Carlo Magno e Pipino primo re
d’Italia
Miniatura del X sec.
Biblioteca Estense - Modena
L’EUROPA
NEL MEDIO EVO
STORIA SCONOSCIUTA DEI
PRIMI RE D’TALIA
E CORRUZIONE DEL PAPATO
NEI SEC. IX E X
MICHELE DUCAS PUGLIA
SOMMARIO: LA FEUDALITA’;
CONQUISTE LONGOBARDE IN ITALIA; FINE DEL REGNO LONGOBARDO; I FRANCHI SOSTITUISCONO I LONGOBARDI:
PIPINO-BERENGARIO E GUIDO PRIMI RE D’ITALIA; ARNOLFO IMPERATORE;
VICISSITUDINI DI BERENGARIO (IN NOTA GLI UNGHERI); FINE DI BERENGARIO; RODOLFO DI BORGOGNA E UGO DI PROVENZA
NUOVI RE D’ITALIA; FINE DI UGO - SI FA STRADA UN NUOVO BERENGARIO;
LUDOVICO II ASSEDIA BARI OCCUPATA DAI SARACENI-RIBELLIONE DI ADALGISO PRINCIPE
DI BENEVENTO; CORRUZIONE DEL PAPATO NEI SEC. IX E X: LA PAPESSA GIOVANNA TRA
STORIA E LEGGENDA; DISPUTA PER L’ELEZIONE DEL PAPA FORMOSO E PROCESSO AL
SUO CADAVERE; TEODORA E MAROZIA
GOVERNANO ROMA; ALBERICO II PRINCEPS ET SENATOR ROMANORUM E GLI ULTIMI PAPI DEL
SECOLO.
LA FEUDALITA’
L |
a feudalità di origine
romano-germanica era fondata su tre istituzioni: il vassallaggio costituito dal godimento che inizialmente Carlo Magno
(v. Articoli: Carlomagno e l’idea dell’Europa), aveva concesso ai
guerrieri che avevano combattuto a loro spese per lui, ed era personale,
vitalizio e inalienabile.
Costoro col beneficio divenivano vassalli del re, gli giuravano fedeltà
con l’omaggio, riconoscendolo
proprio signore con l’obbligo di prestare gratuitamente il servizio
militare e di pagare tributi in natura o in danaro, concedergli
ospitalità ed altro.
Dal beneficio
congiunto al feudo, concessi con
l‘investitura, il beneficiato
diventava feudatario.
Con l’investitura il feudatario godeva
della immunità ossia diveniva titolare nel proprio
feudo, e in esso esercitava la giurisdizione che spettava al sovrano. La immunità era stata concessa da
Carlo il Calvo (823-877) con il Capitolare di Quiersy (v. in Articoli: I
Carolingi e la dissoluzione dell’impero), trasmissibile agli eredi e il
feudo diventava così perpetuo.
Carlo il Calvo aveva fatto anche altre
concessioni che rendevano il feudo sempre più personale, come
l’esonero del servizio militare, il diritto di battere moneta, di imporre
tasse, e in questo modo il feudatario potette godere di diritti sovrani, a
questo modo, l’unico legame con il sovrano era costituito da un
vassallaggio solo nominale che faceva del feudatario un principe autonomo.
Il feudatario a sua volta concedeva benefici
ai suoi fedeli che invece legava a sé con l’obbligo di servirlo
come soldati a cavallo quando ve ne fosse la necessità, con altri
obblighi: costoro divenivano così vassalli del feudatario, vale a dire valvassori che a loro volta legavano a
sé, con gli stessi criteri i valvassini.
Il feudo poco a poco perse la sua principale
funzione voluta sa Carlo Magno che era quello di tenere legato il feudatario al
sovrano e con le autonomie concesse
dai sovrani alle piccole formazioni cittadine denominate Comuni, il feudo
andò verso il disfacimento, e appunto con il disfacimento dei feudi
sorsero i Comuni (v. Articoli: Formazione dei Comuni e lotte con
l’Impero).
CONQUISTE LONGOBARDE
IN ITALIA
I |
longobardi dopo la prima conquista del Friuli in Italia
con Alboino avevano occupato gran parte dell’Emilia, la Toscana,
spingendosi sempre più a sud, con il ducato di Spoleto che si estendeva
fino a congiungersi con il ducato di Benevento, che comprendeva parte della
Puglia e della Calabria, sì che l’Italia risultava divisa in due
parti con la Lombardia costituita da Lombardia, Piemonte, Monferrato, la
riviera genovese il Veneto,
l’Emilia sino a Bologna, Toscana e i ducati di Spoleto e Benevento,
mentre la c.d. Romània, era costituita dai territori rimasti bizantini
come la Liguria Genova, Savona e Albenga, la Laguna Veneta con parte
dell’Istria, del Polesine, della Romagna che formavano l’Esarcato e
la Pentapoli (con le città di Rimini, Pesaro,Ancona, Fano e Senigallia),
ducato di Perugia, ducato di Napoli e una parte costiera delle Puglie e della
Calabria.
Morto Alboino il cui breve regno è collegato
con gli spaventosi massacri di nobili a Roma, ed egli stesso era stato ucciso,
il regno piombò per un decennio nell’anarchia e, iniziati gli
attacchi dei franchi, i duchi longobardi elessero in tutta fretta Autari
(585-590) figlio di Alefi che respinse i franchi, ma il suo regno fu breve e
gli succedette Agilulfo (590-615) che ne sposò la vedova, Teodolinda che
fece convertire i longobardi (ariani e pagani) al cristianesimo. Seguirono
Adaloaldo (615-627), Arioaldo (627-636) che non lasciarono memoria di
sé, seguiti da Rotari (636-652) il cui editto costituì la prima
legislazione barbarica organica, seguito
dalla codificazione delle leggi longobarde.
Dalla morte di Rotari, alla elezione di
Liutprando (712-744) si succedettero undici monarchi che anch’essi non
lasciarono memoria di sé. Liutprando scacciò i bizantini dall’esarcato e dalla
Pentapoli e avrebbe conquistato anche il ducato di Roma se non si fosse fermato
(728) di fronte alla autorità del papa Gregorio II a Sutri.
I longobardi conquistando territori
bizantini non fecero tesoro delle istituzioni bizantine, molto più
evolute e delle quali in Italia si trovavano profonde tracce. Essi imposero
leggi e costumi germanici che solo successivamente saranno innestate sul ceppo
romano (v. in Specchio dell’Epoca: Il corpus
juris ecc.).
A capo era il re eletto dai duchi e dai
nobili con autorità autonoma che aumentava nel caso vi fossero stati
pericoli per lo Stato. A lui facevano capo tutti i poteri, legislativo,
giudiziario, civile e militare.
Accanto al re vi erano i gasindi coadiutori e consiglieri tra i
quali egli sceglie i magistrati e gli alti funzionari. Lo Stato è diviso
in ducati costituiti da città, villaggi e territorio circostante,
corrispondenti alle diocesi ecclesiastiche. I duchi risiedevano nella
principale città del ducato,
originariamente avevano potere militare, successivamente trasformati in
principati ereditari
A capo dei territori dipendenti direttamente
dal re erano i gastaldi amministratori
dei beni della corona. Essi non sono nominati a vita come i duchi, ma in base
alle opportunità politiche del momento. Dai duchi e dai gastaldi,
dipendono altri funzionari: gli sculdasci
o centenari, dai quali dipendono
infine funzionari più umili.
Le classi sociali codificate
dall’Editto di Rotari (634) in cui sono codificate tutte le consuetudini
longobarde comuni alle altre popolazioni germaniche, erano costituite, in
alto dagli adalingi, seguivano gli arimanni, uomini liberi soldati di diritto, gli aldi, semiliberi e infine i servi, nella
condizione di veri e propri schiavi.
La divisione delle classi è
accentuata dal guidrigildo o valore della propria persona, tanto
più elevato quanto più è alta la classe a cui la persona
appartiene, dall’Editto di Rotari sostituito dalla faida, la vecchia tradizionale vendetta barbarica. Lo schiavo non
aveva guidrigildo che era la base di
riconoscimento della personalità giuridica dei singoli e codificazione della
ineguaglianza sociale.
Presso i longobardi era riconosciuta
anche l’ordalia
considerata come giudizio di Dio che
confermava nel vincitore chi aveva ragione, la quale fu sostituita dalla prova
della testimonianza giurata, mentre il duello fu limitato alle classi
più elevate.
FINE DEL REGNO
LONGOBARDO
A |
lboino era sceso in Italia chiamato dal
generale Narsete che si era voluto vendicare dell’ingratitudine mostrata
nei suoi confronti dell’imperatore bizantino (Giustino II succeduto a
Giustiniano v. Articoli: I mille anni dell’impero bizantino).
Giunto con un esercito composto da varie
tribù germaniche e sciite, dopo aver conquistato Aquileia e Cividale,
occupò Vicenza, Verona, Padova. Monselice, Mantova, Trento, Bergano e
Brescia; a Milano (568) veniva acclamato re e con la città si
impadroniva della Lombardia.
Gli aveva resistito la città di Pavia
tanto da giurare che l’avrebbe rasa al suolo ma quando stava entrando a
cavallo nella città, il cavallo incespicò e cadde e non volle
rialzarsi. Alboino lo prese come un segno di ammonizione del cielo contro la
sua decisione e risparmiò la città che divenne capitale del regno
longobardo, con la sua sede nel
palazzo di Teodorico.
Alboino festeggiò l’avvenimento
dando un banchetto in cui offese la memoria del padre di Rosamunda (Rose-mond,
Bocca-di-rosa) che si vendicò facendolo assassinare (v. Schegge: Amori
longobardi, Alboino e Rosamunda).
Gli succede Clefi che regna per un anno e sei mesi
(572-574) e per vendicare la morte di Alboino fece una strage di romani e muore
egli stesso assassinato; poiché Autari, figlio di Alboino è ancora
giovane, segue un periodo di interregno di governo dei duchi, durante il quale
i longobardi si espandono ovunque, ma non possono prendere ai bizantini le
grandi città costiere (Napoli, Roma, Ravenna) pèrché non
sono uomini di mare e non hanno una flotta. Dopo dieci anni i longobardi per
poter difendere i territori conquistati nei confronti di greci e franchi, si decidono a eleggere il re, eleggendo
Autari (584-590) che muore giovane e gli succede Agilulfo, duca di Torino. il
quale con l’aiuto di Arichi duca di Benevento e Ariulfo duca di Spoleto,
assalì Ravenna. Roma e Napoli, dove trova resistenza, e a Roma si
accorda con il papa Gregorio Magno con il pagamento di un tributo annuo.
Gli si ribellano i duchi di Verona, Bergamo e
Pavia, ma dopo aver distrutto Padova conquista le città del Veneto tra
il Brenta e l’Adige. La sua sposa Teodolinda (v. in Specchio dell’Epoca citato
art. Amori longobardi ecc.) cercò di convertirlo al cattolicesimo senza
però riuscirvi, facendo battezzare però il figlio Adaloaldo
(615-627) del quale, alla morte di Agilulfo tenne la reggenza fino alla morte
(625).
Ma vi fu la rivolta di Ariovaldo duca di
Torino, ariano, il quale con l’appoggio del papa e dell’esarca di
Ravenna, uccide Adaloaldo (527-536) impadronendosi del trono.
Tutte queste uccisioni erano dovute a motivi
fondamentalmente religiosi tra due correnti, che avevano dato luogo al partito
c.d. bavarese-cattolico e partito ariano, ambedue in ogni caso cristiane!.
Gli succede Rotari (632-652) ariano, morto anch’egli di morte violenta,
seguono u Ariperto (653-661) figlio di un fratello di Teodolinda, Pertarito
(671-688) e poi una serie di giovani monarchi che regnano per poco tempo
(Cuniberto, Liutperto sotto la tutela di Anasprando, Ragimberto, Ariperto,
Anasprando per pochi mesi (712) fino a quando non si arriva a Liutprando.
Il regno di Liutprando (712-744), si
può considerare il più grande dei re longobardi dopo Alboino, ma
commise però l’errore di restituire il territorio di Sutri a papa
Gregorio II (715-731), rinunciando così alla unificazione
dell’Italia e non permettendo che ciò si verificasse per il
futuro. in quanto lo Stato vaticano si veniva a incuneare al centro tra il nord
e il sud e nessuno tenterà più di eliminare quel cuneo.
Alla sua morte gli succedette per breve periodo
Ildebrando (744), poi Rachis (744-749) seguito da Astolfo (749-756) che,
riorganizzato l’esercito, riprese la politica espansionistica di
Liutprando invade l’Esarcato e Ravenna (751) cacciando l’Esarca e i
bizantini; si impadronisce del ducato di Spoleto e afferma la sua giurisdizione
sul ducato di Benevento.
Astolfo si rivolge verso il ducato di Roma
dipendente dai bizantini, ma il
papa Stefano II (752) che non aveva ricevuto l’aiuto chiesto
all’imperatore bizantino (Costantino Copronimo, v. I mille anni
dell’impero bizantino), si rivolge a Pipino il Breve che si era appena
appropriato (751) del regno
merovingio.
Pipino accoglie l’invito del papa e
dopo aver cercato di convincere Astolfo a restituire i territori occupati; non
essendo stato ascoltato, giunge in Italia e lo sconfigge alle Chiuse di Val di
Susa, costringendolo così alla restituzione della Pentapoli e del ducato
romano al papa (754).
Poco dopo Astolfo ruppe i patti e Pipino
scese di nuovo in Italia (756) obbligando Astolfo non solo a consegnare i territori di cui
si era appropriato (Pentapoli, Esarcato e ducato romano che formeranno lo Stato
pontificio), ma a pagare un tributo annuo.
Il papa in cambio del favore ricevuto,
incorona Pipino e gli concede il titolo di patricius
romanorum.
Morto Astolfo e salito al trono il duca di
Brescia Desiderio (756-774), volle instaurare con i franchi un rapporto di
amicizia rafforzato dal duplice matrimonio
delle due figlie Ermengarda e Gerberga, con i figli di Pipino, Carlo e
Carlomanno.
Successivamente Carlo ripudiò
Ermengarda mentre Carlomanno moriva (771) ed Ermengarda rifugiatasi presso il
padre lo incitò a vendicare il ripudio della sorella.
Desiderio invase l’Esarcato,
dirigendosi poi verso Roma. Il papa si rivolse a Carlo che vinse Desiderio
(773) alla Chiusa ( v. in Specchio dell’Epoca Carlomagno e il giullare
longobardo), poi espugnò Verona, mentre Adelchi, figlio di Desiderio se
ne fuggì a Costantinopoli, e dopo aver conquistato Pavia tutti i territori
longobardi del nord e del centro passavano a Carlo Magno.
Finisce così il sogno di una
unificazione dell’Italia da parte dei longobardi. C’è da
chiedersi quale sarebbe stato il destino di una Italia unificata mille anni
prima...gli italiani sarebbero stati diversi da quelli che sono dopo solo
centocinquant’anni di unità nazionale, con vizi e difetti che stiamo descrivendo (v.
in Schede: Gli italiani secondo Prezzolini... Ginsborg ecc)?
