Kair ad Din-Ariadeno Barbarossa – Louvre
“Il bene della religione”
KHAIR AD-DIN
DETTO BARBAROSSA
DA PIRATA AD
AMMIRAGLIO
SOMMARIO: LE INCERTE ORIGINI DI BARBAROSSA; GLI INIZI DELLA PIRATERIA. HORUC DIVENTA RE DI ALGERI SUA FINE; ARIADENO SOSTITUISCE HORUC NEL REGNO DI ALGERI; SOLIMANO II NOMINA BARBAROSSA GENERALE DELLE ARMATE NAVALI TURCHE; BARBAROSSA SI DIRIGE VERSO LE COSTE ITALIANE - L’EPISODIO DI GIULIA COLONNA; BARBAROSSA SI IMPADRONISCE DI TUNISI POI CONQUISTATA DA CARLO V; DISASTRO DELLA SPEDIZIONE DI CARLO V PER LA CONQUISTA DI ALGERI; PIRATERIA DI BARBAROSSA NELL’ARCIPELAGO E BATTAGLIA NAVALE CON DORIA; LA PRESA DI CASTEL-NUOVO DA PARTE DEI CRISTIANI; BARBAROSSA RICEVE L’ORDINE DEL SULTANO DI SACCHEGGIARE LE COSTE ITALIANE SUO MATRIMONIO CON UNA REGGINA; NIZZA ASSEDIATA DALLA FLOTTA FRANCO-TURCA; I SACCHEGGI PROSEGUONO SULLE COSTE TOSCANE; L’IDEA DI BARBAROSSA DELLA CONQUISTA D’ITALIA; VERSO COSTANTINOPOLI IL SUO PASSAGGIO DALLE COSTE DI NAPOLI; CONCLUSIONI.
LE
INCERTE ORIGINI
DI
BARBAROSSA
H |
enri de Grammont, nel suo commento all’opera
“R’Azaouat” (il titolo della cronaca del XVI sec. era “Gazawat Arudj wa Khair ed-din”) aveva
scritto un libretto (R’Azaouat - Est-il l’oeuvre de Kheir-ed-Din
(Barberousse)?,1872); questo “R’Azaouat”, contiene la biografia di
Kheir-Ed-Din (detto Barbarossa), che si riteneva fosse stata dettata da lui
stesso.
Oltre a contestare la paternità della biografia, dimostrando come
quest’opera non potesse essere stata dettata da lui, de Grammont fa riferimento
ai natali di Barbarossa, che risultano assolutamete diversi da quelli riportati
da quasi tutti gli storici (sebbene con diverse varianti), che in ogni caso troviamo
contestati dal Brantome, al quale egli ricorre (unitamente a Paolo Giovio), come
fonte delle sue ricerche, ritenendoli quasi contemporanei del Barbarossa.
Questo testo, tradotto in francese, era stato pubblicato in due
volumi, a cura di Sander Rang e Ferdinand Denis col titolo “Fondation de la Regence d’Alger, Histoire de
Barberousse”- Edition Bouslama, Tunis - poi ristampata a Parigi, 1837, in
nuova veste, arricchita da nuovi particolari e rivelazioni di altri storici).
De Grammont in pratica sosteneva le origini francesi di Ariadeno
Barbarossa, e lo storico Adrìen Richer, che aveva scritto una collana sui più
celebri marinai francesi (Des plus
célebres marins, Paris, 1781) in cui aveva inserito anche Ariadeno
Barbarossa, dal quale traduciamo alcune parti del presente articolo (integrato
dalla cronaca di Sander Rang e Fernand Denis), considerando Barbarossa
francese, secondo la tesi di de Grammont, ritenendolo appartenente alla casa
d’Authon, stabilita da tempo immemorabile nel Sentonge e ritenuta illustre.
Suo padre, egli scrive, aveva sposato Marguerite de Marcueil che
a sua volta discendeva da una più antica famigia del Perigord e aveva portato
in dote delle terre e signorie di Bernardieres e Combes. Essi avevano avuto due figli maschi; il primogenito aveva
ricevuto i beni paterni, il secondogenito le terre dei Bernadieres e Combes. E’
di quest’ultimo, scrive de Grammont, che parleremo, e prosegue.
Verso l’anno 1501 Luigi XII aveva
inviato una flotta di sessanta vascelli in soccorso dei veneziani che erano in
guerra con i turchi. I giovani nobili del reame corsero a imbarcarsi sotto il
comando di Philippe de Ravenstein. Il giovane d’Authon credette che sarebbe
stato vergognoso per lui rimanersene inattivo, mentre i suoi coetanei erano
corsi ad affrontare la sorte. Cedette quindi le terre dei Bernadieres e Combes,
si fece dare una provvista considerevole di botti di vino e una annata di
rendita e si associò a un giovane più o meno della sua stessa età di nome
Montforeau, cadetto della casa di Berneuil nell’Angiò.
Ambedue si giurarono
eterna e fraterna amicizia, promettendosi di vivere e morire insieme e andarono
ad arruolarsi nell’armata di Ravenstein con la quale si imbarcarono.
Quando
francesi e veneziani si unirono, Girolamo Pesaro (†
547) che comandava questi
ultimi, propose a Ravenstein di assediare Mitilene, l’antica Lesbo; essi
stavano per conquistare Mitilene, ma Pesaro voleva comandare da solo e non
aveva mandato alcun avviso a Ravenstein; costui, indispettito, raccolse i
francesi ai quali fece conoscere il motivo del suo risentimento e li fece imbarcare,
tornandosene in Francia.
La vita che conducevano nei campi i cavalieri d’Authon e
Montforeau li disgustava e si rivolsero agli ufficiali di Mitilene; presero un
piccolo vascello, assunsero dei soldati che avevano abbandonato l’armata
francese e si diedero alla vita corsara che gli procurò guadagni considerevoli:
e sognavano di tornare in patria per sfoggiare le loro ricchezze.
Essi però non tardarono ad annoiarsi e decisero di tornare a Mitilene,
dove acquistarono un vascello più robusto del precedente, facendo del bottino
considerevole; ma tornarono ancora nella loro patria.
Il cavaliere d’Authon si fece costruire una bella casa e acqistò
delle proprietà. Ma presto si annoiò e i due compagni tornarono a Mitilene dove
abbracciarono la religione maomettana e si dissero fratelli, figli di un
rinnegato giudeo di Mitilene e per far perdere le tracce della loro nascita,
cambiarono i loro nomi: d’Authon prese il nome di Hariadeno e come soprannome
Barbarossa e Montforeau quello di Horuc-Oruccio (nomi variamente alterati come
quelli di tutti i corsari dell’epoca). Da questo momento nessuno sentì più
parlare di loro nel loro paese e furono considerati morti.
