accomunati
da un'unica fede religiosa.
A costoro fu dato il nome generico di arabi. Essi combattevano
spinti dall'entusiasmo travolgente della loro fede religiosa
e colsero Eraclio quando ancora era stremato per le guerre persiane.
Nel 634 le forze bizantine subirono un prima sconfitta a Rannah
Moab. L'anno successivo (635) a Damasco ed ancora (636) a Yarmuk.
In Siria, che contestava le decisioni centralistiche (religiose)
dell'imperatore, la popolazione preferì parteggiare per
i nuovi conquistatori e fu lasciata al suo destino.
Dopo la morte della moglie Eudossia, Eraclio aveva sposato la
giovanissima nipote Martina, contro il volere del patriarca che
considerava il legame incestuoso. Martina gli darà ben
nove figli, dei quali i due maggiori nacquero deformi e quattro
morirono in tenera età.
Secondo la superstizione di quei tempi, il vecchio Eraclio era
stato punito con la sua malattia e la deformità dei figli
per l'incesto commesso.
A Costantino (nato dalle prime nozze), di debole costituzione,
all'età di ventotto anni, il padre concesse il titolo
di <Augusto>, associandolo al trono. Martina, gelosa per
questo riconoscimento, con le sue arti femminili, aiutata dalla
sua giovinezza, riuscì ad ottenere dal vecchio imperatore
l'associazione al trono anche per un suo figlio, Eracleona
(diminutivo d'Eraclio), che aveva allora quindici anni.
La cerimonia di associazione fu fatta per ambedue, che apparvero
uno al braccio dell'altro, per dimostrare l'unione che esisteva
tra loro.
L'imperatore morì dopo lunga sofferenza (641). Aveva regnato
per trent'anni e il suo regno era stato uno dei migliori che l'impero
potesse ricordare. Egli lasciava l'impero ai due fratellastri,
disponendo che Martina fosse considerata imperatrice madre.
Martina però era odiata dal popolo, fin dal momento del
suo matrimonio, e quando fu reso pubblico il testamento dell' imperatore,
il popolo pur accettando i due co-imperatori, non accettò per lei
né la carica d'imperatrice, né la sua partecipazione
al potere.
Si formarono quindi due partiti, uno parteggiava per Costantino
III detto anche Costante II, l'altro per Eracleona e per Martina.
Nel frattempo il giovane Costantino moriva (probabilmente di tisi),
a trent'anni. Rimaneva il solo Eracleona, con la madre, che ne
approfittò subito per mandare in esilio tutti quelli che
avevano sostenuto Costantino.
La parte più elevata dello Stato non accettava ancora
né la madre, né il figlio. A un certo punto Martina
fu anche accusata di aver avvelenato Costantino.
Eracleona cercò di correre ai ripari, associando al trono,
il figlio di Costantino, Eraclio, ma non servì, perché
le truppe di stanza in Asia minore furono sobillate contro la
coppia regnante ed il senato dispose la deposizione di ambedue.
Ad Eracleona fu tagliato il naso. La mutilazione doveva servire
a rendere chi la subiva incapace a ricoprire le cariche pubbliche.
A Martina fu tagliata la lingua. Entrambi furono esiliati a Rodi.
Eraclio (che aveva undici anni) fu incoronato col nome di Costantino
III, ma dal popolo fu chiamato Costante II.
Con Eracleona, era la prima volta che veniva operata la mutilazione
del naso. Questo tipo di menomazione, come le altre, era d'origine
orientale e fu adottata, come d'altronde altre usanze, dagli
imperatori bizantini. Le mutilazioni furono poi codificate per
la prima volta nella <Ecloga> di Leone III (v. più
avanti).
Il taglio del naso, come vedremo, sarà ripetuto con Giustiniano
II, ma verrà in seguito abbandonato perché non
era stato di ostacolo all'esercizio della sovranità, avendo
Giustiniano II ugualmente regnato senza naso.
Costante II (641-668) aveva proceduto alla colonizzazione in
massa (iniziata con Eraclio), trasferendo la popolazione degli
slavi (665) dai Balcani all' Asia minore. Nel 665, però,
una divisione di cinquemila soldati, passò agli arabi
che la fecero stabilire in Siria.