1) I longobardi che
abitavano la Pannonia, forse vennero in Italia perché chiamati da
Narsete, ma in effetti furono spinti dagli Unni che invasero la Pannonia.
Quando giunsero in Italia i longobardi erano circa ventimila; durante il corso
della loro dominazione non erano più di centomila.
I FRANCHI SOSTITUISCONO
I LONGOBARDI:
PIPINO
BERENGARIO E GUIDO
PRIMI RE D’ITALIA
C |
arlo Magno si era impadronito di tutti i
territori longobardi nel Nord e Centro Italia assumendo il titolo di rex langobardorum e protettore dei beni della Chiesa. I ducati di Spoleto e di Benevento
(sottoposto a tributo), rimasero autonomi, mentre ai bizantini rimasero le
regioni costiere della Puglia, Calabria, Sicilia, Sardegna e nominalmente la
Laguna Veneta che si sta avviando verso il proprio destino.
Egli sarà incoronato a Roma il
25.XII.800 (in effetti l’anno
con il precedente calendario era il 799) da Leone III rex romanorum e patricius e da questo momento ha inizio
l’Impero Romano in cui rientrava il Regno d’Italia che prese questa
denominazione quando Carlo Magno lo assegnò al figlio Pipino, rimanendo
inscindibile dall’Impero.
Quando Carlo il Grosso (v. Articoli: La dissoluzione
dell’impero carolingio), venne deposto (887) e poco dopo moriva (888)
tutto l’Impero andò in disfacimento in quanto i vari regni si
divisero con la nomina in ciascuno di essi, di un proprio monarca: in Germania
fu eletto re dei Germani e quindi imperatore, Arnolfo (figlio illegittimo di
Carlomanno re di Baviera e d’Italia), in Francia, Eude, conte di Parigi,
mentre in Italia i grandi feudatari si accordarono ed elessero il Berengario
(888-924), duca del Friuli (figlio di s. Everardo e di Gisla, figlia di
Ludovico il Pio), il quale associò nel governo il figlio Lamberto
(891-898) che risiedeva a Roma.
Contro Berengario però si fece avanti
Guido di Spoleto della famiglia dei duchi omonimi oriunda franca,
anch’egli discendente per via materna dalla stirpe carolingia il quale
venne a patti con Berengario e concordarono che Berengario avrebbe tenuto la
corona d’Italia, Guido avrebbe preso la corona di Francia.
Guido quindi si recò in Francia per
combattere contro Eude ma con il suo ridotto esercito non riuscì a
sopraffare Eude e dovette tornarsene in Italia (889) dove, in mancanza
d’altro, pensò di prendere la corona a Berengario.
Nel frattempo, quando Arnolfo aveva appreso
la notizia che Berengario era stato nominato re d’Italia, si
preparò a scendere con un esercito, ma Berengario gli mandò dei
legati con proposte di pace. I due
si incontrarono a Trento e Berengario riconobbe la signoria di Arnolfo
il quale se ne tornò soddisfatto in
Germania.
Guido dopo aver ingrossato il suo esercito,
si rivolge contro Berengario col quale si scontra nei pressi di Brescia, ma
ebbe la peggio e durante una breve tregua, riorganizzò il suo esercito
con cinquecento fanti francesi comandati dal fratello Auscario, seicento
cavalieri guidati da Guaisimo e Uberto, una schiera di mille giovani toscani,
mille fanti di Camerino, seicento corazzieri al comando di Ubaldo e Guglielmo,
due bande di pedoni guidate da Alberico e Rinieri e parecchie migliaia di
contadini armati come potevano.
Berengario aveva tremila friulani comandati
da Gualfredo, millecinquecento corazzieri capitanati da Unroco, cinquecento
cavalieri guidati da Alberico, milleduecento cavalieri tedeschi, una forte
schiera di fanti e bande raccogliticce. In ambedue gli eserciti combattevano
vescovi (ricordiamo che generalmente erano i secondogeniti di famiglie feudali,
addestrati al maneggio delle armi) che lasciavano volentieri il pastorale per
la lancia.
La battaglia fu sanguinosa e indecisa fino a
sera quando l’esercito di Berengario fu messo in fuga ed egli dovette
rifugiarsi a Verona. Guido si diresse a Pavia dove raccolta una dieta di
vescovi si fece proclamare re d’Italia (889).
L’atteggiamento di Berengario fu
considerato codardo e le simpatie della popolazione si rivolsero nei confronti
di Guido che aveva mostrato di combattere contro lo straniero tedesco. Egli colse l’occasione che Arnolfo
era andato a combattere contro il duca di Moravia, per recarsi a Roma dove
abbagliato dalla posizione raggiunta. commise l’imprudenza di farsi
incoronare anche imperatore.
Il papa Stefano V (v. sotto) poiché
Arnolfo pur essendo stato eletto re dei Germani, non era ancora stato
incoronato imperatore, lo assecondò
e lo incoronò re d’Italia e imperatore (21.II.891).
Guido, dimenticando di aver suscitato le
speranze come re d’Italia, e ricordando di essere discendente di
Carlomagno, più che all’Italia, pensò all’impero, e
lo chiamò “Rinnovamento
dell’impero dei franchi” cercando anche di farsi eleggere re di
Francia, con l’intento di trasferirvi la residenza imperiale. Coloro che
lo avevano appoggiato fecero sentire la loro delusione, e di ciò ne approfittarono i
sostenitori di Berengario.
A Roma era morto il papa Stefano V (892) e
si contendevano il soglio Sergio
Romano e Formoso (v. sotto), i partigiani di Guido erano per il primo, quelli
di Berengario erano per Formoso che fu eletto papa.
ARNOLFO IMPERATORE
B |
erngario regnava a Verona, mentre Guido era a
Pavia e nessuno dei due si sentiva tanto forte da affrontare l’altro. In
questa situazione, il papa Formoso e Berengario chiamarono Arnolfo che
mandò suo figlio bastardo Sventeboldo che giunse in Italia (893) con
l’esercito, al quale si unì Berengario e tutti si diressero a
Pavia che posero sotto assedio.
Ma Pavia resistette e alla fine Sventeboldo
decise di levare il campo e tornarsene in Germania.
Guido ne approfittò per andare contro
Berengario il quale andò a rifugiarsi in Germania da Arnolfo, insistendo
che venisse in Italia, come allo stesso tempo da Roma lo chiamava il papa
Formoso.
Arnolfo venne quindi in Italia (894) e dopo
essersi fermato a Verona, andò a Bergamo ben munita di mura e ben
difesa, ma i tedeschi riuscirono ad aprire una breccia e a penetrare nella
città che fu saccheggiata, le monache tirate fuori dai conventi stuprate
e beffeggiate dai soldati ubriachi, i sacerdoti frustati per le strade.
Cessata la strage molte città della
Lombardia e della Toscana riconobbero la signoria di Arnolfo, con Milano e
Pavia che gli prestarono omaggio. Adalberto II marchese di Toscana e suo
fratello Bonifacio, i marchesi Ildebrando e Gerardo i quali dopo aver
appoggiato Guido presentarono la loro sottomissione, ma Arnolfo li fece
incarcerare ma poi li fece liberare, ma essi rientrati nei loro domini gli si
ribellarono.
Mentre Arnolfo con l’esercito si
diresse in Borgogna per sottomettere Rodolfo, Guido tornò alla carica
contro Berengario e stavano per scontrarsi sul Taro tra Parma e Piacenza,
quando Guido ebbe un improvviso fiotto di sangue e perse la vita.
Gli succedette il figlio Lamberto che Guido
dopo la incoronazione a imperatore aveva associato all’impero.
L’arcivescovo di Reims che aveva appoggiato Guido scriveva al papa
raccomandandogli Lamberto e il papa Formoso, mentre gli rispondeva rassicurandolo che
“lo avrebbe trattato come un figlio
carissimo con cui avrebbe mantenuto una inviolabile concordia” si
rivolgeva contemporaneamente ad Arnolfo che invitava “a venire a strappare la corona imperiale a
Lamberto”.
E Arnolfo non si fece attendere e
attraversò le Alpi (IX.895) con poderoso esercito di tedeschi e di
franchi. Attraversò la Lombardia e tralasciando Pavia dov’era
rinchiuso Lamberto, proseguì devastando la campagna fino al Po. Quì
divise in due l’esercito e mandò i franchi a Roma, attraverso
Bologna e Firenze, mentre con l’altra parte di franchi per Pontremoli si
recò a Lucca a passare il Natale.
Arnolfo si inimicò Berengario in
quanto ritenendo renderlo più debole, gli tolse dei territori assegnandoli
a Gualfredo e Maginfredo, e con queste donazioni mise Berengario in condizione
di tramare contro di lui,
collegandosi segretamente con Adalberto di Toscana.
Arnolfo si recò a Roma dove era
giunta Ageltruda, vedova di Guido e madre di Lamberto che vi si era recata per
difendere i diritti di Lamberto. Ageltruda era riuscita a rinforzare il partito
della indipendenza italiana che si oppose al pontefice e all’avvicinarsi
di Arnolfo gli chiuse le porte della città, mettendo sotto controllo le
mura e imprigionando il papa.
Nel frattempo i romani che erano sulle mura,
dileggiavano i tedeschi che risposero alle ingiurie e dalle due parti
incominciarono a lanciarsi pietre e frecce. I tedeschi aumentati di numero,
prendono le scale e con le scuri abbattono la porta, entrano e si
impadroniscono della città
leonina, liberando il papa, mentre Ageltruda si salva dandosi alla fuga.
Lo storico Liutprando di questo improvviso
assalto dà una versione diversa scrivendo che “l’improvviso assalto era stato
determinato dall’inseguimento di una lepre” e racconta:- Alcuni
tedeschi stavano inseguendo una lepre che si dirigeva verso le mura gridando,
gli altri sentite le grida li seguirono,alla fine tutto il campo si levò
con frastuono; i romani che erano sulle mura si ritrassero impauriti e i
tedeschi con le scale riuscirono ad
entrare nella città leonina.
Il senato si recò incontro ad
Arnolfo, ma questo presi alcuni di essi li fece decapitare come nemici del
papa, quindi si recò verso la basilica vaticana dove sul sagrato lo
attendeva il papa che lo accolse con benevolenza e entrati in chiesa Arnolfo fu incoronò (896) re dei romani.
Qualche giorno dopo Arnolfo prestò
giuramento di fedeltà al papa giurando di non rendere onore a Lamberto e
Ageltruda e difendere da costoro la città, e dopo i festeggiamenti per
l’incoronazione partì da Roma lasciando come governatore della
città un suo vassallo, con l’intento di recarsi a Spoleto dove si
erano rifugiati Lamberto con la madre.
Ma durante il viaggio Arnolfo si
ammalò e lasciando l’esercito che si dava ai saccheggi e agli
stupri, rientrò in tutta fretta in Germania.
A Milano Arnolfo lasciò il figlio
Ratoldo, nato da una delle sue concubine, ancora fanciullo, ma poi anche questo
partì per raggiungere il padre in quanto stava giungendo Lamberto col
suo esercito il quale si impadronì di Milano e Pavia.
Berengario dal suo canto riprendeva Verona e
tutti i territori che gli erano stati tolti da Arnolfo e si univa a Lamberto
col quale firmò a Pavia un trattato (896) che stabiliva che Berengario
teneva la parte orientale del Nord Italia e Lamberto la parte occidentale, e i
fiumi Adda e Po avrebbero diviso i due territori.
A Roma il papa Formoso moriva odiato dal
popolo sostituito da un papa dalla triste fama Bonifacio VI perché degradato dal sacerdozio
per due volte, ma morì dopo pochi giorni di podagra e fu seguito dal
papa Stefano VI divenuto famoso per aver organizzato un processo al cadavere di
papa Formoso (v. sotto).
VICISSITUDINI DI
BERENGARIO
(in nota: gli Ungheri)
I |
n Italia si erano formati due partiti: un
partito nazionalista che faceva capo a Lamberto e al papa Giovanni IX (v.
sotto) e l’altro con Berengario e Adalberto di Toscana che propendevano
per la protezione dell’imperatore tedesco.
Il marchese Adalberto era ricco e potente e
aveva per moglie Berta, figlia di re Lotario e di Gualdrada, che incitando
l’ambizione del marito lo mise contro Lamberto. Adalberto raccolti uomini
armati si diresse verso san Donnino tra Parma e Piacenza. Lamberto era a caccia
nei boschi di Marengo con cento uomini armati e saputo dell’arrivo di
Adalberto gli mosse subito contro e
presi alla sprovvista i suoi soldati furono massacrati, mentre Adalberto
vilmente si nascose in una greppia, ma fu trovato portato prigioniero in catene
a Pavia
Lamberto, moriva (898) mentre si trovava nei
boschi di Marengo di morte misteriosa; alcuni dissero che era morto cadendo da
cavallo mentre inseguiva un cinghiale, altri che fu ucciso da un familiare di
nome Ugo mentre dormiva, con una spina , da ciò il luogo fu chiamato
Spina Lamberti.
Berengario, conosciuta la morte di Lamberto
si recò a Pavia e occupò la residenza reale liberando Adalberto
dal quale ebbe il giuramento di fedeltà. Tutte le città
riconobbero la signoria di Berengario ad esclusione del ducato di Spoleto e
Camerino tenuto da Ageltrude vedova di Guido, che però dopo trattative
accettò la sovranità di Berengario.
Berengario non doveva trovar pace
perché molti erano i suoi nemici sotterranei, invidiosi, i quali non potendosi rivolgere ai tedeschi per
la morte di Arnolfo, si rivolsero in
Francia a Ludovico di Borgogna e Provenza, figlio di Bosone.
In questo frattempo vi fu la parentesi della
invasione degli ungheri (1), che come belve invasero l’Italia del Nord
(899), saccheggiando e distruggendo Veneto, Lombardia, dove misero sotto
assedio Pavia (particolare che conferma che erano uomini di Berengario a
guidarli, in quanto gli ungheri non conoscevano questa tecnica), quando vi
entrarono non solo trucidarono tutti quelli che incontravano, uomini, donne, bambini, vecchi, armati e
inermi, ma diedero fuoco alle case e la città fu interamente bruciata;
molti dei suoi cittadini che si
erano nascosti nelle case bruciarono anch’essi e di pavesi ne rimasero
vivi solo duecento che comprarono la loro vita con otto moggi di argento (circa
12 chilogrammi); oltre al Piemonte ed Emilia (anche Arnolfo trovandosi in
guerra con Svenboldo duca di Moravia li chiamò, ma essi dopo aver
abbattuto i moravi si rivoltarono contro tutto l’impero (v. nota).
Dopo la parentesi degli ungheri, Ludovico di
Provenza, raccolto l’esercito scese in Italia ma Berengario gli mosse
contro con un esercito maggiore e Ludovico dovette tornarsene in patria, ma
poco dopo ritornò in quanto Adalberto di Toscana gli prestava aiuto e
insieme ebbero la meglio su Berengario il cui esercito si era indebolito a
causa delle diserzioni.