Quando i due nuovi fratelli fecero parlare di sé, gli storici,
ignorando ler loro originì, li considerarono nativi di Mitilene.
Infatti la versione (una delle tante che consideravano il padre
di Barbarossa chi un vasaio, chi un corsaro), di S. e D. riteneva Jacoub Rais,
onesto musulmano che esercitava, con un vascello che comandava, il piccolo
commercio nell’Arcipelago e successivamente i due fratelli continuarono
nell’attività paterna.
Nella “Cronaca”
(riportata ne “La Vita e la storia di
Ariadeno Barbarossa” (Sellerio, 1993) troviamo che i due fratelli fossero
figli di un soldato, facente parte di un gruppo di soldati messi dal sultano
Mehemet di Granata, a guardia di cristiani fatti prigionieri; i soldati avevano
chiesto al sultano il permesso di poter sposare le figlie dei cristiani ai
quali facevano la guardia e avuto il consenso, uno di costoro di nome Giacobbe,
della provincia di Salonicco sposò una cristiana di cui si era invaghito (di
norma i turchi si invaghivano delle donne cristiane ndr.!), la sposò ed ebbero quattro figli: il primogenito era Isaac,
il secondo Horuc (era lui che inizialmente aveva il sopranome di Barbarossa che
prese Ariadeno dopo la sua morte quando, come vedremo assunse il regno di
Algeri), il terzo Hariadeno, il quarto Ilias.
GLI INIZI
DELLA PIRATERIA
HORUC
DIVENTA
RE DI
ALGERI
SUA FINE
I |
due ultimi fratelli si
associarono a Camal (Chamal Aichio) il più famoso pirata dei suoi tempi e con
lui si perfezionarono nell’arte della navigazione; Horuc essendo fratello maggiore, divenne
luogotenente di Camal, ma i due fratelli agivano sempre di concerto; tra di
loro non vi era alcuna distinzione all’infuori del titolo. Fecero considerevole
bottino e avevano ingrandito il numero di vascelli, di schiavi e una gran
quantità di piccoli corsari che si erano messi al loro servizio, per cui decisero di passare alle coste del
Mediterraneo.
Era l’anno 1517; trovarono il regno di Algeri agitato da guerre
civili; due fratelli si disputavano la corona di questo regno. Uno aveva
assunto un gran numero di cavalieri arabi; l’altro, che già si riteneva
perduto, vide arrivare questi stranieri, forniti di truppe e ad essi offrì una
somma considerevole se lo avessero sostenuto. Horuc fece scendere le sue truppe
alle quali diede l’ordine di andare, sciabola alla mano, contro gli arabi;
costoro furono vinti e il nome dei turchi divenne spaventoso per arabi e mori.
Ma si svegliò anche l’ambizione di Horuc, il quale decise di
approfittare della vittoria per impadronirsi della corona di Algeri; il suo
progetto apparve tanto più facile da eseguirsi in quanto era convinto che i
mori fossero apatici e ignoravano totalmente l’arte militare e regnavano con
una divisione che poteva essere facilmente vinta e sottomesa: insomma gli arabi
eran apparsi di poca forza e incostanti.
I turchi intimidirono gli uni con le più terribili minacce e
conquistarono gli altri con le più grandi promesse e Horuc si fece proclamare
re di Algeri e fece strangolare nel bagno Selim Eutemi, colui che lo aveva
chiamato in suo soccorso.
Horuc voleva sposare la vedova dello sfortunato Selim, Safira ma
costei che era una principessa virtuosa ebbe orrore di sposare l’assassino del
marito e si diede la morte.
Horuc sentendosi ristretto nel piccolo regno, passò a conquistare
il regno confinante detto Cherchelle.
Dopo questi rapidi successi i due fratelli si separarono: Ariadeno
riprese a percorrere il mare, saccheggiando le coste dell’Italia e della
Spagna; Horuc continuava a saccheggiare le terre vicine al suo regno, mettendo
sotto formidabile assedio la città di
Bugia dove si trovava una guarnigione spagnola e dove ebbe un braccio asportato
da un colpo di cannone. Ma questo incidente non gli fece perdere la presa; si
fece attaccare una mano di ferro e continuò l’assedio, costringendo infine gli
spagnoli a liberare la città.
Carlo V, vedendo che questi successi eccitavano l’arditezza di
questo usurpartore e che la sua potenza aumentava di giorno in giorno, decise
di fermare la sua corsa e gli mandò contro una formidabile armata, comandata da
Didac-Vera; ma Horuc era stato informato dell’armamento dal quale sarebbe stato
attaccato e attaccò gli spagnoli appena furono sbarcati, facendoli a pezzi.
Poco tempo dopo, Ugo de Moncada apparve sulle coste d’Africa con
un corpo composto di vecchie truppe
spagnole, che avevano fatto la guerra in Italia; ma Horuc li attaccò ancora in
un luogo disagiato costringendoli a rientrare nei loro vascelli. Una terribile
tempesta respinse i vascelli sulla costa dove questi finivano per schiantarsi+;
gli spagnoli, per evitare di perire tra i flutti si buttavano sulla riva, ma
Horuc li fece passare tutti a fil di spada e quelli che scamparono al ferro dei
soldati furono presi sulle navi per servire da rematori.
Perssuaso che la fortuna avrebbe assecondato le sue imprese,
Horuc si decise a conquistare tutta l’Africa e attaccò Tremesen, i cui
abitanti, affranti, gli mandarono la testa del loro re e si sottomisero.
Il marchese di Gomarez, governatore della città e del porto di
Orano, situato presso Tremesseno, si recò a Madrid dove rappresentò ai ministri
la necessità di inviare delle truppe in Africa, se volevano conservare i
territori che pssedevano. Gli furono dati diecimila uomini con i quali egli
tornò a Orano.
Molti principi mori, tra i quali vi era il figlio del re di Tremesen,
formarono una armata di quindicimila uomini che marciarono contro; questo, uscito
da Tremesen si diresse contro Gomarez. I soldati combatterono con valore
eccitati dai loro capi, ma Horuc alla fine fu sconfitto e dovette darsi alla
fuga. Per arrestare quelli che lo inseguivano egli spandeva sulla strada monete
d’argento, ma gli spagnoli, alle rcichezze, preferirono inseguire il loro
irriducibile nemico; lo raggiunsero e gli tagliarono la testa (1518, aveva
quarantacinque anni) che portarono a Gomarez il quale la fece mettere sulla
punta di una lancia, inviandola a tutti i porti d’Africa e di Spagna perché
fossero tutti certi della sua fine.