A Costante II succedette
Costantino IV Pogomate (Barba lunga: 668-685), che
fu incoronato all'età di sedici anni. Sotto questo imperatore
si verificò un avvenimento che avrebbe coinvolto l'intera
Europa. Erano gli arabi, che incominciavano a sferrare, in maniera
massiccia ed insistente, i loro attacchi per conquistare la capitale.
Non vi riuscirono perché Costantinopoli aveva mura possenti
e perché furono scoraggiati dal fuoco greco, di cui avevano
paura.
Si trattava di una mistura incendiaria, composta di olio di nafta,
zolfo, pece, salnitro, ed altri ingredienti, inventata dal siriano
Callinico. Essa veniva sparata da un tubo con uno stantuffo, collegato alla testa
di un drago, sulla prua della nave. Questo lanciafiamme (non si sa bene
come funzionasse non essendo state trovate descrizioni particolareggiate) sparava
una fiamma a grande distanza, che nel cielo sembrava un drago di fuoco e che,
cadendo sulle navi, le incendiava in gran numero. La sostanza si attaccava
dappertutto e non c'era verso di spegnerla, perchè era resistente anche all' acqua.
Il mare dopo un combattimento era coperto di fuoco. Se la fiamma veniva
lanciata sui soldati, essa si attaccava alla pelle o alle vesti; peggio
se avevano un' armatura: morivano tra spasmi atroci. Gli arabi ne erano
terrorizzati e vedendola, spaventati, si davano alla fuga.
Sebbene la flotta araba abbia insistito per qualche anno ad ogni
primavera a battere le acque del mar Nero, alla fine (677) si ritirò ed anzi
fu anche distrutta da una tempesta. Ne acquistò prestigio
l'imperatore, al quale pervennero gli omaggi, inviati con ambascerie,
del khan degli àvari e delle tribù degli slavi,
per la raggiunta pace tra Occidente e Oriente.
Essendosi la dottrina monotelita rivelata inefficace, l'imperatore
indisse (come abbiamo visto in Schede: Le dottrine cristologiche)
il VI Concilio ecumenico (v. anche in Cronologia dei Concili)
a Costantinopoli, dirigendolo personalmente; alla fine fu acclamato
come l'interprete della vera fede: <Tu hai rivelato l'essenza
delle nature di Cristo. Signore, proteggi la Luce del mondo. Eterna
memoria a Costantino, al nuovo Marciano. Eterna memoria a Costantino,
al nuovo Giustiniano. Tu hai distrutto tutti gli eretici>.
Costantino IV mirava al potere assoluto e dopo il Concilio,
che lo aveva rafforzato nel potere, privò della corona i suoi fratelli,
Eraclio e Tiberio, incoronati quando era ancora in vita il padre.
Ma trovò l'opposizione del senato e dell'esercito, che
volevano mantenere in vita quelle regole, interpretate in senso
mistico-cristiano.
Il tema d'Anatolia si era addirittura espresso contro l'atteggiamento
dell'imperatore, facendogli sapere che: <noi crediamo nella
Trinità e vogliamo vedere anche tre coronati>. Costantino
IV però procedette ugualmente per la sua strada. Prima
tolse ai due fratelli i titoli e poi (681) fece tagliare, a tutti
e due, il naso. I rappresentanti del tema anatolico furono tutti
uccisi.
Questo colpo di stato portò come conseguenza la fine delle
lotte fratricide protrattesi per tanto tempo, essendo stato affermato
che l'imperatore era uno solo e il successore doveva essere solo
uno, il primogenito, che veniva associato con il sistema della
co-reggenza, in modo da assicurare la continuità. Ma solo
questa, in quanto il co-reggente non aveva alcuna partecipazione
all'esercizio del potere, che rimaneva tutto nelle mani dell'imperatore.
Dopo un regno di diciassette anni, Costantino IV morì
precocemente, all'età di trentatre anni; gli succedette
il figlio Giustiniano II (685-95:705-11), salito anch'egli al
trono alla stessa età del padre, a sedici anni. Il suo
regno durò poco meno di quello del padre: sedici anni,
durante i quali dimostrò un dispotismo sfrenato e sanguinario,
deportando, a scopo di ripopolamento, intere popolazioni e imponendo
duri gravami fiscali.