Berengario dovette prima rinchiudersi a
Verona mentre Ludovico entrava in Pavia senza contrasti, e radunatosi un
concilio fu incoronato re (900), e nel successivo mese di febbraio (901) si
recò a Roma dove fu incoronato dal nuovo papa Benedetto IV, imperatore
col nome di Ludovico III.
I vescovi tedeschi avutane notizia gli
opposero Ludovico detto il Fanciullo di sette anni, figlio di Arnolfo scrivendo
al papa che “unanimamente abbiamo
eletto il figlio del nostro signore, ancorché fanciullo, per conservare
l’antica consuetudine” (che sarà Ludovico IV).
Ludovico III dopo aver tenuto da imperatore
tribunale a Roma, si recò in Lombardia dove ebbe desiderio di visitare
la Toscana governata da Adalberto suo sostenitore. Recatosi a Lucca presso la
corte di Adalberto, ne ammirò la magnificenza e il suo commento fu che
più che marchese Adalberto poteva essere un re, non essendo in nulla
inferiore neanche a lui. Questo commento fu riferito al marchese e alla moglie
Berta, donna scaltra e ambiziosa che interpretò il commento dettato da
invidia, presagio di prossime sventure, e ciò diede inizio a una
congiura.
Ludovico senza sospettare nulla se ne
tornò in Lombardia dove si fermò per qualche tempo senza problemi
in quanto Berengario era dato per morto.
Berengario ricomparve riconquistando tutto
il territorio perduto e Ludovico il cui esercito stremato e afflitto dalle
diserzioni era ridotto agli
estremi, se ne partì giurando di non più tornare in Italia. Ma
Berengario si ammalò improvvisamente e Ludovico venutone a conoscenza,
riattraversò le Alpi con un forte esercito, recandosi a Pavia e poi a Verona dove
entrò per tradimento e Berengario che vi giaceva ammalato fece a tempo a fuggire.
Ristabilitosi Berengario, con i suoi,
appoggiato dal vescovo Adelardo che gli fa aprire le porte, entrano nella
città e assaltano il palazzo dove si trovava Ludovico che cerca di
salvarsi dandosi alla fuga; inseguito si rifugia in una chiesa dove viene
arrestato e Berengario dopo averlo accusato di spergiuro per il giuramento
fatto di non tornare più in Italia lo fa accecare. Borgognoni e
provenzali sparsi per le città
sentita la notizia si dirigono verso le Alpi per attraversarle ma il
marchese d’Ivrea, genero di Berengario, li blocca e in gran parte sono
trucidati; Ludovico riesce a ritornare in patria; la ambiziosa madre Ermengarda
che aveva contribuito alla sua elevazione e alla sua rovina, si chiude nel
convento di san Pietro in Piacenza.
Berengario poteva finalmente avere raggiunto
la pace per regnare quando ricompaiono gli ungheri che saccheggiano Padova,
Treviso, raggiungendo Milano e Pavia. e tutto il Veneto (v.
nota 1).
Ma non era l’unica sventura che aveva
colpito l’Italia, ve ne fu un’altra, quella dei saraceni che dopo
scorrerie in Provenza e Liguria si erano stabiliti a Frassineto ed altri a
Olivola (Villafranca tra Nizza e Monaco) e nulla aveva potuto fare Berengario
che fu chiamato dal papa Giovanni X per andare a liberare quella parte
d’Italia dai saraceni.
Berengario raccolto l’esercito si recò a Roma dove accolto dal papa magnificamente fu
incoronato imperatore (915) e come tale confermava alla Chiesa tutte le donazioni fatte dai
precedenti imperatori dando un saggio della sua magnificenza, regalando armi
preziose, ricche vesti e oggetti preziosi e facendo gettare al popolo una gran
quantità di monete.
Essendo il suo esercito raccolto a Roma dove
convennero altre forze italiane e greche, egli non partecipò alla
spedizione e dopo aver dato incarico del comando ad Alberico marchese di
Spoleto e Camerino (v. sotto), tornò in Lombardia.
In Toscana moriva nel frattempo il potente
marchese Adalberto II (917) che lasciava la moglie Berta (figlia di Lotario e
Gualdrada e vedova di Teobaldo di Provenza) dalla quale aveva avuto tre figli,
Guido, Lamberto e Ermengarda. Guido come primogenito ereditò il titolo e
il feudo, Ermengarda sposò Adalberto d’Ivrea vedovo della prima
moglie, Gisla (figlia di Berengario).
Guido e Berta ebbero dei dissensi con
Berengario il quale traendoli in inganno li fece ambedue prigionieri a Mantova.
Berta era famosa per la sua
bellezza e altrettanto per la sua ricchezza, per il suo fascino e la sua
lascivia che sapeva utilizzare a suo personale vantaggio, per cui era molto
potente e aveva l’appoggio di tutti i grandi signori.
Berengario aveva pensato con l’arresto
di Berta e Guido, di poter trarre dalla sua parte tutti i governatori delle
città toscane, ma costoro si mostrarono tutti favorevoli ai loro signori
e Berengario, liberò i prigionieri mostrandosi impotente.
1) GLI UNGHERI NEL RACCONTO DEI CRONISTI.
Discendenti degli unni di
Attila si erano stanziati nella Dacia romana dove già si trovavano i
rumeni, eredi dei coloni che vi aveva trasportato Adriano, e tribù slave
con le cui prolifiche donne si erano uniti
e avevano dato luogo a una esplosione di nascite che formeranno il nerbo
delle tribù che si riverseranno in Europa.
Hanno inizio così le
nuove invasioni che sono più feroci di quelle compiute da Attila e
nell’estate dell’899 fino all’anno successivo si riversano
nelle pianure del Po, con
devastazioni compiute a tappeto, tornando nel loro paese carichi di bottino.
Ritornano in Veneto (Città Nuova, Equilo, Udine, Chioggia, Capodarzere),
tentarono di prendere Malomocco e le isolette intorno a Rialto ma i veneziani
li respinsero, e giunsero fino in
Lombardia nel 904.
Tra 905-906 invadono la
Grande Moravia e nell’estate successiva (906) invadono la Sassonia, e
successivamente (907) la Baviera dove annientano un intero esercito. Poi la
Turingia (908), quindi ancora la Sassonia e per la prima volta la Svevia (909) e
distruggono un altro esercito tedesco (910) ritornando in Svevia e Baviera
spingendosi in Franconia.
Dopo sette anni risalgono la valle dell’alto Reno
e giungono a Basilea, poi entrano in Alsazia e raggiungono le porte di Metz.
Tornano quindi in Italia (921-922) e non solo saccheggiano nuovamente la pianura
padana, ma raggiungono la Campania, la Puglia bizantina e il ducato di
Benevento. L’anno del flagello è il 924 quando dopo la Sassonia
tornano in Veneto, Lombardia, Piemonte, Provenza e Borgogna e Languedoc, poi si
riversano ancora in Baviera, Svevia, Franconia, Lorena, Champagne, Alsazia,
Toscana e raggiungono il Lazio e la stessa Roma sembra in pericolo (ma avevano
saccheggiato le città di Brema (918), Pavia (924), Verrdun e Costanza
(926) ).
Saccheggiano e bruciano
tutto – era stato scritto - massacrano i maschi, mutilano i bambini e ne
succhiano il sangue e ne mangiano le carni, ma non si stanziano, ma tornano
sempre nel loro paese dove conducono vita bestiale.
Non coltivano, se non di
rado la terra, non hanno case
né tetto, non stabile dimora, ma cogli armenti e le greggi vanno qua e
là vagando, conducendo seco le mogli e i figli sopra carri coperti di
cuoio che servono loro da casa in
tempo di pioggia e di freddo. Considerano grave delitto tra loro il furto, non
bramano oro né argento; loro cibi sono il lattee il miele; si dice che
mangiano carne cruda e bevano sangue umano, loro diletto la caccia e la pesca,
non usano vesti di lana ma con
pelli di fiere si riparano dal freddo.
Poco adoperano la spada,
moltissimo i dardi ch’essi scoccano tanto bene che è difficile
schivarne il colpo. Non sanno combattere da vicino in battaglia, combattono correndo sui
cavalli, spesso fingono di fuggire e quando si crede di averli sconfitti tornando indietro ed è
questo il maggior pericolo.
Sono piccoli e deformi
nella persona, col naso schiacciato; si racconta che le madri mordono i piccoli
sul viso per abituarli al dolore; sono crudeli più che mai possa dirsi e
nei loro cuori non entra mai né pietà né misericordia.
Portano raso il capo, ai figli e ai servi insegnano con cura l’arte di
cavalcare e di tirar le frecce. Gente superba, turbolenta, ingannatrice, di
poche parole e molti fatti, essi hanno avuto origine dai nefandi amori di un
mago e una lupa.
FINE DI BERENGARIO
A |
Milano moriva (919) l’arcivescovo e si doveva procedere
alla nuova elezione in cui il clero e il popolo erano per un Lamberto, ma
Berengario per la sua nomina pretese una somma ingente che Lamberto gli
versò ma divenne suo avversario e alla prima occasione si
vendicò.
Era stata infatti scoperta una congiura che
mirava ad assassinare Berengario il quale avendola scoperta ne fece arrestare
il capo, Olderico, conte del sacro palazzo, che diede in consegna come
prigioniero proprio all’arcivescovo.
Accortosi dell’errore commesso,
Berengario richiese la sua
restituzione ma l’arcivescovo lo liberò e Olderico andò ad
unirsi al conte Gilberto e al marchese Adalberto d’Ivrea (genero di
Berengario) che erano della congiura.
Costoro, ed altri signori, avevano
congiurato per togliere di mezzo Berengario e far venire in Italia Rodolfo
(921-926) della Borgogna Transgiurana (formata dall’alta Borgogna,
Savoia, Elvezia e altri territori.
Dopo essersi assicurati il suo consenso,
organizzarono un raduno nei pressi di Brescia. Venutone a conoscenza,
Berengario inviò un messaggio agli ungheri offrendo ricchi doni per
combattere i suoi nemici, ed essi piombarono all’improvviso nel bresciano
e si abbatterono sui congiurati: alcuni riuscirono a fuggire, molti furono
massacrati, tra i quali Olderico, e
altri furono fatti prigionieri, tra i quali Gilberto e Adalberto
d’Ivrea. Adalberto aveva
fatto in tempo a togliere le sue ricche vesti cambiandole con quelle di un
soldato morto e quando gli fu chiesto chi fosse, disse di essere un povero
fantaccino e chiese che lo portassero in un paese vicino, Calcinata,
dov’erano i suoi familiari che lo avrebbero riscattato. Condotto nel
paesello un suo fedele lo riconobbe senza darlo a vedere e lo riscattò
con poco danaro.
Gilberto era stato invece meno accorto,
bastonato e maltrattato fu condotto seminudo, con una camicia e senza
pantaloni, alla presenza di Berengario e in quelle condizioni si mise in
ginocchio mostrando il sedere e suscitando l’ilarità dei
cortigiani, e l’imperatore gli concesse la libertà.
Ma il vile Gilberto ripagò la
clemenza con il tradimento e dopo essersi accordato con Adalberto si
recò in Borgogna a sollecitare Rodolfo che un mese dopo con
l’esercito borgognone venne in Italia.
Rodolfo si recò a Milano dove
l’arcivescovo Lamberto lo incoronò re d’Italia e poi si recò
nella residenza reale di Pavia. Berengario era rimasto solo, chiuso nella sua
Verona e anche questa volta chiamò gli ungheri che vennero a far razzie.
Rodolfo concesse alle città il
permesso di fortificarsi contro i barbari e riuscì a sottomettere tutta
la Lombardia, mentre la Toscana rimaneva indipendente sotto la sovranità
del marchese Guido.
Berengario volendo riprendere il suo regno
si organizzò con un esercito radunando tutti quelli che gli erano
rimasti fedeli e sfidando Rodolfo; i due eserciti si scontrarono a Fiorenzuola
(23.VII.923) in una sanguinosa battaglia che in un primo momento volse a favore
di Berengario che aveva messo in fuga i soldati di Rodolfo. Ma il conte
Bonifacio, cognato di Rodolfo e il conte Gaiardo durante la battaglia avevano
atteso l’esito rifugiati in un bosco con una grossa riserva, e quando
videro i soldati in fuga intervennero cambiando le sorti della battaglia e
cambiando la vittoria di Berengario in una sconfitta. Rodolfo pagò a
caro prezzo la sua vittoria con il suo esercito stremato e ridotto, e dovette
tornare in Borgogna per ricostituirne un altro.
Berengario si ritirò a Verona e
chiamò ancora una volta gli ungheri (924) che indirizzò a Pavia
che fu presa d’assalto e saccheggiata e gli abitanti, compresi vecchi donne
e bambini trucidati, la città fu data alle fiamme e quelli che si erano
rifugiati nei nascondigli delle loro case morirono anch’essi bruciati.
Questa volta i suoi sostenitori se ne
indignarono e organizzarono una congiura capeggiata da Flamberto al quale
Berengario aveva tenuto il figlio a battesimo. Avendolo scoperto, Berengario
chiamò Flamberto e gli ricordò tutti i benefici che gli aveva
concesso, promettendone altri anche maggiori e lo congedò regalandogli
una tazza d’oro.
Ma la viltà è un male dal
quale non si guarisce. Berengario si era recato a dormire in un casa vicino a
una chiesa, per andare a recitare le preghiere con i frati a mezzanotte. Mentre
era in preghiera sentì un rumore di armi e di passi, nel voltarsi, nella
semi oscurità riconobbe Flamberto e fece appena in tempo a chiamarlo per
nome e chiedergli cosa facesse lì con le armi, che il traditore lo
colpì con una pugnalata al petto, Berengario cadde e i compagni di
Flamberto si gettano su di lui e lo finiscono a colpi di spada (924).
RODOLFO DI BORGOGNA
E UGO DI PROVENZA
NUOVI RE D’ITALIA
I |
signori italiani che avevano nel sangue la predisposizione
alle rivolte e alle congiure (componente costante nella storia!), anche quando
erano essi stessi a scegliersi un monarca come nel caso di Rodolfo, nel momento
in cui videro che, morto Berengario, Rodolfo, non avendo altri rivali, avrebbe
regnato incontrastato, incominciarono a tramare contro di lui per sostituirlo.
Berta di Toscana, che abbiamo visto aver
sposato in seconde nozze Adalberto, era vedova del primo marito Teobaldo conte
di Provenza, dal quale aveva avuto
un figlio, Ugo di Provenza, giovane, potente, e valoroso per aver riportato
vittorie sui normanni. Ugo era anche ambizioso e pensava di acquistare la
corona d’Italia (che come stiamo vedendo, era alla portata di tutti). In
questa ambizione era appoggiato dalla madre Berta e dalla sorellastra
Ermengarda che a quanto raccontano le cronache “aveva ereditato dalla madre oltre alla bellezza, la impudicizia e ben conosceva le arti della corte e
del lupanare, e prodigando il suo amore, manovrava le sorti del regno: i
personaggi più famosi erano innamorati di lei, e se n’era
innamorato anche Rodolfo, giovane di poca mente e costumi dissoluti”.