ARIADENO SOSTITUISCE
HORUC
NEL REGNO
DI ALGERI
L |
a morte di Horuc, aveva suscitato la gioia generale della cristianità,
ma essa non durò a lungo; non appena Ariadeno ne fu infornato, egli si recò ad
Algeri e si fece proclamare re, prendendo da questo momento il nome di Barbarossa.
Poiché il regno di Algeri gli sembrava piccolo, decise di
sottomettere tutti i regni che lo circondavano, impiegando la forza contro gli
uni e l’astuzia con gli altri e vi riuscì. Prese al suo soldo una quantità
prodigiosa di pirati saccheggiando le coste della Spagna, della Saregna, delle
isole Baleari.
Carlo V fece preparare una flotta formidabile e la mandò contro
di lui, ma egli la batté ripetutamente e la distrusse interamente. I siciliani,
napoletani e veneziani si riunirono e misero insieme forze considerevoli per
abbattere la potenza di Barbarossa, ma i loro sforzi non servirono che ad
aumetare i trionfi; egli prese molti dei
loro vascelli e molti li mandò a picco. Sconfisse nei pressi di Capo Cherchelle
il famoso Andrea Doria al quale prese molti vascelli, due dei quali erano pieni
di armi, viveri e una quantita considerevole di soldati. Qui Brbarossa aveva
costruito un castello e lo aveva popolato di mori andalusi.
Barbarossa ritornò ad Algeri ricoperto di gloria: egli ritenne
opportuno far sussistere una cittadella che il re Ferinando di Spagna aveva
fatto costruire su una rocca davanti ad Algeri per la difesa del porto e della
città, dove il re di Spagna manteneva una guarnigione e i re di Algeri
l’avevano attaccata varie volte senza riuscire a impadronirsene.
Barbarossa la investì con le sue galere, chiedendo a Marin Vergas
che era il governatore, di arrendersi; ma questo rispose che non avrebbe mai
consegnato a un pirata una piazza che gli era stata affidata dal re di Spagna, Barbarossa,
contrariato, raddoppiò inutilmente i suoi sforzi senza ottenere alcun consenso
di Vargas; ma, in aiuto di Barbarossa si presentò un traditore che gli disse
che la piazza mancava di viveri e munizioni e se avesse approfittato di questa
circostanza Vargas sarebbe stato obbligato ad arrendersi. Barbarossa riprese
coraggio, investì la piazza con maggior precauzione, raddoppiando gli sforzi e,
sebbene avesse perso un gran numero di soldati, riusciva a impadronirsi della
piazza. Il governatore riuscì a mantenere una postazione, della quale i turchi
si resero padroni, dopo che Vargas aveva perso un braccio; quattro turchi si
lanciarono su di lui e lo portarono da Barbarossa che aveva ordinato di
prederlo vivo.
Vargas
meno sensibile al dolore che gli dava la ferita del braccio, che quello di
vedere la fortezza nel potere dei turchi, disse a Barbarossa: “E’ al tradimento di uno scellerato che tu
devi il tuo trionfo, non al tuo valore; se fossi stato soccorso, tutti i tuoi
sforzi sarebbero stati inutili [ ...
]. Come dono della tua fede ti chiedo la
punizione del traditore”.
Barbarossa
fece venire il soldato e ordinò che gli fosse tagliata la testa che presentò a
Vargas, dicendogli: “Tu vedi la mia
compiacenza, ti vhiedo di abbracciare la religione maomettana e ti compenserei
con beni e onori; ti farei capitano generale delle mie guardie”. Vargas lo
guardò con indignazione e rispose: “Credi
tu che dopo aver chiesto la punizione di un uomo che è venuto meno alla sua
fede, io sia disposto a mancare alla mia? Guarda le tue rcchezze, conferisci ad
altri le tue dignità, rifiuta il prezzo
con cui stai tentando al mio onore”. Barbarossa preso da furore gli troncò
la testa, poi fece distruggere la fortezza e con quel materiale rese libero il porto
di Algeri.
SOLIMANO
II NOMINA
BARBAROSSA
GENERALE
DELLE ARMATE
NAVALI
TURCHE
L |
e imprese di Barbarossa erano state riferite all’imperaore dei
turchi, Solinano II, (il Magnifico, v. in Specchio drll’Epoca
“Rosselana da schiava a moglie” ecc.), che riteneva che egli fosse il solo uomo
capace di rilevare la gloria degli ottomani, abbattuta a causa della
rilassatezza di Himeral, generale delle sue galere, che per una vergognosa fuga
aveva lasciato che Andrea Doria si impadronisse di Corona, Patrasso e molte
altre piazze del Peloponneso.
Egli fece riunire il “divano”
e disse a coloro che lo componevano di aver concepito il progetto di prendere
al suo srvizio Barbarossa, di cui ammirava il coraggio e le conoscenze
dell’arte della navigazione; tutti convennero che fosse l’unico maomettano che
si potesse opporre al Doria.
Presa la decisione, fu inviato Safon, ufficiale di marca del corpo dei giannizzeri e incaricato Mangal,
celebre pirata, di condurlo ad Algeri al più presto possibile. Safon, appena
arrivato, andò a trovare Barbarossa, dicendogli di venire da parte del sultano
che gli offriva la dignità di pascià e di generale delle armi navali,
invitandolo a recarsi a Costantinopoli:- E’ indicibile esprimere la gioia che
la proposta aveva suscitato in Barbarossa; egli sentiva che la dignità di
generale delle armate navali dell’imperatore turco non lo avrebbero fatto più
considerare come un avventuriero.
Egli rispose che avrebbe fatto conoscere al sovrano le forze dei
principi cristiani e gli avrebbe presentato una tavola delle loro beghe in modo
che il monarca avrebbe potuto decidere come intervenire e come riuscire.
Egli si preparò per la partenza e nominò, durante la sua assenza,
suo figlio Hassam, reggente di Algeri; e
poiché egli aveva ventidue anni, aveva nominato governatore Agis e Ramadam
Celebs di cuio conoscevva il valore e la prudenza.