Incaricati delle finanze erano due funzionari, Stefano e Teodoro.
Costoro, per la loro spietatezza e brutalità, si attirarono
l'odio della popolazione, che sfociò in una rivolta contro
Giustiniano II. I due perirono travolti dalla furia della folla;
Giustiniano fu deposto, gli fu tagliato il naso ed esiliato a
Cherson, nel Ponto (695).
Nell'assenza di Giustiniano, si era impossessato del trono Leonzio
(695-698), sostenuto dal partito degli azzurri, stratega del
tema dell'Ellade, il quale era stato il primo di una serie di
usurpatori, che si alterneranno fino a Teodosio III.
Contro Leonzio si levò Tiberio (Apsimar) che, sostenuto
dal partito dei verdi, gli tolse l'impero (698-705), tenendolo
rinchiuso in un monastero per tutto il tempo del suo regno,
dopo avergli fatto tagliare il naso, come lui aveva fatto
con Giustiniano.
Nel frattempo Giustiniano II, riusciva a fuggire da Cherson, rifugiandosi
presso il khan dei Cazari e prendendone in moglie la sorella. Questa,
convertitasi, prese il nome di Teodora, come la più famosa
imperatrice, moglie di Giustiniano I.
Tiberio, nel frattempo, mandò un'ambasceria al khan per
reclamare l'estradizione di Giustiniano II. Il khan, per non turbare
i rapporti con Bisanzio, si decise a consegnare Giustiniano, il
quale, preavvertito in tempo, pensò di mettersi al sicuro
fuggendo e rifugiandosi presso Tervel (o Terebello), re dei Bulgari,
che lo aiutò a riprendere il trono (705).
Giustiniano si presentò sotto le mura di Costantinopoli,
accompagnato da Tervel e dal suo numeroso esercito, ma le mura
di Costantinopoli erano possenti e l'assedio non portava a nulla..
Giustiniano, però, con alcuni compagni riuscì ugualmente
a penetrare in città attraverso le fogne. La sorpresa suscitò
il panico in città e Tiberio si detta alla fuga. Giustiniano
riuscì quindi ad insediarsi nel palazzo Blachernae e a
riprendere il trono, dopo un'assenza di dieci anni.
Giustiniano II, ripreso il trono, si vendicò subito di Leone-Leonzio
e Tiberio Apsimar, che fece sgozzare nel circo, in presenza di
tutto il popolo. Inoltre eliminò tutti i patrizi che l'avevano
deposto e tutti i suoi nemici, facendoli impalare, decapitare
o accecare, come nel caso del patriarca Gallinico, che aveva
incoronato i due usurpatori.
Giustiniano pensò solo a vendicarsi dei nemici interni,
incurante degli arabi, che s'impadronivano di Tiana (709), una delle
più importanti fortezze ai confini della Cappadocia. Mandò
una spedizione a Ravenna, perché i ravennati si erano mostrati
ostili durante la prima parte del suo regno, facendo devastare
e saccheggiare la città. I più eminenti cittadini
furono portati a Costantinopoli, dove furono uccisi; al vescovo
furono cavati gli occhi.
Giustiniano II governò, incurante della mutilazione del
naso tagliato (da ciò il soprannome di Rinotmetos), per
sei anni (705-711), prendendo con sé la moglie chazara,
che gli aveva dato un figlio, chiamato Tiberio e nominato co-imperatore.
L'imperatore durante questo secondo periodo di regno, oltre ad
essersi comportato con inaudita ferocia, per vendicarsi del
taglio del naso che aveva subito, aveva dato disposizione che
tutte le volte che doveva pulirlo (e in inverno gli gocciolava
per il freddo), un suo nemico doveva essere sgozzato.
Non contento dei massacri fatti a Costantinopoli, come aveva fatto
con Ravenna, mandò una spedizione punitiva a Cherson dove
era stato tenuto prigioniero. I chersonesi però si ribellarono
e anche l'esercito e la flotta si ammutinarono e proclamarono
imperatore l'armeno Filippico (711-713) detto Bardane, il quale
si presentò con la flotta sotto le mura di Costantinopoli.
La città aprì subito le porte e Filippico fu proclamato
imperatore.