Ermengarda era a Pavia e capeggiò la
rivolta approfittando della lontananza di Rodolfo, il quale venutone a
conoscenza radunato l’esercito si accampò nelle vicinanze di Pavia
tra il Po e il Ticino.
Ermengarda non si perdette d’animo e
mandò di notte un messaggero da Rodolfo dicendogli che la maggior parte
dei suoi guerrieri erano dei traditori e lei lo avrebbe aiutato se andava a
rifugiarsi tra le sue braccia. Rodolfo cadde nella trappola; lasciò il
campo e si recò alla reggia; il giorno seguente gli ufficiali trovarono
la sua tenda vuota, ma giunse un messo col quale Rodolfo ordinava
all’esercito di sciogliersi, e i soldati abbandonarono il campo,
considerandolo un traditore.
Ma anche quelli che lo sostenevano come il
vescovo di Milano e i grandi signori gli si rivoltarono contro e si precipitarono
a chiamare Ugo di Provenza il quale deliberatamente si fece attendere prima di
venire in Italia e quando vi giunse fu incoronato a Pavia (926) e cercò
di impossessarsi anche della corona imperiale rimasta libera con la morte di
Berengario.
Rodolfo liberato da Ermengarda tornò
in Borgogna, ma sentendosi oltraggiato pensò di vendicarsi e raccolto un
esercito, con l’aiuto del suocero Burcardo di Svevia, ritornò in
Italia. Burcardo si recò dall’arcivescovo di Milano il quale
mentre lo tratteneva lusingandolo, inviò messi presso i principi
italiani chiedendo di liberarsi di questo tedesco.
Burcardo aveva lasciato l’esercito a
Ivrea e partito da Milano, si fermò a Novara e mentre stava proseguendo
con il suo seguito per Ivrea cadde in una imboscata dei figli di Berta, Guido e
Lamberto, e furono tutti trucidati.
Rodolfo avutane notizia se ne tornò in Borgogna rinunciando così
al sogno italiano.
Il regno italiano di Ugo di Provenza non
aveva suscitato grandi entusiasmi in quanto egli era un ambizioso (v. sotto il
matrimonio con Marozia), cinico, astuto, ipocrita e spergiuro, non aveva
rispetto dei legami di parentela e di amicizia, non esitava a sacrificare nello
stesso modo benefattori e complici, era grande simulatore e mentre prometteva clemenza, versava il sangue
delle vittime. Era corrotto e licenzioso e quando si mostrava in pubblico si
faceva accompagnare dalle sue concubine, tre delle quali avevano il nome di
Venere, Giunone e Semele, e dai suoi numerosi bastardi. Ma ciò non gli
bastava e per i suoi festini notturni partecipavano le ragazze di note famiglie
che faceva rapire.
Queste sfrenatezze avevano suscitato il
pubblico sdegno e si preparò una rivolta. Erano giudici a Pavia due
appartenenti a famiglie nobili e ricche, due uomini potenti, Gualberto e
Genzone che prepararono una cospirazione raccogliendo adesioni, ma ritardarono
tanto che Ugo ne venne a conoscenza e pensò di vendicarsi col
tradimento.
Mandò un suo messo dai due giudici
per chieder loro di non portare a compimento i loro crudeli propositi; lui
aveva anche sbagliato e chiedeva loro di dargli quei giusti suggerimenti per
riparare agli errori e i due congiurati si ravvidero.
Un giorno Ugo uscì da Pavia e in una
delle città vicine raccolse soldati e con questi ritornò a Pavia.
Qui tutti i grandi della città si prepararono ad accoglierlo e una volta
entrati nel palazzo, il vescovo, d’accordo con lui fece chiudere le porte
e Ugo, fatti prendere Gualberto e
Genzone, al primo fece tagliare la testa, a Genzone fece strappare gli
occhi e mozzare la lingua, fece mettere in prigione gli altri congiurati,
confiscare i loro beni e torturare le loro donne perché rivelassero dove
fossero nascosti i loro tesori.
Dopo questo atto di ferocia e
crudeltà Ugo propose ai nobili italiani di associare il figlio Lamberto
al trono ed essi approvarono e Lamberto fu incoronato a Pavia tra banchetti e
grandi festeggiamenti.
Ugo per sicurezza assegnava le nomine a
persone che se anche non nobili, erano fidate e riconoscessero ciecamente la
sua autorità, e normalmente erano suoi connazionali. Essendosi reso
vacante il vescovado di Verona, Ugo nomina come vescovo Ilduino, suo parente,
che era stato respinto dal vescovado di Tongres ed era venuto in Italia in
cerca di miglior fortuna. Poco dopo si era resa vacante la sede di Milano, la
più ricca e più prestigiosa e godeva di autorità su tutto
il regno. Ilduino chiese di essere trasferito a questa sede, ma le leggi
ecclesiastiche vietavano i trasferimenti da una sede all’altra. A seguito
di intrighi e con il consenso del papa e il voto degli elettori Ilduino fu
trasferito a Milano, mentre a Verona venne nominato il monaco di Liegi, Raterio
che aveva accompagnato Ilduino in Italia.
La Toscana, dopo la morte di Guido era
passata a suo fratello Lamberto, fratellastro di Ugo, il quale concepì
l’idea di appropriarsene per darla a Bosone, suo fratello germano che
viveva da semplice cortigiano alla corte di Pavia.
Per realizzare il suo disegno, Ugo fece
spargere la voce che la madre
Berta, marchesa di Toscana, non aveva partorito nessun figlio da Adalberto e
che Guido, Lamberto ed Ermengarda fossero figli di genitori oscuri e Berta li
aveva attribuiti al marito per mantenere alla sua morte,
l’autorità sulla Toscana.
Lamberto però mandò a dire che
era disposto a provare di essere figlio di Berta, con le armi (giudizio di Dio). Ugo accettò e
mandò un suo campione di nome Teduino che Lamberto vinse, ma Ugo fece
arrestare ugualmente Lamberto, gli fece cavare gli occhi e diede la Toscana al
fratello Bosone.
Ma dopo aver dato il ducato di Toscana a
Bosone, Ugo già pensava di togliergliela per darla a un figlio bastardo
di nome Uberto, nato da una delle concubine, Gualdemonda, e bramava anche di
appropriarsi delle ricchezze accumulate da Bosone e dalla moglie Willa. Costei
era una nobile borgognona, avida di danaro che approfittando della sua
posizione si appropriava delle ricchezze altrui ed era tanto temuta che le
nobili dame avevano cessato di portare monili preziosi per evitare che Willa se
ne impadronisse.
Per togliere la Toscana a Bosone, Ugo finse
una congiura e lo fece arrestare e deporre. Willa, considerata complice del
marito ebbe ordine di partire per la Borgogna, e stava per partire a cavallo
quando fu fermata dalle guardie di Ugo che aveva dato ordine di perquisirla.
Questi aveva notato che Bosone usava mettere
nei giorni festivi un pendente, facente parte del suo tesoro, di grande valore.
Frugando nel tesoro di cui si era appropriato però. non lo aveva trovato
e aveva dato ordine appunto a una delle sue guardie di perquisirla,e occorrendo
di frugare anche tra le sue vesti e se necessario, dappertutto.
Willa era già montata a cavallo, e la
guardia incaricata frugando sotto le vesti si accorse che tra le gambe pendeva
una fibbia; Willa fu denudata alla presenza di tutti e frugando nella sua
intimità, la guardia tirò fuori il pendente, tra il divertimento
dei presenti.
Ugo continuò a governare
l’Italia profondendo ricchezze e cariche ai suoi favoriti francesi e non
bastando il tesoro reale, si appropriava dei tesori delle chiese e donava
abbazie, vescovadi e monasteri a sicari, delatori e concubine, ma aveva sempre
sulla bocca il nome di Dio e per sembrare religioso, dopo averle depredate,
faceva alle chiese piccole donazioni.
Avendo saputo dai suoi delatori sparsi in
tutte le città del regno del malcontento suscitato, Ugo pensò di
allearsi alla casa borgognona dove regnava Corrado figlio di Rodolfo (che era stato re
d’Italia e morto nel 937), offrendosi di sposarne la madre Berta
(nonostante lui fosse sposato con Marozia, vivente), vedova di Rodolfo e far
sposare a suo figlio Lotario, la sorella di Corrado, Adelaide.
Le proposte furono accettate e i matrimoni
celebrati (938), ma Ugo lussurioso e lascivo, aveva sempre il suo harem di concubine, tra le quali Bezola,
sveva e madre di Bosone, che poi fu vescovo di Piacenza, altra Berta, Stefania
madre del chierico Teobaldo, Boza, figlia di Gualberto che Ugo aveva fatto
decapitare e tante altre di cui era popolata la corte. Dalla sua libidine non
si salvò neanche Adelaide, la moglie sedicenne del figlio Lotario, che
consolò regalandole cinque corti e tre badie.
Come già detto, Ugo aveva inondato
tutte le città del regno di delatori ed era venuto a sapere di una
congiura che stavano preparando contro di lui Berengario marchese d’Ivrea
e Ascario duca di Spoleto e Camerino. Ugo, mentre mostrava amicizia per il
primo, mandò il suo esercito con a capo il conte di palazzo Scarlione a
Spoleto contro Ascario, che dopo aver riportato una iniziale vittoria, rimase
alla fine ucciso. Scarlione fu ricompensato con la nomina di marchese di
Spoleto e Camerino.
Subito dopo, Ugo invitò in amicizia
Berengario d’Ivrea e in un consiglio segreto si decise ad arrestarlo e
accecarlo. Il giovane figlio Lotario presente al consiglio, preso da orrore,
avvertì Berengario il quale si salvò con la fuga, rifugiandosi in
Germania. Ugo mandò ambasciatori e molto oro all’imperatore Ottone
I, chiedendo di consegnargli il fuggiasco, ma Ottone glielo rifiutò.
FINE DI UGO
SI FA STRADA
UN NUOVO BERENGARIO
G |
li italiani erano stanchi dei soprusi e
della avidità di Ugo e i feudatari longobardi si rivolgevano a
Berengario il quale mandò un suo fidato in Italia, di nome Amedeo che
vestito da pellegrino andò a visitare tutti i vescovi e conti nemici di Ugo.
Questo attraverso le sue spie venne a sapere
di questo personaggio e diede ordine di arrestarlo, ma Amadeo era bravo nei
travestimenti e si fingeva ora zoppo, ora cieco o lebbroso, con barba e capelli
neri o biondo; una volta avvicinò il re in un gruppo di pellegrini e si
mostrò tanto malvestito che il re gli fece dono di un vestito. Tornato
in Germania riferì a Berengario delle forze poderose di Ugo e dei nemici
pronti ad aiutarlo.
Berengario si decise a venire in Italia
attraverso le Alpi del marchesato di Trento che era stato affidato da Ugo a
Manasse, arcivescovo di Arles, accresciuto con i beni delle chiese di Verona e Mantova, e giunse al castello
di Fornigara tenuto da un chierico di Manasse, Adalardo al quale Berengario promise il vescovado di Como
e a Manasse quello di Milano e così i due passarono dalla sua parte.
Stando presso il forte di Fornigara, la
rivolta scoppiò improvvisa. Il conte di Verona, Milone che Berengario
tratteneva alla corte di Pavia, riuscì a fuggire e giunto a Verona
aprì le porte a Berengario, l’esempio fu seguito da Guido, vescovo
di Mantova al quale Berengario promise la ricca badia di Nonantola.
Tutti gli altri feudatari che lo
appoggiavano, si aspettavano da lui
cariche e possedimenti e Ugo non poteva fare altro che promesse.
Travolto da questo vortice di ribellioni,
Ugo si chiuse a Pavia ed essendo stata fissata una dieta a Milano mandò
il giovane Lotario il quale istruito dal padre, chiese che se non volevano
avere più il padre non privassero lui, che si riteneva innocente, della
corona. Il giovane rampollo
riuscì a commuovere tutti convenuti che decisero con un
compromesso, di tenersi l’uno e l’altro, lasciando regnare Lotario
sotto la tutela di Berengario.
Anche Berengario che aveva nascosto la sua
ambizione, in breve spazio di tempo si diede alle prepotenze e arbitrii,
saccheggiando le campagne e facendo accecare tutti coloro che in qualche modo
gli erano avversi, e sostituendo vescovi, abati e badesse con personaggi di sua
fiducia. Sostituì Giuseppe, vescovo di Brescia con un suo
favorito;voleva sostituire Bosone, figlio di Ugo e vescovo di Piacenza ed altri
vescovi, ma ricevette denaro e se ne astenne: si giustificò dicendo che
“lo aveva fatto per amor di
Dio”, e aveva sempre
l’amor di Dio sulle labbra.
Nel frattempo la Toscana e il ducato di
Spoleto e Camerino erano nelle mani di Uberto che con questi due grandi feudi Berengario
vedeva troppo potente, e lo costrinse a rinunciare al ducato di Spoleto e
Camerino che donò al suo fedele Bonifacio.
Con tutte queste elargizioni e donativi
tutti i fedeli di Ugo passarono dalla parte di Berengario e Ugo rimasto senza il sostegno dei suoi,
andò via dall’Italia, lasciando il giovane figlio Lotario
(931-950) e dopo averlo raccomandato a Berengario, se ne partì per la
Provenza dove andò a chiudersi in un convento e morì poco tempo
dopo (850), dopo un regno durato circa ventidue anni.
Lotario morì giovanissimo, si diceva,
ma fondatamente, avvelenato da Berengario il quale appena morto Lotario,
riunita una dieta a Pavia con suo figlio Adalberto furono riconosciuti e
incoronati e lui prese il nome di Berengario II (950-961).
Berengario voleva che Adalberto sposasse la
giovane vedova di Lotario, Adelaide, ventenne e decantata per la singolare
bellezza. Egli voleva farla sposare a suo figlio perché temeva che
sposando qualche altro principe, questo avrebbe potuto aspirare alla corona
d’Italia e ciò avrebbe costituito per lui un serio pericolo; ma
Adelaide rifiutò perché riteneva Berengario responsabile della morte
del marito.
Adelaide presso la corte di Pavia viveva
come prigioniera, maltrattata e seviziata da Berengario e dalla moglie Willa;
essa fu poi mandata presso la Torre del Benaco sul lago di Garda dove oltre
alla prigionia le facevano soffrire la fame.
Un prete di nome Martino deliberò di
aiutarla a fuggire e scavata una galleria fin sotto la torre riuscì a
trasportare la prigioniera con la sua ancella dall’altra parte del lago,
coperta da un fitto bosco, dove viveva un pescatore che ospitò le
fuggiasche.
Martino si recò da Adelardo Vescovo
di Reggio, il quale si rivolse ad
Azzo feudatario di Canossa che andò a prenderla e la condusse nel suo
inespugnabile castello e nello stesso tempo Adelardo si rivolse a Ottone I re
di Germania, facendogli balenare la possibilità di prendere la corona
d’Italia.
Ottone mandò avanti il figlio
Landolfo e poi giunse con un esercito, giustificando il suo arrivo con
l’intenzione di andare a Roma a prendere la corona imperiale, ma si
recò direttamente a Pavia dove fu accolto senza resistenza e con grandi
onori.