Egli partì con una flotta di quaranta galere di cui una parte era
di tre ordini di remi, l’altra di due. Sulla sua strada incontrò una flotta di
vascelli veneziani che andavano a prendere il grano in Sicilia; le attaccò e le
bruciò. Prima di combattere egli si era associato a un pirata di nome Deliffus,
ma lo uccise durante il fuoco dell’azione in quanto sapeva che questo pirata
aveva delle ricchezze immense di cui voleva impadronirsi: Barbarossa prova che
i primi passi verso il crimine, alla fine conducono all’eccesso dell’orrore
(cit. Adrien Richer).
Egli durante la notte, entrò nell’isola d’Elve e presa la città di Rhio, catturò tutti gli
abitanti come schiavi.
Si diresse quindi a Costantinopoli dove giunse con un corteo
magnifico che il sultano non aveva mai visto durante i suoi anni di regno e
dissse ai suoi cortigiani: Ecco la ricompensa della bravura (cit. S. e D.): gli
schiavi cristiani erano i primi in fila di due a due; seguivano i musulmani con
i loro stendardi spiegati accompagnati dalle loro musiche guerriere. Il sultano
di Tunisi quando aveva saputo che Khair era in marcia per recarsi dal sultano,
gli aveva mandato tutti i grandi della sua corte per aumentare lo sfarzo della
cerimonia.
Ariadeno giunse alla presenza del sultano, accompagnato da
giovani ragazzi dei due sessi della più grande bellezza, riccamente abbigliati
e un numero considerevole di eunuchi e gli presentò dei leoni e dei leopardi,
provenienti dall’Africa. Gli espose poi le sue ultime avventure; il sultano lo
ascoltò con ammirazione e ringraziò l’Onnipotente dei beni che gli aveva
accordato e dello zelo che lo animava per la gloria della religione e fece
distribuire dei mantelli di drappo per tutti i soldati che avevano portato dei
presenti e diede loro duemila ducati da distribuirsi tra loro.
Fece inoltre rivestire l’ufficiale che li comandava, di un ricco
caftano e gli consegnò per Ariadeno una superba veste d’onore con un pennacchio
di diamanti come quello che portavano i sultani, invitando Khair a scegliere
tra i vascelli dell’arsenale quello che gli sembrava il più appropriato per la
sua corsa.
I bascià avevano ascoltato Ariadeno senza inquietudine e
tranquillamente, ma la loro gelosia espolse quando sentirono il sultano che
erano sottomessi alla sua obbedienza e riferirono al sultano che sarebbe stato
vergognoso per il regno affidare le sue forze a un pirata, a un uomo che si era
reso infame per i suoi furti e il brigantaggio; aggiunsero che facilmente
avrebbe trovato nella Corte qualcuno che per il suo coraggio e per la scienza
dell’arte militare avrebbe potuto sostenere per terra e per mare la gloria
degli ottomani e che Barbarossa aveva
fatto ricorso al delitto per impadronirsi delle corone in Africa e che
attaccava senza distinzione i principi maomettani e cristiani e che costituiva
il pericolo del genere umano; un uomo che esercitava il mestiere di brigante
dalla sua più tenera giovinezza, uno scellerato senza fede nè legge che aveva
abbandonato la religione senza alcun motivo plausibile.
BARBAROSSA
SI DIRIGE
VERSO
LE COSTE
ITALIANE
L’EPISODIO
DI GIULIA COLONNA
B |
arbarossa fu informato di ciò che i bascià avevano detto al
sultano e si rese conto che la sua posizione era critica e aveva bisogno di
tutto il credito del Gran Visir Ibrahim, del quale aveva conquistato l’amicizia
con presenti considerevoli; ma questo
ministro era partito alla testa di una armata per la guerra contro i persiani e
si trovava ad Aleppo in attesa del giungere della primavera, in attesa della
primavera per passare l’Eufrate.
Barbarossa dopo molti ripensamenti, decise di recarsi da Ibrahim
e giunse ad Aleppo: Ibrahim gli fece un’ottima accoglienza e approvò i progetti
che Barbarossa gli aveva manifestato e scrisse a Solimano che non poteva fare a
meno di affidare le forze di mare a un uomo che non fosse capace come
Barbarossa.
Ibrahim diceva al sultano che “senza bisogno di far ricorso alla
vanità, egli (Barbarossa) poteva essere utile a Sua Altezza, se la fortuna lo
avesse ancora assistito e le forze lo avessero ancora accompagnato, di poterlo
servire per mare e per terra e che il desiderio di perseguire i cristiani gli
permettevano di servirlo nelle armate di mare. E che se il Cielo esaudisce i
suoi voti, gli spagnoli sarebbero stati scacciati dall’Africa e i cartaginesi e
i mori sarebbero stati presto sottomessi: la Sardegna, la Corsica e la Sicilia
sarebbero state messe sotto la sua obbedienza; la fame non avrebbe tardato a
desolare l’Italia e lui l’avrebbe attaccata con forze formidabili senza credere
che i principi cristiani sarebbero accorsi in suo soccorso; le loro discordie
li armavano gli uni contro gli altri; il vostro illustre avo Maometto II aveva
in animo di riunire l’impero d’Oriente con quelo d’Occidente, egli sarebbe
riuscito se non fosse stato colto dalla morte. Se consiglio a Vostra Altezza di
portare la guerra in Europa e in Africa non è per far cessasre la guerra in
Asia e in Persia, antichi nemici degli ottomani. Io non ho bisogno delle vostre
truppe di mare che sono inutili contro i persiani; mentre voi conquistate
l’Asia io posso sottomettere l’Africa”.
La
mia prima impresa sarebbe contro Muleasses, re di Tunisi: egli ha tutti i vizi
e nessuna virtù egli è di una sordida avarizia, e si è reso odioso a tutto il
genere umano; aveva quarantacinque fratelli (come affermano Hammer e Robertson
e non venti o trenta come affermano
altri!) che ha fatto tutti perire e i mori sono sempre in rivolta per
vendicarsi, ed ha la bassezza di allearsi con gli spagnoli favorendoli per le
loro conquiste in Africa. [...] Potrò fare tutto il male possibile ai cristiani e raggiungere
Andrea Doria che è mio personale nemico e mio rivale nella gloria; se riuscissi
a batterlo Vostra Altezza avrebbe l’impero del mare; e sappiate grande principe
che chi è padrone del mare è anche padrone di tutta la terra”.