Nessuno era disposto a difendere Giustiniano, che fu ucciso
da uno dei suoi ufficiali. Gli fu tagliata la testa e mandata
a Ravenna e Roma per essere esposta in pubblico. Anche il figlio
Tiberio, fu ucciso.
Ebbe termine la dinastia del grande Eraclio, una delle vere e
proprie dinastie dell'impero bizantino, che aveva regnato per
un secolo e aveva dato imperatori-statisti di grande spessore.
Il regno di Filippico
Bardane (711-13) fu breve, ma carico di avvenimenti
di carattere religioso. Con Filippico le diatribe dottrinarie
presero una piega diversa. Incomincia infatti a delinearsi quello
che sarà il nuovo indirizzo delle future diatribe (e lotte)
religiose, che dalla cristologia si riverseranno sulle immagini.
Filippico, essendo di origine armena, aveva tendenze monofisite,
dichiarate, come abbiamo visto, eretiche. Non solo, ma più
specificamente Filippico era di tendenza monotelita, anch'essa
ritenuta eretica dal VI Concilio.
Filippico , nel mandare a Roma la sua effige, inviò anche
al papa Costantino I una confessione di fede, piena di accenti
monoteliti. La reazione romana non si fece attendere: l'effige
dell'imperatore non fu esposta in chiesa e non fu neanche coniata
sulle monete; il suo nome non venne menzionato nelle funzioni
religiose e nella datazione degli avvenimenti.
Filippico, a sua volta, emanò un editto imperiale con
cui condannava il VI Concilio, dichiarando il monotelismo la sola
dottrina ortodossa. Filippico inoltre sostituiva il patriarca
Ciro, nominato da Giustiniano II, con il patriarca Sergio.
Poiché il VI Concilio era stato rappresentato in un dipinto,
con iscrizione commemorativa sulla Porta Milion, Filippico fece
cancellare questa iscrizione commemorativa e fece rimuovere il
dipinto. Il papa, a sua volta, fece dipingere in san Pietro,
la rappresentazione di tutti e sei i concili.
Erano le premesse di quella che sarà la futura lotta iconoclasta.
La presa di posizione religiosa di Filippico non fece altro
che accelerare la sua caduta. Mentre le incursioni arabe si aggravavano,
Tervel, khan dei bulgari, raggiunse Costantinopoli fin sotto le
mura. Si rese necessario far venire le truppe dal tema Opsikion,
che però si rivoltarono. Filippico, fu deposto ed accecato
(713).
Questa volta fu eletto imperatore, un funzionario civile di corte,
di nome Artemisio che prese il nome di Anastasio (713-16). Era
il secondo con questo nome e si dichiarò di fede cattolica,
mandando al papa Costantino a Roma una lettera, recapitata a
mezzo dell'esarca di Ravenna, Scolastico, con la quale oltre a
dichiararsi fautore della fede cattolica, dichiarava di accettare
il VI concilio.
Il nuovo imperatore fece anche rimuovere le effigi di Filippico
e del patriarca Sergio, ma il suo regno fu di breve durata. Gli
stessi soldati del tema di Opsikion, che lo avevano sostenuto,
mandati a fronteggiare gli arabi si ribellarono, proclamando
imperatore un certo Teodosio, esattore delle tasse, il quale impreparato
ad affrontare la carica e le incognite, pensò di sottrarsi,dandosi
alla fuga. Ma i soldati opsiciani, con l'appoggio degli ostrogoti
grecizzati (gotogreci), confermarono Teodosio (716-17), che fu
terzo con quel nome e che, detronizzato Anastasio, gli fece prendere
il saio, ordinare presbiterio e giurare fedeltà.
Il regno di Teodosio III, imperatore suo malgrado, durò
ancora meno degli altri usurpatori che lo avevano preceduto. Egli,
debole, fu travolto dalla forza di un generale, che aveva iniziato
la sua carriera sotto Giustiniano II. Il suo nome era Leone.
Dopo la serie di usurpatori, Leone prenderà il potere ed
inaugurerà una nuova dinastia, conosciuta come isaurica.
Le lotte di religione non avranno tregua e prenderanno un'altra
direzione. Questa volta si tratterà di guerre fondate sulle
immagini, in cui si distinguerà la nuova dinastia, come
vedremo nel prossimo capitolo.