Da Pavia Ottone mandò legati a
Canossa a chiedere ad Adelaide di andare a Pavia, e Adelaide recatasi alla
corte Ottone lo colpì per la sua bellezza. Ottone, vedovo
dell’inglese Editta, decise di sposarla e contemporaneamente fu
incoronato a Milano re d’Italia (851), dall’arcivescovo Gualberto.
Berengario per salvare la sua posizione si offrì
a Ottone come vassallo (Dieta di Augusta 952), ottenendo così
l’investitura di re d’Italia, ad eccezione delle marche di Verona e
Aquileia, annesse alla Baviera.
Berengario II però, sentendosi
umiliato come vassallo, aveva reso il suo governo violento, scontentando tutti
e costringendo così Ottone a tornare in Italia, il quale, dopo aver abbattuto
le resistenze approntate da Berengario e aver occupato la Valle padana, si
recava a Pavia per riprendere la
corona di re d’Italia.
Berengario era andato a rifugiarsi nella
fortezza di San Leo a Montefeltro e la moglie Willa nell’isola di San Giulio
sul lago di Orta, i due figli Adalberto e Guido si erano rifugiati nella rocca
del Garda. Willa aveva con sè il tesoro reale, accresciuto dalla sua
rapacità, e Ottone andò ad assediare San Giulio che si arrese
dopo due mesi e preso il tesoro, lasciando libera Willa, poi si recò a
Roma (962) per prendere la corona di imperatore dal giovanissimo papa Giovanni
XII (che sarà destituito dallo stesso imperatore v. sotto) al quale fece
regali di oro, argento e gemme preziose, certamente provenienti dal tesoro di
Willa.
Così Ottone I dopo quarant’anni di vacanza della carica,
assume la corona imperiale tedesca.
Al ritorno da Roma per farla finita con
Berengario, Ottone si recò alla fortezza di San Leo dove Berengario si
arrese e Ottone lo portò con sè in Germania dove moriva, con la
moglie Willa che entrò in un monastero e le figlie che rimasero con
l’imperatrice Adelaide.
CORRUZIONE DEL PAPATO
NEI SEC. IX E X
S |
ismondi in una delle sue lucide e brillanti analisi,
ha spiegato in maniera sublime la causa del degrado e della corruzione in cui
era caduto il papato nei sec. IX e X, scrivendo:- “Le dignità che danno potere e ricchezze, diventano oggetto dei desideri degli
ambiziosi, e ben presto, loro preda. Dopo le prime donazioni di Pipino, si
videro aspirare alla cattedra di s. Pietro persone assolutamente diverse da
quegli austeri sacerdoti che l’avevano fino a quei tempi occupata e gli
annali della Chiesa incominciarono a macchiarsi dei delitti del capo dei cristiani”.
Sismondi si riferisce alle ricchezze che
erano iniziate a confluire nella Chiesa con le “donazioni” fatte da Pipino (v. Articoli: Carlomagno e
l’idea dell’Europa), sebbene con quelle prime donazioni la Chiesa
non avesse avuto l’immediato godimento della sovranità delle
province e delle città le cui chiavi erano state depositate
sull’altare di s. Pietro. E quando il papa Adriano aveva chiamato Carlo
Magno, che aveva conquistato il regno dei longobardi (774), egli confermò
le donazioni del padre, senza però dare esecuzione al trasferimento dei
territori.
Ma se con le donazioni, scrive Sismondi,
fatte da Pipino, Carlo Magno e Ludovico il Pio, si limitarono a semplici atti
di ostentazione che quei monarchi non ebbero mai intenzione di mettere in esecuzione,
“essi arricchirono la Chiesa con
remunerativi benefici, dando l’utile dominio dell’Esarcato e della
Pentapoli, cioè frutti e rendite delle terre, mentre la sovranità
era riservata (nell’ordine),
alla repubblica romana, al patrizio e per ultimo all’imperatore
d’Occidente: ma, essendo il papa il primo cittadino di Roma ne divenne
anche il primo e più potente barone”.
“Due
fratelli”, scrive ancora Sismondi,
“Stefano II e Paolo I che ebbero
successivamente il papato dal 752 al 766 vengono accusati dallo storico della
Chiesa di Ravenna (Agnellus), di ingiustizia, rapina, crudeltà. Dopo la
morte di Paolo I (757767), un
antipapa si impadronì con le armi della sede pontificia (Costantino
767-69, seguito da Filippo 768 ndr.); il
legittimo papa, Stefano III (752-757)
ebbe parte negli assassini di alcuni principali dignitari della sua Chiesa e
tutto il clero adottò le abitudini e i feroci costumi dei gentiluomini del suo secolo”.
E Sismondi prosegue:- “Nei tempi della barbarie, mentre l’ignoranza rende la fede
più costante, le passioni indomabili o feroci distruggono in via
assoluta la morale; le stragi, i tradimenti gli spergiuri, sono avvenimenti
comuni nella storia di quegli uomini che nel IX e X sec. ebbero il nome di
grandi. Ma dopo così enormi
delitti, una magnifica penitenza attestava la religione e il pentimento del
colpevole. L’ambizione del clero mostrò ai grandi delinquenti una
ignota strada per espiare i loro
delitti e far dimenticare i loro furori: e questa strada fu quella delle
donazioni alla Chiesa per la salvezza dell’anima del donatore”.
Pipino e Carlo Magno avevano gettato le
fondamenta della potenza papale: essi oltre ad aver arricchito la Santa Sede,
avevano arricchito anche l’arcivescovo di Ravenna che gareggiava col
papa, e poco meno l’arcivescovo di Milano e molti monasteri. Tutti i loro
successori ne imitarono l’esempio e i principali baroni, seguendo
l’esempio del loro sovrano, fecero pagare agli eredi i misfatti che
avevano commessi. Con la conseguenza che “nel dodicesimo secolo abbiamo
più atti di donazione fatti alle chiese che contratti di qualunque altro
genere presi cumulativamente”.
Quando Ottone il Grande (I) giunse in
Italia, le città più ricche, le province più popolate
erano possedute dal clero, mentre i maggiori feudi si erano estinti o erano
frantumati. In quei tempi i maggiori e più potenti ecclesiastici erano
il patriarca di Aquileia, gli arcivescovi di Milano e di Ravenna, i vescovi di
Piacenza, Lodi, Asti, Bergamo, Novara, Torino, l’abate di Montecassino,
il vescovo di Benevento era il più potente signore del ducato che
conservò il titolo di primo
barone del regno di Napoli, e l’abate di Farfa nella Sabina.
Inoltre, la maggior parte dei vescovi, per
concessione di un re o signore, avevano acquistato la giurisdizione delle
città in cui risiedevano e non vi era un solo vescovo o un solo
monastero che in qualche territorio o villaggio non possedesse diritti feudali.
I Cancellieri dei monarchi, particolarmente
sotto i carolingi, erano quasi
sempre ecclesiastici e i vescovi o abati partecipavano al Consiglio del re.
Durante il regno di Pipino e in parte di Lotario, Adalardo, con il fratello
Valla (Wala) abate di Corbie (nipoti di Carlomagno), furono i veri sovrani
d’Italia (v. Articoli: I carolingi e la dissoluzione dell’impero).
E scrive ancora Sismondi: “Il favore del sovrano, il potere, le
ricchezze, corruppero coloro che le possedevano con la conseguente corruzione
del clero se si pensa che in quell’epoca lo spirito della religione
cristiana era corrotto dalla più grossolana superstizione. I ministri
della Chiesa erano scelti tra i secolari e i figli dei grandi signori: giovani
cavalieri addestrati al maneggio delle armi e dei cavalli finivano nelle file
del clero e portavano con sé i vizi del secolo e l’avidità
con cui spogliavano le chiese dei loro beni. Bastardi di re, sovrani, deposti e
grandi signori caduti in disgrazia, venivano costretti a ricevere la tonsura,
con la conseguenza che il corpo del clero non poteva possedere le virtù
proprie del suo stato”.
Roma che non faceva parte del regno
d’Italia essendo dipendente solo dalla corona imperiale, nei periodi di
vacanza della carica imperiale, se pur recuperava la sua indipendenza, ricadeva
però sotto il giogo dell’oligarchia dei suoi sudditi, con la
conseguenza che se è vero che l’elezione era nelle mani del clero
e del popolo, il clero era formato da nobili e militari che designavano uno del
proprio corpo.
Sin dall’inizio del sec. VII, il papa
Leone III (795-816) che aveva incoronato Carlomagno, aveva dovuto affrontare
una congiura che voleva assassinarlo e aveva fatto giustiziare i congiurati e
aveva dovuto affrontare agitazioni e rivolte sia in città che
nell’Agro romano (comprendente Anagni, Segni, Frosinone, Tivoli ecc.),
tanto da aver dovuto chiamare il duca di Spoleto, Guinigiso. Alla sua morte era
stato eletto papa Stefano V (816-817)
che aveva regnato per soli sette mesi appena in tempo per incoronare
l’ imperatore Ludovico il Pio a Reims.
Gli succedette Pasquale I (817-824) il quale
ottenne da Ludovico il Privilegium Ludovicianum (817) che
confermava la sovranità papale sui territori donati da Carlomagno (Roma,
la Campagna Romana, la Tuscia romana e la Tuscia longobarda e le rendite
dovute dagli altri territori (parte
restante delle Tuscie, ducato di Spoleto, Perugia, Pentapoli con Osimo e
l’Esarcato), donazioni di Carlomagno. Il papa invita a Roma Lotario e lo
incorona (823) imperatore (da ricordare che nell’817 il padre Ludovico lo
aveva associato all’impero, v. Articoli: I carolingi ecc.).
Anche contro il papa Pasquale I vi fu una
congiura e i congiurati facenti parte della corte papale, scoperti furono
accecati e uccisi. e il papa dovette giustificarsi con l’imperatore di
non aver avuto parte nelle uccisioni. Alla sua morte, dopo sette mesi di vacanza
è eletto papa Eugenio II (/824-827) sotto il quale il quale Valla, con
lo scopo di metter fine alle rivolte, trame e complotti, prepara il Constitutum Lotharii che costituisce in
parte una revoca del Privilegium
Ludovicianum e un restringimento della sovranità papale con
l’istituzione di due missi, uno imperiale e uno papale con
l’incarico per quest’ultimo di riferire al messo imperiale le
richieste dei sudditi che non avevano avuto soddisfazione dagli ufficiali del
pontefice; gli ufficiali e tutti i magistrati dovevano presentarsi
all’imperatore per essere da lui conosciuti; i romani che chiedevano la
protezione imperiale godevano dell’inviolabilità di fronte ai
magistrati papali; ciascuno era libero di essere giudicato secondo la legge franca
(assai più mite delle legge romana); all’elezione del papa
dovevano partecipare oltre agli ecclesiastici, anche i laici (contro il
concilio del 769 che aveva riservato ai laici il solo saluto e
l’applauso); i romani
dovevano giurare di non permettere la consacrazione dell’eletto prima che
costui avesse a sua volta giurato di governare “pro conservationum omnium” (questa clausola che assoggettava
l’elezione del pontefice alla ratifica imperiale, era ritenuta
così restrittiva che si era dubitato della sua autenticità).
Eletto Gregorio IV (827-844), la sua
consacrazione ebbe luogo “non prima
che il messo imperiale avesse esaminato la regolarità della elezione”
(non prius ordinatus est, quam legatus imperatoris Romanum venit et eletionem
populi quali esset examinavit), e fu il testimone di tutte le vicissitudini che
Ludovico il Pio dovette affrontare con i propri figli (v. Articoli: I carolingi
ecc. cit.) e all’inizio del disfacimento dell’impero che fu tra di
essi diviso.
Gregorio IV attese al restauro dell’Aqua
Traiana, dell’acquedotto sabatino; provvide alla coltivazione della
campagna romana in quanto le insurrezioni del tempo di Leone III avevano
causato la distruzione di molte masserie; infine fece ricostruire Ostia Nuova
dove fondò la Colonia del Drago che abbellì con una villa per
sé, che fu la prima villa che un papa ebbe l’idea di farsi
costruire.
Dopo la sua morte fu eletto Sergio II
(844-847) portato a viva forza in Laterano, con il popolo tumultuante e
consacrato senza attendere la conferma dell’imperatore; l’imperatore
Lotario (v. cit. I carolingi ecc.) manda il figlio Ludovico, il vescovo Drogone
di Metz, figlio di Carlomagno accompagnati da venticinque vescovi e una schiera
di armati.
Viene accolto dal papa che lo accompagna
fino alla porta d’argento della basilica di s. Pietro che è
sprangata e il papa ammonisce il re costernato, dicendo “se sei venuto con cuore puro e benevolenza,
le porte saranno aperte, altrimenti, né io né un mio ordine
potranno aprirle” alla
risposta positiva di Ludovico le porte si aprono e col pontefice si inginocchia
sulla tomba di s. Pietro.
Dopo essere stata riconosciuta da un sinodo,
in cui il partito franco era contrario, alla fine l’elezione del nuovo
papa ebbe riconoscimento e Ludovico
fu incoronato re dei Longobardi e il papa con i romani, prestarono giuramento
di fedeltà che Ludovico chiese fosse prestato a lui, ma il papa si
rifiutò dicendo che il giuramento era prestato non a lui ma solo
all’imperatore.
Sergio II (844) durante i tre anni di
pontificato cadde sotto le grinfie del brutale e avido fratello Benedetto che
accumulò danaro con la simonia e fu considerato “un flagello che Dio aveva mandato con
l’altro dei musulmani” che
giunsero a saccheggiare (846) le basiliche di s. Paolo e s. Pietro depredando
la raccolta di tesori di cinque
secoli dall’epoca di Costantino.
Ma i saraceni quei tesori non potettero
goderseli perché una tempesta affondò tutte le loro navi e molti
furono i gioielli trovati nelle
tasche dei cadaveri che il mare aveva rigettato sulle spiagge.
All’inizio dell’anno della morte
del papa Sergio II (I. 847) vi fu un forte terremoto seguito da un incendio che
dal quartiere sassone raggiunse il portico della basilica di s. Pietro...
incendio che sarebbe stato fermato dalla santità del nuovo papa Leone, facendo il segno della croce (poi
riprodotto da Raffaello in Vaticano nella Sala dell’incendio).
Leone IV (847-855) per porre un riparo alle
invasioni dei saraceni, provvide a far restaurare in gran fretta, dirigendo
personalmente i lavori, le mura
aureliane e i luoghi adiacenti (i quartieri dei sassoni, dei franchi, dei
lombardi fino a Castel s. Angelo e alla porta di s. Pietro, cioé tutta
quella parte che fu chiamata la
città leonina).
I romani approfittavano della protezione
dell’imperatore (Ludovico II) in quanto se il papa condannava,
l’imperatore assolveva, e commettevano ogni sorta di violenza
taglieggiando anche i pellegrini.