Solimano II che era un monarca prudente e accorto (*), riunì il divano e
comunicò al sotto visir il pensiero di Ibrahim su Barbarossa; tutti i membri
del consiglio conoscevano i rapporti che intercorrevano tra il sovrano e il
ministro e la loro decisione fu conforme. Solimano mandò quindi a cercare
Barbarossa e lo nominò bascià a tre code (grado
più alto dei bascià, ndr.) e luogotenente generale della marina,
autorizzandolo a fornirsi in tutti i porti e le isole dell’impero di rematori e
soldati di cui avesse avuto bisogno. Poi gli donò uno stendardo e una spada
ricordandogli di mantenere la parola data; ordinò poi al tesoriere di
comsegnargli ottocentomila ducati per le spese di guerra e gli accordò una
pensione di ottocento ducati annui di
pensione, corrispondente a quella di cui godevano i capitani dei
giannizzeri.
Fatti tutti i preparativi, Barbarossa partì dall’Ellesponto con
ottanta galere a tre ordini di remi, dirigendosi vero le coste italiane (era il
mese di maggio 1532). Passate le coste della Sicilia si presentò davanti a
Napoli dove tra il popolo si sparse la costernazione; ma Barbarossa lasciò
perdere Napoli e prese l’isola di Procida, dove la guarnigione della cittadella
si arrese; quindi si diresse a Gaeta
dove. durante la notte entrava nel porto, attaccando la città di cui si rendeva
facilmente padrone in quanto gli abitanti erano tutti al lavoro, chi nei campi,
chi a pesca.
Si diresse poi a Sperlonga, città posta all’estremità delle
montagne di Fondi dove gli abitanti inermi, non opposero alcuna resistenza; ma
i suoi soldati saccheggiarono case, chiesa e massacrarono gli abitanti. Uno di
questi di nome Pellegrino ritenuto il più ricco della città, si ritirò nella
cittadella con alcuni soldati e alcuni abitanti. Barbarossa mandò a chiamarlo
facendogli dire che se voleva difendersi, non avrebbe tardato a essere punito
per la sua temerarietà e che avrebbe dato fuoco alla città. Pellegrino,
costernato, si recò da Barbarossa, implorando clemenza.
La stessa notte Barbarossa mandò un distaccamento di turchi alla
vicina Fondi, guidati (“si crede”,
dice Giovio), da abitanti che alcuni anni prima erano stati presi dai turchi e
si erano convertiti alla loro religione. I turchi entrati nella città mssacrarono
quelli che incontravano.
Ma essi in particolare cercavano Giulia Gonzaga, sorella di
Giovanna d’Aragona (se non proprio questa decantata dai poeti), vedova ventunenne
di Vespasiano Colonna (1480-1526) figlio
di Prospero Colonna, che l’aveva sposata a tredici anni e morto due anni dopo,
di cui Barbarossa aveva sentito elogiare la bellezza e aveva pensato di rapirla
per farne dono al sultano.
I turchi sfondarono il portone del castello e Giulia sentiti i
rumori, nuda, (così si dormiva all’epoca! ndr.)
indossata una camicia, fu presa dalla finestra da un domestico che la portò via
a cavallo e Giulia fu salva, ma del domestico che l’aveva portata via
attraverso i boschi e aveva visto e toccato, non si seppe più nulla.
I turchi passarono poi a saccheggiare Terracina che misero a
fuoco; il terrore giunse fino a Roma dove il papa Clemente VII era malato e i
cardinali diedero incarico, con una notevole somma, al cardinale Ippolito de’
Medici per difendere la città. Il cardinale accolse subito un esercito composto
di briganti che facevano saccheggi come i turchi; ma Barbarossa non era al
corrente delle ricchezze di Roma e si imbarcò
dirigendo le vele verso l’Africa.
*) Solimano aveva avuto un regno lungo ed era stato un gran
monaeca, gran guerriero e gran politico; il secolo di Solimano è stato per i
turchi lo stesso che per l’Europa era stao quello di Carlo V; la sua gloria e
il terrore suscitato dalle sue conquiste
si erano sparse in ogni luogo; l’impero ottomano non era stato mai governato da
mano più ferma e robusta; l’altro grande sultano era stato Maometto II; gli
altri sultani, per la maggior parte non erano stati che despoti inerti,
igmoranti o brutali.
BARBAROSSA
SI
IMPADRONISCE
DI TUNISI
POI CONQUISTATA
DA CARLO
V
Q |
uesto saccheggio delle coste italiane era stato solo un diversivo
in quanto Barbarossa aveva in animo di andare a porre l’assedio a Tunisi e il
diversivo era servito per cogliere di sorpresa Muleasses (Moulei-Hasan 1484-1550)
ed evitare che si preparasse ad opporgli resistenza; era riuscito in questo
intento in quanto le spie che egli aveva a Costantinopoli gli avevano riferito che
il sultano aveva inviato Barbarossa con una possente armata per saccheggiare le
coste d’Italia e Andrea Doria per vendetta, aveva fatto lo stesso sulle coste
della Grecia.
Barbarossa diede fondo alla sua flotta nei pressi di Biserta,
borgo del reame di Tunisi, facendo dire agli abitanti che aveva con sé Roscetes (Rashid, unico fratello vivente
di Moulei-Hasan), che egli aveva condotto da Costantinopoli, loro legittimo re,
che egli intendeva ristabilire sul trono e scacciare Muleasses che, per avere
il regno per sè, aveva ucciso il padre e quarantaquattro dei suoi fratelli (aveva un
harem di quattrocento bei ragazzi, Hammer: Histoire
de l’empire ottoman, Paris, 1836).
L’odio che gli abitanti di Tunisi avevano per il re parricida e fratricida,
scomparve quando si resero conto che la dinastia che aveva regnato per tre
secoli sarebbe scomparsa sotto il timore che loro ispirava il giogo ottomano e
incoraggiarono Muleasses che si era rifugiato presso una tribù, a tornare; egli
tornò alla testa delle tribù arabe, ma Barbarossa lo respinse con la potente
artiglieria di cui disponeva e si impadroni del forte della Goletta.
Tunisi si apre davanti a sé con un golfo a ferro di cavallo che
sembra un lago e sulla punta a una distanza di tre leghe, si trovava “la Goletta” su cui vi erano due torri
fortificate; l’isoletta aveva acque basse che impedivano a una flotta di
avvicinarsi e bombardare la città (Pananti: Osservazioni sopra le coste della
Barberia, 1841).
Barbarossa rimase padrone di Tunisi per qualche mese e come
governatore della città fece costruire degli edifici e istituì dei magistrati
per rendere giustizia, ma Carlo V, accogliendo le preghiere di Muleasses e dei
cavalieri di Malta che desideravano cacciare colui che era divenuto il terrore
delle flotte della cristianità, si prepaò per la conquista di Tunisi.
Il 29 Maggio 1535 la flotta imperiale si riuniva a Barcellona,
composta da cinquecento navi di varia grandezza sotto il comando di Andrea
Doria, con truppe spagnole, italiane e tedesche, sotto il comando del marchese
Guasto e giunse al forte della Goletta il 16 giugno; questo forte era costituito
da due torri quadrate di circa cinquanta passi; qui Barbarossa aveva il suo
arsenale e aveva affidato la sua difesa al pirata Sinan, uno dei suoi più intrepidi capitani.
L’armata imperiale si imposessò delle due torri (una detta del
Sale, l’altra dell’Acqua) piena di una immensa quantità di armi e munizioni e
di quaranta cannoni tra i quali vi era una grossa bombarda di quelle che erano
servite per la presa di Costantinopoli.
Con l’’occupazione della Goletta l’esercito di Carlo si impadronì
di cento bastimenti e trecento pezzi di artiglieria di diverso calibro.
Barbarossa aveva pensato che solo un combattimento con il nemico sarebbe stato
la sola via di salvezza e per disporre delle sue truppe aveva deciso di far
massacrare dalla popolazione i settemila schiavi cristiani che si trovavano
nella città, ma essi si opposero e avrebbero obbedito solo se costretti con la
forza.
Egli disponeva di soli novemila settecento uomini di cui solo un
quarto era in città e questi non erano disposti a uscire dalle sue mura; gli
schiavi cristiani riuscirono a liberarsi dalle catene e chiusero le porte della
città.
Barbarossa se ne fuggì con il fedele Sinan e un rinnegato
chiamato Caccia-diavolo; il giorno
seguente (21 giugno 1535) Carlo raccolse l’armata accampata fuori città
dediderosa del saccheggio concesso di norma ai soldati, che l’imperatore voleva
evitare. Ma ai soli soldati spagnoli, i più sanguinari, furono concessi due
giorni di saccheggio; trentamila persone furono sgozzate e diecimila furono
ridotti in schiavitù; trentamila schiavi cristiani furono liberati da una dura
cattività tra Tunisi e dintorni; furono distrutte le moschee e le scuole, abbattute
un gran numero di statue; libri rari e preziosi furono strappati o bruciati,
dappertutto non si vedeva che morte, furti e saccheggio; le donne più belle
erano prese come schiave.
Il terzo giorno l’imperatore entrò in città con i soldati
tedeschi ai quali permise solo il saccheggio dei viveri e pubblicò un ordine
che metteva fine al saccheggio. Tutti gli schiavi che avevano riacquistato la
libertà accolsero gli ufficiali con grida di gioia; uno di essi riferì che
Barbarossa prima di partire aveva nascosto nella cisterna, degli scudi d’oro:
ne furono trovati trentamila.
Il primo agosto l’imperatore riprese la sua posizione nel campo
della Goletta, di fronte alla torre dell’Acqua; a ogni passo i soldati
calpestavano i cadaveri dei turchi uccisi;
tra questi corpi vi erano quelli di molte donne così grasse, che il loro
seno arrivava al ventre: questo eccesso di obesità (spiega Hammer), proviene
dall’uso che sulle coste della Barberia le donne si nutrono con il kou-kourouz (mais-cus-cus).
Carlo V ricevette il re Muleasses che fu reinsediato nel regno, si
obbligava a liberare le città di Bone, Biserta e Afrikyé che erano ancora nel
potere di Barbarossa, confermando il possesso della Goletta per la quale
Muleasses si impegnava a rimbrorsare, per l’occupazione dell’imperatore, ogni
anno, la somma di dodicimila ducati e
consegnare dodici cavalli e dodici puledri di razza moresca a testimonianza
della sua gratitudine.
Alla prima infrazione era prevista una penalità di cinquantamila
ducati; alla seconda, centomila, e alla terza la espulsione e la perdita del
regno; fu lasciato a Tunisi un distaccamento di mille spagnoli agli ordini di
Bernard Mendoza per tenere occupata la Goletta e dieci navi dalla lunga chiglia
sotto il comdando del nipote di Andrea Doria, Giannettino Doria; dopodicchè
l’imperatore se ne partì il diciassette agosto (cit. Hammer).
A seguito di questa vittoria di Carlo V, Francesco I, re
Cristianissimo, per mettersi al sicuro dalle sue ambizioni, per mezzo di M. de
la Forest, suo agente segreto a Costantinopoli, concluse (1537) un trattato di
alleanza offensiva e difensiva con la Porta, in base al quale il sultano si
impegnava ad attaccare per mare il regno di Napoli e il re dei romani in
Ungheria con una numerosa armata, mentre il re di Francia si sarebbe
impossessato di Milano; questo trattato suscitò grande orrore anche in Francia
dove l’arcivescovo di Rohan disse al re che era una ignominia ma il re gli
rispose: “Quale ignominia, per abbattere
il mio nemico più potente e fortunato di me, non solo al turco, ricorrerei
anche al diavolo! (cit. Becattini).
DISASTRO
DELLA SPEDIZIONE
DI CARLO
V PER
LA
CONQUISTA DI ALGERI
O |
ccorre tornare al 1516 quando Horuc era stato chiamato in aiuto
dal re di Algeri, Eutemio, contro gli spagnoli che possedevano una fortezza nelle
vicinanze, di cui Eutemio voleva impadronirsi; Horuc giunse con cinquemila
soldati (1516); una volta giunto ad Algeri, Horuc assassinava il re che lo
aveva chiamato in aiuto e si impadroniva del regno e, trovandolo piccolo, per
ingrandirlo, assaliva il vicino regno di Tremisene e se ne impadronìva, mentre
continuava a saccheggiare le coste della Spagna e dell’Italia.
Carlo V da poco divenuto re di Spagna, per porre un freno ai
saccheggi, aveva mandato delle truppe al marchese di Comares, governatore di
Orano, per assalire Horuc, con l’aiuto del re
di Tremisene; in questo frangente, come abbiamo visto, Horuc trovò la
morte, ma fu sostituito dal fratello Ariadeno Barbarossa che si impossessava
del regno di Algeri, mettendolo sotto la protezione di Solimano II, il quale
mandò, per la sua difesa, un corpo di turchi e invitò Barbarossa a recarsi a
Costantinopoli, investendolo, coma abbiamo visto, del comando dell’armata
mavale.