In questa situazione il magister militum Daniele recatosi dall’imperatore aveva mosso
delle accuse inconsistenti nei confronti di Graziano anch’egli magister
militum e per di più al servizio della corte pontificia come consigliere
e superista. Costui avrebbe detto che
i franchi erano buoni a nulla, anziché
aiutarci, ci spogliano: perché non tornare con i greci?
E’ da dire in proposito che i greci
nel meridione erano divenuti più numerosi a causa di cinquantamila
rifugiati greci tra monaci, laici ed ecclesiastici, sfuggiti alle persecuzioni
iconoclaste (v. Articoli: I mille anni dell’impero bizantino, Cap. VI):
nella sola Calabria si contavano ben duecento monasteri basiliani. Ludovico poi
aveva motivo di risentimenti nei confronti della corte greca in quanto da parte
dell’imperatore Michele III mentre gli aveva promesso in sposa una sua figlia, poi
non gliel’aveva concessa, e Ludovico II aveva sposato Engelberga (o
Angilberga).
Egli quindi si precipita a Roma, accompagnato dalla moglie Engelberga,
per accertare la veridicità dell’accusa che risulterà
falsa; al processo, presieduto dall’imperatore, convennero il papa, i
nobili romani e franchi, e dopo aver sentite le parti e i testimoni fu
riconosciuto che Daniele aveva mentito spudoratamente e fu consegnato a
Graziano.
L’ imperatore voleva che fosse eletto papa
una persona di sua fiducia, ed era stato ordinato sacerdote un certo Anastasio
(poi detto il Bibliotecario), che
alla morte di Leone IV (855) avrebbe dovuto essere nominato papa. Ma Anastasio
dopo essere stato ordinato sacerdote fugge da Roma e viene eletto Benedetto III
(855-858).
Solo a elezione avvenuta Anastasio si
ripresenta con i messi imperiali e
una turba di partigiani che entrano nel Laterano, strappano a Benedetto le
insegne papali e impongono con le spade a vescovi, clero e popolo, la elezione
di Anastasio; ma costoro resistono e i sostenitori di Anastasio si ritirano.
Dopo tre giorni di digiuno si procede alla nuova elezione di Benedetto III, alla presenza dei
legati imperiali, mentre Anastasio prima scomunicato e poi riabilitato,
ritiratosi in convento, fu nominato abate di s. Maria in Trastevere.
Sotto Leone IV a Reims prendono consistenza
le “Decretali pseudo-isidoriane”
costituite da un misto di materiale manomesso o inventato, attribuito a Isidoro
di Siviglia (m. 636) ma raccolto da un gruppo di falsificatori che raccolsero
tutte le decretali pontificie, dalle più antiche, manipolate, fino a
quelle di Gregorio II e le decisioni dei concili, compreso il Constitutum Costantini, tutti documenti
intesi a contestare la superiorità del potere imperiale, i cui
principi saranno posti in essere
dal papa Nicola I.
LUDOVICO II
ASSEDIA BARI OCCUPATA DAI
SARACENI
RIBELLIONE DI ADALGISO PRINCIPE
DI BENEVENTO
L |
’ l’imperatore Ludovico II era sceso
ad assediare Bari (869) occupata dai saraceni non ottenendo grandi vantaggi in quanto gli aiuti che il
fratello Lotario gli aveva mandato dalla Lorena non erano stati di grande aiuto
perché molti soldati, non abituati a quel clima erano morti e molti
altri stanchi di esser lontano dalle loro case se ne tornavano nel loro paese.
Anche dalla Calabria che si trovava sotto
l’impero bizantino, giunsero a Ludovico richieste di aiuto, Ludovico
mandò dei soldati che trovarono i saraceni che tranquillamente mietevano
il grano dei calabresi e li massacrarono e quindi liberarono tutti i cristiani
che in quelle zone dai saraceni
erano stati ridotti in schiavitù.
Il quartier generale dei saraceni si trovava
ad Amantea, dove vi fu un combattimento
con molti morti da parte dei saraceni.
Dopo questa vittoria l’esercito
imperiale si preparava ad assalire Bari, ma giunsero notizie che
l’esercito saraceno si preparava a raggiungere Bari e prendere alle
spalle l’esercito imperiale e sorprenderlo il giorno di Natale durante la
cerimonia religiosa. Ma Ludovico diede ordine di ascoltare la messa e fare la
comunione prima del levar del sole e prepararsi alla battaglia. Giunti i
saraceni, furono colti alla sprovvista, e dopo un duro combattimento si volsero
in fuga lasciando sul campo molti morti. Ludovico poté quindi
impadronirsi di Bari (Natale 870).
Durante l’assedio di Bari Ludovico si
era rivolto all’imperatore bizantino, Basilio I (v. Articoli: I mille
anni dell’impero bizantino, cap. VII) chiedendogli soccorso contro i
comuni nemici infedeli promettendo la propria figlia come sposa per il figlio.
Basilio I accettò l’invito e gli mandò alcune centinaia di
navi con un patrizio incaricato di portare a Bisanzio la principessa franca.
Ludovico però all’ultimo momento rifiutò di consegnare la
figlia e il patrizio bizantino se ne tornò con la sua flotta.
Basilio risentito per il comportamento di
Ludovico, gli scrisse una lettera in cui gli rimproverava “l’ardire di assumere il nome e gli
onori imperiali mentre non era
altro che un re dei franchi”. Ludovico gli rispose che “il titolo imperiale non era nuovo nella sua
casata, avendone goduto i suoi
predecessori Carlo Magno, Ludovico e Lotario e questo titolo era tanto
legittimo quanto quello di re dei franchi, ambedue concessi in quanto difensori
della Chiesa”.
Ludovico concludeva pregando
l’imperatore bizantino di rimandargli le sue navi per impedire che da
Palermo giungessero aiuti ai saraceni e gli suggeriva anche di liberare la
Calabria e quindi la Sicilia.
Una ribellione nei suoi confronti gli aveva
creato dei problemi mentre si trovava a Benevento e una parte del suo esercito
teneva sotto assedio i saraceni di Taranto. Diverse città della
Campania, Sannio e Lucania si ribellano invocando l’imperatore bizantino.
Ludovico radunò l’esercito e in poco tempo domò le
ribellioni e se ne tornò a Benevento.
Principe di Benevento era Adalgiso (o
Adelchi, da non confondere con il suo omonimo figlio di Desiderio re dei
Longobardi, morto il 787) promotore delle ribellioni, il quale mentre Ludovico
tornava a Benevento gli andò incontro senz’armi, dichiarandosi a
lui fedele e sottomesso. Ma non tardò a dimostrare di essere un
traditore: infatti, mentre l’imperatore dormiva nel palazzo di Benevento e la sua guardia era sparsa per la
città, una banda di beneventani assalì il palazzo. I familiari
cercarono di resistere ed egli stesso svegliato dai rumori prese le armi.
Adalgiso a capo della banda fa appiccare il fuoco alle porte e
l’imperatore è costretto ad indietreggiare di stanza in stanza,
rifugiandosi in una torre. Qui riesce a resistere per tre giorni e alla fine si
arrende.
La notizia si era sparsa per l’Italia,
Francia e Germania anche ingrandita in quanto si diceva che i beneventani
avevano trucidato l’imperatore. Adalgiso si rese conto della
gravità del suo tradimento, e approfittando di uno sbarco di saraceni a
Salerno, liberò l’imperatore chiedendogli di giurare che non si
sarebbe vendicato per l’offesa ricevuta, ottenendo il giuramento anche
dell’imperatrice, della figlia e dell’esercito. Ma Ludovico le cui
mire erano quelle di appropriarsi del principato di Benevento, voleva
annientare Adalgiso e si rivolse al papa per far dichiarare nullo il
giuramento: il papa sciogliendolo dal giuramento
autorizzò l’imperatore a punire Adalgiso per il suo
tradimento.
Ludovico si prepara a muovere contro
Adalgiso quando avrà finito di combattere i saraceni, ma Adalgiso lo
previene e manda ambasciatori presso l’imperatore bizantino Basilio I che
allestisce una flotta e la manda nell’Adriatico. Questo suscita la
baldanza dei beneventani i quali quando arriva l’esercito imperiale
oppongono maggior resistenza facendosi beffe dalle mura della città
dell’imperatore.
Ludovico, venuto a sapere dell’arrivo
della flotta bizantina, rendendosi conto di non poter affrontare una guerra con
i bizantini, decide di ritirasi, ma ritenendo la ritirata vergognosa in quanto
aveva giurato di vendicarsi di Adalgiso, chiama il papa Giovanni VIII
(succeduto ad Adriano II) e fingendo di aver ceduto alle preghiere del papa, di
mantenere la pace tra i cristiani, ordina la ritirata.
Adalgiso sarà ucciso a seguito di una
congiura di palazzo (877) e sarà sostituito da Gaideri, figlio di
Radelchi
LA PAPESSA GIOVANNA
TRA STORIA E LEGGENDA
N |
el corso degli avvenimenti verificatasi tra
la morte di Leone IV (855) e la nomina di Benedetto III se ne verifica uno
ancora più singolare e insolito nella elezione dei papi: quello della
papessa Giovanna, che
aveva dato luogo a opere storiche e letterarie: con inizio dalla Chronica
Universalis Mettensia e di altri cronisti medievali, e poi di di Boccaccio,
Platina, Lawrence Durrel, dello scrittore greco Emanuele Roidis fino a un sonetto di Belli che termina: “D’allora un’altra sedia
fu messa per tastà sotto al sito delle voglie, se il pontefice sii papa
o papessa”, secondo alcuni la leggenda andrebbe collegata al concetto della Mater Ecclesia e alla cerimonia della
sedia da parto (col foro centrale chiamata “Sella
Stercoraria”) su cui durante la consacrazione si sedeva il papa
(invalsa dall’inizio del X sec. al 1566), che il papa Urbano VIII
farà eternare provocatoriamente
dal Bernini nei basamenti del
baldacchino di bronzo di s. Pietro, con sei volti di donna nelle diverse fasi
del parto, e il neonato sorridente.
Sta di fatto che con tutte le tragiche
vicende che si erano verificate in quei secoli intorno alla elezione dei papi e
intorno alle vicissitudini di cui essi erano stati protagonisti, la circostanza
che una donna (probabilmente androgina che
indossava abiti maschili) all’insaputa di tutti, fosse stata
eletta papa non può scandalizzare più di tanto.
Sta di fatto che i riferimenti concreti
dell’avvenimento erano stati tanti da farlo ritenere veritiero, come la
statua di una donna con bambino tra quelle dei papi lungo la strada papale; le
sedie marmoree con il foro che si trovavano nel Laterano, una deviazione del
corteo papale dalla strada dove durante una processione la papessa avrebbe
partorito, sono considerate tutte circostanze collegate all’avvenimento.
Mariano Scoto narrava che morto Leone IV gli
succedette una donna che visse due anni quattro mesi e cinque giorni, seguito
da Sigiberto Gemblacense che in una cronologia di papi, nell’anno 854
inserì la papessa scrivendo che il papa di nome Giovanni fosse una
femmina, così nota a un solo suo familiare. Martino di Toppau, detto Polono scrisse che la papessa era morta
di parto durante una processione e per ricordare l’accaduto fu innalzata
una statua, aggiungendo che dopo quell’avvenimento, al momento della
elezione del papa era usata una seggiola con foro per accertarsi del sesso
dell’eletto.
Ma la storia della papessa era ancora
più particolareggiata.
Si trattava di una bella fanciulla di
Ingelheim, figlia di un anglosassone che brillava in un convento di Magonza per
le sue doti intellettuali. Di lei si era innamorato un monaco scolastico,
benedettino, che la portò nel monastero di Fulda facendole indossare il
saio maschile. I due studiavano insieme e per approfondire le loro conoscenze,
decisero di viaggiare, recandosi
prima in Inghilterra e poi ad Atene: Qui lei ebbe una cattedra nella
Scuola Greca e si faceva chiamare Giovanni Anglico. Lui poco dopo moriva, e lei
partì imbarcandosi su una nave che andava a Roma. Quì
incantò filosofi e cardinali per il suo sapere. Giovanna aspirava a
diventare papa e tanta era stata l’ammirazione suscitata, che alla morte
di Leone IV (855) i cardinali
votarono tutti per lei.
Dopo essere stata eletta papa
intrecciò rapporti intimi con il suo fedele cameriere che l’aveva
messa incinta e durante una processione, fra il Colosseo e San Clemente la
papessa ebbe un parto prematuro, e
dopo aver partorito un bambino spirò. I romani la seppellirono in
quello stesso luogo e sulla strada che conduceva al Laterano fu eretta la
statua di una donna con la corona pontificia che teneva tra le braccia un
bambino. Questa statua vi rimase fino a quando il papa Sisto V (1585-1590) non
la fece togliere.
Alcuni hanno fatto riferimento anche al papa
Giovanni VIII (872-882) chiamato papa-donna
e così tacciato per le sue debolezza nei confronti dei bizantini...non
escludendosi però l’ipotesi (che oggi non scandalizza) che ve ne
fosse stato qualcuno omosessuale, come avveniva tra gli imperatori bizantini.
Ma la papessa era indicata col nome di Giovanni VIII tra i ritratti dei papi
del duomo di Siena con la scritta “Joannes
VIII, donna angla” che per le insistenti richieste dello storico cardinal Baronio sul papa Clemente VIII
(Aldobrandini, 1592-1605) la figura fu trasformata in quella del papa Zaccaria.
Dopo i tre anni di pontificato di Benedetto III
855-858), fu eletto Nicolò I
(858-867), con l’appoggio di Ludovico II il quale in quel periodo si
trovava a Roma, ma l’amicizia che intercorreva tra papa e imperatore non
valse ad attenuare l’idea che il papa aveva della sua funzione, di
sottomissione del sovrano che del suo potere politico doveva rispondere al papa
dal quale dipendeva l’ordine sociale e religioso.
Nicolò I (858-867), Magno, riprese le Decretali pseudo-isidoriane e
pur consapevole della loro falsità, le rimaneggiò chiamando
l’Anastasio che abbiamo visto come antipapa di Benedetto III e lo
nominò bibliotecario del
Vaticano. Egli approfittando della debolezza dei carolingi, aveva ordinato
digiuni, messe e processioni contro i principi cattivi (riferendosi a Lotario
II che aveva ripudiato la moglie Teutberga per sposare Gualdrada: v. Articoli:
I carolingi e la dissoluzione dell’impero).
L’imperatore Ludovico II, visto
l’atteggiamento assunto dal papa, si
recò a Roma (864) con la moglie Engelberga e con
l’esercito, ritenendo che il papa avesse abusato del suo potere. Il papa
fece preparare una messinscena da funerale per tutta la città in lutto
con processioni e digiuni, qualificando l’imperatore “scellerato e infesto”. Intervenne
la diplomazia di Engelberga a fare incontrare il papa e l’imperatore
e il rapporto tra Lotario II,
Teutberga e Gualdrada fu risolto in favore di Teutberga che Lotario II,
minacciato di scomunica, dovette riprendere. Ma con la morte del papa le cose
ritornarono tutte come prima (v. cit. I carolingi ecc.).
DISPUTA PER L’ELEZIONE
DEL PAPA FORMOSO E
PROCESSO AL SUO CADAVERE
D |
opo la morte del papa Stefano V (892) si
disputarono il pontificato Sergio
Romano (appoggiato dalla famiglia dei conti di Tuscolo) e il vescovo Formoso di
Porto il quale essendo la sua fazione più forte e probabilmente
più numerosa, con una rivolta scacciò Sergio Romano e i suoi e a viva forza fu
consacrato Formoso (891-896).
I romani non accettarono questa nomina e
davano luogo a continue rivolte, tanto da mettere il papa in condizione di
chiamare Arnolfo che scese in Italia trovando al varco degli Appennini Guido
(894), il quale però poco dopo muore, per cui Arnolfo prosegue per Roma
dove però trova il figlio di Guido, Lamberto che la difende con la
madre, Ageltrude di Benevento figlia di Adalgiso (che in precedenza aveva fatto
prigioniero Ludovico II di Francia, v. sopra).
Papa Formoso riceve solennemente Arnolfo
come liberatore sulla gradinata di s. Pietro e lo incorona imperatore (896).
Arnolfo però, come il padre, viene
colpito da paralisi e lo dovettero riportare in patria dove muore (899): di
questa morte ne approfittano Lamberto e Berengario che si spartiscono l’Italia.
Roma finisce nelle mani di Lamberto e della
madre Ageltrude i quali fanno eleggere papa Stefano VI (896-897) e attraverso
questo si vendicano del defunto
papa Formoso colpevole di aver incoronato Arnolfo, il cadavere di Formoso viene
tolto dal sarcofago e viene
organizzato un processo.
Il cadavere è posto su una sedia al
cospetto di un’assemblea di ecclesiastici con a fianco un diacono che
fungeva da avvocato d’ufficio e rispondeva per il cadavere.
Alla presenza del papa, viene letto
l’atto di accusa e si procede quindi all’interrogatorio di
testimoni, frugando in tutta la sua vita.
Alla fine si legge la sentenza. E da
dire che il papa Formoso aveva
condotto una vita irreprensibile, tanto da portare il cilicio, come si
scoprirà durante il processo, v. sotto). Da vescovo Formoso era stato
mandato dal papa Nicolò I in
Bulgaria (866) e aveva suscitato tale ammirazione che il re Boris voleva
nominarlo patriarca, ma Formoso sebbene a malincuore non aveva accettato.
Con la sentenza, il papa è dichiarato
indegno della sede e invalida la sua elezione in quanto già vescovo di
Porto (l’accusa era inconsistente in quanto lo stesso papa Stefano VI
prima della elezione ricopriva la carica di vescovo di Anagni) e quindi
dichiarati nulli tutti i suoi atti e tutte le sue ordinazioni.
Dopo la lettura della sentenza, vengono
strappate dal cadavere le vesti e le insegne papali (si scopre sul corpo un
grosso cilicio incrostato nelle carni) e dopo aver reciso le tre dita della
benedizione, il cadavere viene seppellito in una tomba comune; la plebe, non
contenta, lo disseppellisce e butta il cadavere nel Tevere (897).
I romani però si vendicano anche di
Stefano VI, non appena Lamberto parte da Roma. E’ preso e spogliato degli
abiti papali, gli mettono addosso una cocolla (abito con cappuccio) e viene
gettato in carcere dove muore di morte violenta.
Il corpo del papa Formoso che era stato
ripescato dal Tenere e messo nella chiesa di s. Aconzio in Porto, venne
solennemente riportato in Roma e rimesso nel primitivo sarcofago
nell’atrio di s. Pietro.
Il successivo papa Giovanni IX (898-900)
cerca di cancellare le tracce del processo al cadavere, cancellando la
sentenza, proibendo i processi ai defunti, riconoscendo validi tutti gli atti
del papa Formoso, ad eccezione della incoronazione di Arnolfo, perché
quella barbarica unzione era stata estorta con l’inganno (unctio illa barbarica per surreptionem
extorta); e infine, per evitare contestazioni, viene deciso che la
consacrazione del papa dovesse essere fatta alla presenza del legato imperiale.
Nel frattempo l’imperatore Lamberto
muore per una caduta da cavallo (898), seguito dopo due anni dal papa Giovanni
IX: nel giro di otto anni (dall’896 al 904) si erano avvicendati ben otto
papi.
Dopo la morte di Benedetto IV (900-903) si
ebbe un anno di sommosse durante il quale ressero il pontificato Leone V (903)
per un mese, deposto e fatto arrestare e poi uccidere da Cristoforo (903-904)
considerato antipapa.
Rientrava a Roma Sergio che con
l’aiuto di Alberico e di Adalberto II di Toscana, si impadroniva del
trono facendo strangolare Cristoforo e prendendo il nome di Sergio III
(904-911). Privo di scrupoli e acerrimo nemico del papa Formoso dichiarò
nulla la sua elezione con la conseguenza che venivano ad annullarsi tutte le
ordinazioni e le donazioni fatte da quel papa e creando scompiglio nella
comunità ecclesiastica. Amante di Marozia ebbe da questa un figlio che
diventerà papa.
TEODORA E MAROZIA
GOVERNANO ROMA
I |
n mezzo a questo generale degrado a Roma vi
erano dame che primeggiavano per avvenenza e intelligenza, come le antiche
matrone romane che servendosi della loro bellezza riuscivano a tener testa ai
loro omologhi maschili. Tra tutte si resero celebri le patrizie Teodora e le
figlie Teodora jr e Marozia le quali per sessant’anni furono le arbitre assolute del governo
della città e del Vaticano e questo periodo fu designato come quello
della “pornocrazia”.
Teodora, di illustre famiglia, godeva del
titolo di cui era insignito il marito Teofilatto, di “serenissima vestatarix”, possedeva immense ricchezze (siamo nella
seconda metà del X sec.), ed esercitava il suo potere oltre che sul
marito, anche su Roma.
Teofilatto accentrava in sé tutte le
possibili cariche che lo facevano primeggiare su tutti, di duca, “vestiarius” (capo dell’amministrazione papale), magister militum, oltre a quella di consul et senator Romanorum. Nella lotta
el papato aveva appoggiato l’elezione del papa Sergio III, (v. sopra) amante della figlia
Marozia, che come abbiamo visto, aveva fatto chiudere in carcere e poi
strangolare il papa Cristoforo (903-904) il quale a sua volta aveva rovesciato e incarcerato il papa
Leone V (903).
Teodora bella e dissoluta (come lo era il
marito che nei rapporti carnali non faceva differenze di sesso), si era trovata
a vivere nel secolo a lei più confacente, delle lotte feroci tra i
partiti che si formavano per sostenere i papi, che avevano la massima
propensione a vizi e intrighi. Lo storico e vescovo Liurprando senza mezzi
termini la definisce “impudente e
puttana” che “teneva con energia virile (cosa che è
anche turpissima) la monarchia della città di Roma”. Le due
figlie, Marozia e Teodora (secondo Liutprando) erano: “non solo a lei pari ma anche più pronte all’esercizio di
Venere”.
Nella città Teodora disponeva delle
fortezze ricavate dagli archi trionfali e dai sepolcri degli antichi romani,
che faceva custodire dai suoi soldati, così come disponeva di molti
amanti tra gli esponenti della nobiltà e per questo la elezione di un papa
era nelle sue mani.
Poco prima della morte del papa Sergio III
(† 911), era giunto a Roma un prete di Ravenna di nome Giovanni, di bella
presenza fisica e ricco di ingegno, divenuto amante di Teodora che Liutprando
definisce: “meretrice svergognata,,
accesa dal calore di Venere” che “arse violentemente per la bellezza del suo aspetto, e non solo volle,
ma spinse costui a fornicare con lei”. Essendosi resa vacante la sede
di Bologna, Teodora gli fece ottenere quel vescovado, e successivamente gli
fece ottenere il più ricco arcivescovado di Ravenna.
Morto il papa Landone (913-914), Teodora
manovrando nobiltà e clero,
lo fece eleggere papa con il nome di Giovanni X (914-928).
Giovanni X pur essendo stato di costumi
licenziosi, era stato scritto “più
che non convenisse a un papa”, non si macchiò dei delitti di
assassinio, tradimento, veleni di cui si macchieranno molti papi; fu uomo
d’ingegno e amministrò gli affari della Chiesa con senso di
giustizia e seppe pacificare i principi italiani che si dividevano
l’Italia e gli stessi imperatori d’Oriente e d’Occidente.
Non solo, ma piuttosto che pastore di anime,
abituato all’uso delle armi, amava combattere e aveva voluto andare
personalmente con l’esercito (seguendo Teofilatto) contro i saraceni che
si erano accampati sul Garigliano, dove aveva acquistato fama di guerriero,
Non si conosce la data di morte di Teodora che si
può far coincidere con la presa di potere da parte della figlia Marozia
(925) altrettanto bella e ugualmente corrotta: “generò con
nefando adulterio col papa Sergio III, il papa Giovanni XI” (Liutprando),
versata negli intrighi come la madre che le aveva fatto sposare Alberico, duca
di Spoleto e Camerino, accrescendo così le sue già consistenti
ricchezze.
Marozia si era impadronita della Mole
Adriana (Castel sant’Angelo) il più saldo tra tutti i monumenti di
Roma, che già in precedenza era stata trasformata in fortezza e per la
sua eccellente posizione, all’estremità del ponte Elio, dominava
il passo tra il Vaticano e il Campo di Marte, il corso superiore del Tevere,
gli ingressi in città dalla parte della Toscana. Marozia l’aveva
occupata come propria dimora e con
il figlio Alberico (con lo stesso nome del padre ufficiale, ma pare che il vero
padre fosse Adalberto II di Toscana detto il Ricco), morto nel frattempo anche
Teofilatto, a dominare su Roma erano la madre e il figlio.
Marozia, rimasta vedova del marito (931),
aveva cercato un altro marito potente e lo aveva trovato in Guido (figlio di
Berta, v. sopra) marchese di
Toscana.
Il papa Giovanni X, nel tentativo di
liberarsi dai condizionamenti di Marozia, si era rivolto a Ugo di Provenza
(divenuto re d’Italia v. sopra) chiedendogli aiuto, ma Marozia lo aveva
prevenuto mandando i soldati del marito, che recatisi in Laterano, sotto gli occhi del papa, gli uccidono il
fratello Pietro, trascinando il papa in carcere, dove non molto tempo dopo
sarà soffocato con un cuscino. Lo storico dei papi commenta, che “aveva occupato il seggio per mezzo di una
impudica e ne fu sbalzato via da un’altra impudica”.
Dopo un breve pontificato di Leone VI
(† 928) e Stefano VIII (928-931), Marozia che aveva tanto potere da far
nominare un papa, fece eleggere il suo secondo figlio, Giovanni (nato intorno
al 906), di venticinque anni, come detto, avuto dal papa Sergio III, che prese
il nome di Giovanni XI, e resse il
papato per soli cinque anni (931-936): ma in questi cinque anni fu Marozia ad
esercitare il potere.
ALBERICO II
PRINCEPS ET SENATOR
ROMANORUM
E GLI ULTIMI PAPI DEL SECOLO
A |
lla morte di Guido (932), suo secondo
marito, Marozia offre la sua mano al fratellastro Ugo di Provenza (v. sopra),
il quale volendo consolidare il suo
regno, trovò utile sposarla, e Marozia divenne regina d’Italia. Ma
l’unione ebbe un risvolto diverso dalle reciproche aspettative, in
quanto, ambedue divorati dalla ambizione avevano carattere diverso e ognuno dei
due voleva comandare per proprio conto;
lui aspirava alla signoria di Roma mentre a lei interessava essere, ma
anche fare la regina d’Italia.
Ugo insediatosi in Castel Sant’Angelo
mostrava disprezzo per la nobiltà romana, e ciò dispiaceva a
Marozia e al figlio Alberico che a Roma si erano procurati grande
popolarità.
Ugo sospettava di Alberico e si era
ripromesso di farlo accecare, ma Alberico era ben guardingo e pieno di
risentimento nei confronti del patrigno. In occasione di un pranzo,
poiché faceva da paggio a Ugo, con la brocca gli aveva versato in
maniera sgarbata l’acqua sulle mani e per questo motivo Ugo gli diede uno
schiaffo.
Alberico furente uscì dal castello e
raccolta la nobiltà romana, racconta dell’oltraggio e chiede di
scacciare il barbaro. Essendo state
chiuse le porte della città per non fare entrare l’esercito di Ugo
accampato fuori le mura, sebbene Castel s. Angelo fosse imprendibile, Ugo per
viltà si diede alla fuga, calandosi con una corda e raggiunto il suo
esercito si allontanò da Roma.
Con questa rivolta i romani, si
riappropriarono del governo della città istituendo la repubblica, e
mentre Marozia finiva i suoi giorni in un monastero, il comando fu affidato ad
Alberico, che prese il titolo di “humilis
princeps et omnium romanorumn senator”, governandola per ventidue anni
(932-954).
Nel frattempo si succedevano i papi Leone
VII (928-931), Stefano VIII (939-942), Marino II (942-946) e Agapito II
(946-955) fatti nominare da Alberico, ma con questi papi non vi furono
interferenze in quanto essi si occuparono del solo potere spirituale, mentre
Alberico si occupava dal suo palazzo nella Via Lata, della amministrazione
della città, mentre l’amministrazione della giustizia veniva
tenuta in una sala del palazzo lateranense detta “ad lupam” in quanto vi era la statua in bronzo della lupa
(giunta ai nostri giorni: i due gemelli furono messi successivamente), che il
popolo chiamava “mater romanorum”
(in Articoli v. Il vino ecc.).
Alberico aveva avuto un figlio al quale
aveva dato il nome imperiale di Ottaviano e raccolti i romani in s. Pietro
(durante il papato di Agapito II), si fece promettere che alla morte del papa
avrebbero eletto il figlio Ottaviano.
I romani alla morte di Agapito (955)
mantennero la promessa ed elessero
Ottaviano pressocchè ventenne, il quale prese il nome di Giovanni XII
(955-964), in onore dello zio Giovanni XI (a Costantinopoli invece veniva
contemporaneamente eletto un patriarca ancora più giovane, Teofilatto,
di tredici anni, mentre in Francia veniva nominato vescovo a cinque anni (925),
un figlio del conte di Vermandois).
Un cronista aveva scritto di Ottaviano:
“aveva una faccia intelligente come
quella di suo padre ed era uomo di antico stampo. Era infatti oltremodo
terribile e il suo giogo fu pesante
per i romani e per la sede apostolica”.
Giovanni XII, contro le mire di Berengario
d’Ivrea, figlio di Berengario I (v. sopra), con gli altri principi
italiani, chiama in aiuto Ottone I, il quale dopo essere stato incoronato a
Milano è incoronato a Roma, con accanto la moglie Adelaide, (962), con
il diadema di Carlo Magno.
In questa occasione, Ottone, diffidente nei
confronti dei romani, aveva raccomandato a un suo fedele di tenere, al momento
dell’incoronazione, pronta la spada
e levata sulla sua testa, per ogni evenienza! Da questo momento l’impero romano
è unificato al regno germanico e diventa S.R.I.G. .