Dopo l’impresa di Tunisi, poiché le coste della Spagna erano infestate
dai corsari che partivano da Algeri, Carlo V decise di andare a conquistare il
regno di Algeri, nonostante Andrea Doria lo avesse scongiurato, che le coste
dell’Algeria in quel periodo di stagione avanzata, fossero estremamente
pericolose ed esponeva la flotta alla sua distruzione.
Egli partiva verso la fine di settembre (1541) e, dopo aver
superato una burrasca in prossimità della Sardegna, luogo di incontro
dell’armata, giunse nella rada di Algeri il 22 Ottobre e il 23 e 24 ebbe luogo
lo sbarco.
La flotta era formata da settantaquattro galere e duecento navi
di varia grandezza sotto il comnando di Andrea Doria. Il duca d’Alba aveva il
comando di ventimila uomini di fanteria, duemila di cavalleria e tremila signori
e gemtiluomini di tutte le nazionalità che servivano come volontari a cui si
aggiunsero mille soldati di Malta condotti da cinquecento cavalieri al comando
di Camillo Colonna; nella flotta vi erano anche molte donne come se si dovesse
andare a un torneo (commenta Becattini).
Prima di cominciare l’assedio Carlo inviò un gemtiluomo presso Hassem,
governatore di Algeri, figlio di Barbarossa e reggente del regno, chiedendogli
la consegna del regno; ma Hassem rispose che “occorreva essere un insensato per seguire la richiesta del suo nemico,
chiedendo su cosa fossero fondate le speranze e le minacce dell’imperatore”.
“Su questa flotta, sui bravi soldati e
sulle armi che tu vedi”, gli fu risposto. “I nostri soldati e le nostre armi valgono quanto quelli dell’imperatore”,
rispose Hassem; “la disfatta dei
cristiani renderà celebre la città”.
La guarnigione turca era composta di soli ottocento uomini di cui
Hassem conosceva il valore e inoltre aveva altri cinquemila uomini, ma erano
mori ed arabi non adatti a combattere, se non tumultuosamente e senza
disciplina. Inoltre aveva sparsi intorno alla città una gran quantità di
cavalieri numidi per molestare i cristiani che ammontavano a ventimila uomini,
oltre alla cavalleria, fanteria e nobiluomini.
I soldati dopo essersi
riposati e nutriti, furono divisi in tre distaccamenti, ognuno dei quali
ottenne tre cannoni per affrontare le incursioni dei numidi; l’accampamento fu
sistemato in un luogo comodo, tutto circondato da profondi fossati formati da
torrenti, che li metteva al sicuro dagli attacchi dei numidi.
Fu messo un cannone su una collina che si trovava nelle vicinanze
e dominava la città e delle grosse galere furono ancorate dalla parte opposta,
per bersagliare la città. I numidi però non gli davano tregua perché durante
queste operazioni li bersagliavano di frecce e di pietre e continuarono anche
durante la notte. Passarono due giorni e due notti senza che i cristiani
avessero un momento di riposo; invano sparavano colpi di cannone, i numidi si
disperdevano sulle loro montagne per riapparire subito dopo; soldati e
ufficiali, sorpresi per queto modo di combattere degli avversari, che evitavano
il corpo a corpo, incominciavano a pensare che le loro fatiche fossero inutili,
quanto funeste.
All’inizio della notte del 28 e 29 ottobre scoppiava un temporale,
seguito da pioggia mista a grandine che durò tutta la notte, prostrandoli,
perché non potevano stare né in piedi né
sui letti in quanto il fango arrivava a metà delle loro gambe.
La tempesta durò tre giorni durante i quali non fu possibile
portare a terra le provviste che erano sfuggite al disastro del naufragio; i
cavalli furono l’unico cibo per sfamare
i soldati.
I maomettani che osservavano la scena dall’alto delle loro
montagne, osservavano ciò che si verificava nel campo dei cristiani e scesero
in massa ad attaccarli con muvole di frecce e di pietre, senza che i cristiani potessero
difendersi; i soldati non erano neanche in grado di sparare in quanto le
cartucce e le polveri erano bagnate.
Tutti erano costernati ad eccezione dell’imperatore che disse
agli spagnoli: “La fortuna si è
dichiarata contraria, occorre combatterla; le armi da fuoco non vi possono servire, prendete le spade e
le lance, sgominate questi miserabili africani
che si rendono arditi per la vostra sfortuna e per la vostra disgrazia;
aprite una strada ai vostri vascelli che sono la sola risorsa per la vostra
salvezza”, poi disse le stesse cose ai tedeschi e agli italiani nelle loro
lingue.
Fece quindi gettare un ponte sul fossato che circondava il campo;
i soldati si lanciarono sui nemici e li respinsero fino alla città.
L’imperatore raccolse quindi ciò che rimaneva de suo esercito e alla loro testa
si diresse verso la spiaggia con l’idea di imbarcarsi per la Spagna; ma un
terribile spettacolo si offrì ai loro occhi; vascelli disfatti con corpi morti
che fluttuavano sulle acque e una moltitudine di mori e numidi che erano
accorsi sulle rive per deprendare tutto ciò che il mare restituiva; la
terribile tempesta sollevata sul mare aveva rotto gli ormeggi dei vascelli,
facendoli urtare gli uni contro gli altri e molti si erano frantumati, altri
erano colati a picco.
Carlo levò gli occhi e le mani verso il cielo, implorò il
soccorso divino, respinse i mori e in numidi e raccolse vascelli e barche che
erano scampati al naufragio; voleva imbarcarsi per ultimo, ma Doria gli fece
presente che la sua armata e il suo impero dipendevano da lui e lo fece salire
su un vascello per condurlo in Spagna. Ma scoppiò un’altra tempesta che
disperse i vascelli, alcuni finirono in Spagna, altri in Italia; l’inperatore
fu costretto a tornare indietro e fermarsi per alcune settimane a Bugia e poi
fu finalmente portato a Barcellona.
PIRATERIA
DI
BARBAROSSA
NELL’ARCIPELAGO
E BATTAGLIA NAVALE
CON DORIA
B |
arbarossa dopo aver svernato a Ippona e aver preso
nell’arcipelago (1538), dieci isole dei veneziani, era tornato a Costantinopoli
dal sultano che lo aveva accolto con lusinghe, ascoltando il rapporto delle sue
campagne nel Mediterraneo. Dovendo ripartire, disponeva di quaranta galere e il
gran visir aveva dato disposizioni di prepararne cento, ma erano pronte solo
dieci, le altre erano in cantiere e dovevano essere armate. Egli voleva
attendere che fossero pronte ma per una astuzia dei visir, dovette cambiar parere; era stato infatti riferito che Andrea
Doria era stato incrociato presso l’isola di Candia con quaranta galere per
sorprendere la flottiglia di venti vascelli comandati da Salih Reis, che si
stava recando in Egitto.