Giovanni XII giura a Ottone I che non
avrebbe più trattato con Berengario II o col figlio Adalberto e Ottone
conferma a sua volta il Privilegium
Ottonis (962) che confermava le donazioni carolinge,
e questo, si diceva, sarebbe stato scritto su pergamena a lettere d’oro.
Di questo documento però non esisteva
l’originale scritto con i caratteri d’oro, ma solo una copia, per
cui anche questo atto sarebbe stato un falso in quanto attribuiva al pontefice
territori troppo vasti (la Toscana, la Venezia, l’Istria, Gaeta e Napoli,
anche se alcuni di essi venivano riconosciuti sotto il diretto dominio papale,
per altri sarebbe stato riconosciuto il solo censo).
Questa conferma era comunque da considerare
solo teorica in quanto non era stata seguita dal materiale trasferimento dei
beni. E a Giovanni XII che li rivendicava, Ottone aveva risposto che li doveva
prima recuperare da Berengario.
Giovanni XII, conduceva una vita dissoluta e
immorale e si diceva che aveva ridotto il palazzo del Laterano in postribolo,
con uno stuolo di concubine tra le quali una Anna, la nipote Stefania, morta di
parto, Raineria alla quale aveva dato da governare la città. A tutte
Giovanni regalava croci d’oro, vasi preziosi e altre ricchezze della
Chiesa.
Quando Ottone era partito, gli si era
presentato Adalberto e Giovanni contrariamente al giuramento, lo aveva accolto ugualmente in Roma.
A Ottone tutte queste cose furono riferite e
l’imperatore gli scrisse una lettera, invitandolo a discolparsi dalle
accuse che gli si muovevano che “non
sarebbe bastato un giorno a riferirle”, delle quali le principali
erano “di essersi reso colpevole di
aver venduto sedi episcopali a fanciulli in età minore e nominato
vescovo di Todi un bambino di dieci anni, di omicidio, di spergiuro, di
sacrilegio, di mantenere una schiera di concubine e d’incesto (con due
prossime congiunte), di aver accecati, mutilati e uccisi parecchi vescovi e
cardinali, di aver bevuto a tavola brindando a Giove, Venere ed altri
diavoli”, e l’imperatore preannunciò un concilio.
Giovanni rispose che non avrebbe
riconosciuto l’autorità del concilio, che si riunì
ugualmente e i cardinali che lo avevano messo sotto accusa, giurarono con la
formula “se ciò che abbiamo
detto non corrisponde al vero, Pietro ci chiuda le porte del cielo”(!).
Il papa viene quindi invitato a presentarsi
all’assemblea, e non essendosi presentato, viene deposto e nominato il protoscrinario Leone VIII (963-965) che
era laico e ciò era contrario con le leggi della chiesa.
Giovanni fuggito da Roma, era andato a
vivere nei boschi circostanti vivendo come un selvaggio, e quando aveva saputo
che l’imperatore era ripartito, torna a Roma, scaccia Leone VII e raduna
un concilio (di sedici vescovi,
dodici cardinali e alcuni diaconi) e stabilisce che la precedente deposizione
del “piissimus atque sanctissimus
papa” era nulla in quanto Leone VIII oltretutto era un laico e la
tradizione esigeva che il pontefice fosse scelto tra i cardinali.
Riconfermato, Giovanni XII si sfrena nel
gusto della vendetta e fa tagliare
la mano destra al cardinale diacono Giovanni, mozzare due dita, la lingua e il
naso ad Azzone, primo archivista, trascinare nudo e frustare per le strade
Otgerio, vescovo di Spira, fa togliere dal sepolcro il corpo del prefetto
Roffredo e si vendica anche del nuovo prefetto Pietro che con la testa infilata
in un otre fu condotto su un asino
per la città e poi esposto appeso per i capelli alla statua equestre di
Marco Aurelio; inoltre, i due consoli imperiali sono mandati in Germania e i dodici tribuni del popolo sono
giustiziati sul palco.
Un incidente pose fine alle sue
scelleratezze...mentre ne stava compiendo un’altra.
Era stato sorpreso di notte da un marito,
mentre era a letto con la moglie; il marito geloso lo colpì
ripetutamente fino a farlo morire: finì così i suoi giorni
(964) “a diabulo percussus”- percosso dal diavolo, aveva scritto
pietosamente Liutprando, ma era stato detto che, diversamente dagli altri papi, era
morto nel letto!
I romani dimentichi dell’elezione di
Leone VIII e della promessa che non avrebbero eletto altro papa senza il
consenso dell’imperatore, eleggono come papa Benedetto V (964-965),
cardinale diacono, giurandogli che
non lo avrebbero abbandonato e lo avrebbero difeso contro Ottone e i tedeschi.
Quando gli giunse questa notizia, Ottone che stava combattendo nelle Marche
contro Adalberto, furente si dirige a Roma, cingendola d’assedio.
I due papi si contrastavano: Leone nel campo dei soldati tedeschi,
Benedetto dagli spalti che minacciava la scomunica. I tedeschi lanciavano verso
le mura pietre con mangani e altre macchine e la strinsero d’assedio
tanto che gli assediati, privi di viveri, si arresero.
Ottone entra trionfante in città
(964) e rimette sul trono LeoneVIII e convoca un concilio davanti al quale
Benedetto doveva presentarsi per rispondere del giuramento infranto. Benedetto
si presenta in Laterano con i paramenti sacri davanti all’antipapa Leone
e ai vescovi riuniti, confessando di aver usurpato la cattedra di s. Pietro e
spogliatosi del manto consegna il pastorale a Leone che glielo spezza.
Benedetto V viene quindi mandato prigioniero in Germania, affidato alla
custodia del vescovo di Amburgo dove muore.
Morto anche Leone VIII (965),
l’imperatore propone Giovanni XIII
(965-972) figlio della
seconda Teodora e vescovo di Narni, avversario dei romani che
incominciò a perseguitare. Ma il prefetto di Roma, Pietro lo arresta
(966) e imprigiona prima in Castel s. Angelo e poi lo manda in esilio in un
castello della Campania.
Ma ciò irrito l’imperatore che
si trovava in Germania il quale decise di ritornare in Italia per punire i romani
ma anche per soffocare i moti che sorgevano in Lombardia per riporre sul trono
Adalberto il quale dopo la resa di s. Leo si era rifugiato in Corsica, ma ora
era tornato e sobillava il popolo alla rivolta.
Prima di scendere in Italia, Ottone
mandò Burcardo duca di Alemagna che assalì Adalberto lungo il Po
e Adalberto, dopo aver perduto molti uomini andò a nascondersi sulle
montagne; ma anche Burcardo
perdette molti tedeschi e se ne tornò in Germania.
Ottone I decise quindi di venire in Italia e
per la terza volta attraversò le Alpi (966) con una lista di
proscrizione in cui erano indicati i nemici dei tedeschi: primo fra tutti il
vescovo di Piacenza Sigolfo che Ottone mandò prigioniero in Germania con altri conti che si erano
presentati ad ossequiarlo.
I romani, spaventati si affrettarono a
richiamare Giovanni XIII e quando giunse l’imperatore si presentarono ad
accoglierlo con ramoscelli di olivo. Ma l’imperatore prese tredici dei
primati romani e una parte li fece impiccare e un’altra fu bandita dall’Italia.
Anche il nuovo prefetto di Roma, che
sostituiva Pietro che aveva arrestato il papa, ed era poi fuggito, fu messo
nudo su un asino e con in testa un otre come cappello fu portato in giro per la
città.
Giovanni XIII potette regnare per qualche anno
tranquillo ed ebbe il tempo di incoronare Ottone II (967) figlio tredicenne di
Ottone I e impartire la benedizione alla principessa bizantina Teofano,
che diventerà moglie di
quest’ultimo e riuscirà a chiudere gli occhi (972) senza ulteriori
scosse.
Morto Giovanni XIII fu eletto papa Benedetto
VI (973-974) contro il quale i romani (morto Ottone I), capeggiati da un
fratello di Giovanni XIII, di nome Crescenzio e da Bonifacio Francone (della
famiglia dei conti di Tuscolo, che sarà eletto papa) lo rinchiudono in
Castel s. Angelo dove fu strozzato o secondo alcuni fu fatto morir di fame o
secondo altri ancora mandato in esilio e rinchiuso in un castello della
Campania.
Fu eletto papa Francone col nome di
Bonifacio VII (974), dai romani chiamato “Malifacio” in quanto
in quaranta giorni spogliò tutte le basiliche e le chiese dai
loro tesori, e giunto a Roma il messo imperiale, si diede alla fuga recandosi a
Costantinopoli, ma ritornerà dopo dieci anni per rioccupare il seggio
pontificio (984-985).
Rimasta vacante la sede papale con la
fuga di Bonifacio VII, alla presenza del messo imperiale, viene eletto
Benedetto VII (974-983) il quale ricevette a Roma (980) il nuovo imperatore
Ottone II che scese nel meridione per combattere greci e musulmani, essendo nel
frattempo morto (982) il principe di Benevento, Pandolfo Testa di Ferro che
aveva unificato quasi tutto il meridione.
Ottone però ebbe una sonora sconfitta
a Stilo in Calabria e riuscì a stento a sfuggire alla morte, ma moriva a
Roma poco dopo (all’età di ventotto anni, si diceva per una
ferita, ma probabilmente di malaria (v. sotto), assistito dal nuovo papa Giovanni XIV
(983-984) che viene chiuso in Castel s. Angelo da Bonifacio VII tornato da
Costantinopoli, e muore dopo quattro mesi di maltrattamenti e di fame.
Dopo circa undici mesi, Bonifacio VII muore
di morte improvvisa (985) e la sua salma viene trascinata dai romani per la
città e appesa anch’essa al cavallo di Costantino (statua equestre
di Marco Aurelio).
Seguì la nomina di Giovanni XV
(985-996) figlio di un prete di nome Leone, cupido e venale, che il console
Giovanni Crescenzio figlio di Crescenzio, che aveva un forte ascendente sui
romani per la sua prestanza fisica e la parola suadente, mandò il papa
in esiliò ma poi lo fece rientrare, ma il papa invitò
l’imperatore Ottone III, divenuto nel frattempo maggiorenne (a sedici
anni), a venire in Italia.
Quando l’imperatore figlio di Teofano
che lo aveva ben educato alla maniera bizantina, giunse a Ravenna, venne a
sapere della morte del papa e per la nuova elezione inviò il cugino, il
sassone Brunone dei duchi di Carinzia, di ventitre anni e suo cappellano, che i
romani abituati a eleggere un romano, elessero malvolentieri, col nome di
Gregorio V (996-999), il quale
incoronò il giovane imperatore.
Fu il primo papa tedesco del medioevo, non
solo a cambiare deliberatamente il proprio nome di battesimo, ma con lui
terminò la scelta dei papi solo tra i romani e per tutto il medioevo si
alternarono papi di diversa nazionalità allargando così gli orizzonti
della Chiesa, ma poi questo principio fu abbandonato e riprese
l’abitudine di eleggere solo italiani e gli orizzonti si restrinsero
nuovamente.
Appena partito l’imperatore,
Crescenzio che dal tribunale tenuto dall’imperatore era stato condannato per essere stato ritenuto reo
di molti delitti e non era stato
mandato in esilio grazie all’intercessione di Gregorio V, solleva
Roma e costringe il papa alla fuga, ponendo sul seggio papale Filagato, greco
di Calabria, vescovo di Piacenza e padrino di Ottone III e di Gregorio V, col
nome di Giovanni XVI (997-998).
Ai primi dell’anno successivo (998) però,
Ottone III torna a Roma portando con se il vero papa Gregorio V.
Giovanni XVI si dà alla fuga ma è preso
dagli uomini dell’imperatore che lo mutilano (alla maniera bizantina)
tagliandogli le orecchie, il naso, strappandogli gli occhi e probabilmente
anche la lingua, quindi messo su un asino
rivoltato all’indietro, con le mani che tenevano la coda, viene
portato per le vie della città.
Il monaco s. Nilo, abate di un monastero nei pressi di
Gaeta, invano chiese all’imperatore di concedergli di portarlo con
sé in un monastero, ma gli fu negato e imprigionato (forse a Fulda)
riuscì a sopravvivere ancora per molti anni († 1013).
Anche Giovanni Crescenzio che si era
rinchiuso nella imprendibile fortezza di Castel s. Angelo, fu preso con
l’inganno in quanto l’imperatore finse di voler condurre delle
trattative ma quando Crescenzio si presentò, fu preso e gli fu tagliata
la testa e la salma appesa alla forca, con i corpi di dodici suoi seguaci.
La moglie di Crescenzio, Stefania
pensò di vendicarsi per l’uccisione del marito e, fidando nella
sua bellezza fece invaghire l’imperatore. Ottone era tornato indisposto
(colpito da febbre) da un pellegrinaggio a Monte s. Angelo nel Gargano, e
Stefania gli fece sapere di essere esperta in medicina. Entrata nelle grazie
dell’imperatore, per guarirlo dalla febbre lo fece avviluppare in una
pelle avvelenata, come narrano i cronisti dell’epoca, e il giovane imperatore
morì. Anche il papa Gregorio V morì poco dopo (999),
probabilmente avvelenato.
Gli succede Gerberto di Aurillac, col nome
di Silvestro II (999-1003) che si
può dire che chiuda la serie dei papi del secolo X, che non avevano dato
esempi eclatanti di moralità e devozione alla religione, della quale si
erano serviti per proprio esclusivo tornaconto.
Silvestro II muore dopo tre anni (1003),
rivalutando la figura dei tanti papi corrotti che lo avevano preceduto. Era
infatti uomo di grande cultura, era stato allievo di Adalberone di Reims, abate
di Bobbio (983), arcivescovo di Reims (991), arcivescovo di Ravenna (983) e
precettore dell’imperatore Ottone III che gli era premorto (1002)
all’età di ventidue anni.
I sintomi da cui era stato colpito il
giovane monarca erano quelli classici della malaria, vale a dire continue febbri intermittenti, si può
ritenere, causate, più che dal veleno di cui parlano i cronisti, dalla
micidiale e sconosciuta malaria che
infestava Roma (dalla quale chi viveva a Roma era naturalmente vaccinato) e
aveva falcidiato, e avrebbe continuato ancora a falcidiare, sovrani (anche
Ottone II probabilmente morto di malaria e l’imperatrice Teofano che
morì in Germania di ritorno da Roma) e molti dei soldati dei vari
eserciti che provenivano dal nord.
Roma all’epoca non era la città
che diventerà nel Rinascimento, ma una città squallida formata da
quattro o cinque borgate con casupole per la gran parte in legno, con chiese in
rovina, una popolazione dai dieci ai quindicimila abitanti, circondata da paludi
e con un clima pestifero.
In tutto questo squallore meglio risaltavano
le rovine degli antichi monumenti, e le mura a ferro di cavallo costruite dal
papa Leone IV che saranno inglobate in quelle costruite da Pio IV (1559-1565) e
suoi successori.
FINE