A questa novella, Barbarossa si preparò a partire con tremila
giannizzeri per recarsi a Sciato (Skiatho), una delle sette isole poste
all’entrata del golfo di Mallo, dove Barbarossa giunse con ottanta navi che non
erano ancora pronte alla sua partenza da Costatinopoli e con le venti galere di
Salih Reis; così l’effettivo si trovò con centocinquanta vascelli, numero
ritenuto sufficiente per la spedizione.
il castello di Sciato che si innalza su una roccia fu ridotto a
breccia in sei giorni e sei notti e al settimo Barbarossa passò a fil di spada
gli assediati e fece tremila quattrocento schiavi.
Da Sciato la flotta fece rotta verso Skyros, posta di fronte a
Negroponte. Skyros prende il nome dal suo suolo pietroso, celebre per le
piraterie dei Dolopi e per l’esilio e la morte di Teseo. Essa aveva subito
l’attacco di diversi corsari turchi, ma Barbarossa intese sottometterla, imponendo
un tributo annuale di mille ducati e inviò a Costantinopoli sette navi cariche
di bottino.
Egli colpì ugualmente Tine, a cui aveva imposto due anni prima,
il contributo annuale di mille ducati l’anno e aggredì Seriphos e Andros (1538)
a cui impose il pagamento di milla ducati l’anno ciacuna. Poi si diresse verso
Candia dove le isole di Retimo e Canée gli opposero una fortunata resistenza,
mentre Milopotamo e Scittia, abbandonate dai loro abitanti furono sottoposte a
saccheggio; le provviste e l’artiglieria che essi trovarono, furono trasportate
sulle navi; ottanta villaggi furono dati alle fiamme.
Da Candia, Barbarossa si diresse a Scarpanto, l’antica Carpathos,
chiamata anche Heptapolis e Tetrapolis dalle quattro e sette città che si
elevavano nell’isola, ma nell’epoca in cui Barbarossa fece la conquista non vi erano che tre città.
Dopo essersi fermato qualche giorno a Piscopia, l’ammiraglio
ottomano fece vela per Stancho dove lasciò alcune navi distribuendo i marinai
sulle sue galere. Da Stampalia inviò i suoi corsari in tutte le direzioni a
caccia di galere dei cristiani, Nel corso di questa campagna e della precedente,
Barbarossa era sceso su venticinque isole veneziane delle quali dodici erano
state sottoposte a tributo come territori conquistati e tredici erano state
saccheggiate.
Avendo appreso che la flotta delle navi riunite, del papa, di
Venezia e della Spagna erano intenzionate a conquistare la piazzaforte di
Prevesa, posta all’entrata del golfo di Laverta, di fronte al celebre
promontorio di Actium, Barbarossa si diresse con centoventidue navi verso il
punto minacciato. I cristiani erano dotati di forze superiori di
duecentocinquanta navi tra quelle del papa, dei veneziani e di Spagna.
Avendo appreso che la flotta cristiana stava venendo contro di
lui entrò nel golfo (25 Settembre) e fece mettere numerosa artiglieria alla sua
entrata per fermare il suo passaggio; la flotta cristiana non tardò ad arrivare
e gettò le ancore davanti all’isola di Corfù. Fu distaccato Grimani, patriarca
di Aquileia con le galere del papa, il quale si diresse nei pressi del golfo
per andare a esaminare la posizione dell’armata turca; avanzando verso il golfo,
ordinò a un certo Paolo di entrare nel golfo, con la galera che comandava, a
tre ordini di remi. Ma il fuoco dell’artiglieria che Barbarossa aveva messo
all’ingresso, fu così terribile che fu costretto a ritirarsi. Grimani ritornò a
Corfù e riferì ai cristiani la posizione della armata dei turchi.
Tutti i capi si riunirono per prendere una decisione. Ferdinando
Gonzaga che era uno dei principali tra di essi, era dell’avviso di prendere
Prevesa, situata su una collina che dominava il golfo di Larta, assicurando che
mettendo dei cannoni sulla collina avrebbero fulminato i vascelli turchi. Egli
assicurò che avrebbero potuto distruggere l’intera flotta turca, impedendo
l’uscita dal golfo con uno dei più grandi vascelli che avrebbero caricato di
pietre e avrebbero fatto colare a picco, mettendo all’entrata del canale tre
galeotte cariche di cannoni, ancorate sulle loro ancore. Andrea Doria disse che
questa idea sembrava ottima in apparenza, ma la riteneva molto pericolosa perché
sarebbe stato possibile che Barbarossa avesse potuto mettere parte delle truppe
in imboscata per assalire chi avesse voluto assediare Prevesa; e i vascelli,
sguarniti di uomini, avrebbero fatto cadere tutti nelle mani del nemico e
sarebbe stata la cosa peggiore che potesse loro capitare.
Dobbiamo tener presente – aggiunse - anche le tempeste che in
prossimità dell’autunno che sta per cominciare, si abbattono in questi luoghi.
Occorre che i nostri vascelli di carico e le nostre galere, stiano lontane da
queste coste piene di scogli e navigassero in mare aperto. Dove possiamo
trovare dei viveri, se siamo circondati di nemici che ci attaccheranno da tutte
le parti? Noi saremo senza risorse; chiamo come testimoni quelli che hanno qualche conoscenza del mare.
Se vediamo che il nemico si ostina a rimanere nel golfo di Larta, noi andremo
in quello di Corinto, asedieremo Lepanto e le altre città vicine. E’ certo che
Barbarossa verrà con la sua flotta per soccorrerle; allora potremo realizzare i
nostri desideri e affrontare la battaglia; l’ammiraglio dei veneziani, Capello
e il patriarca furono d’accordo.
Egli oridnò quindi, di inviare cinque galere veloci, per
esaminare i movimenti del nemico; Barbarossa dal suo canto ne aveva mandate
quattro per conoscere quello dei cristiani; quando queste videro quelle del
Doria, spaventati, rientrarono nel golfo. Doria fece estendere la flotta per
mostrare al nemico quanto fosse numerosa (de Grammont indica duecentocinquanta
vascelli). Barbarossaa era molto coraggioso sebbene questa flotta considerevole
lo avesse impressioanto.
Un (fanatico, come lo erano tutti i giannizzeri! ndr.) che gli era vicino, gli disse: “Lascerete che i cristiani affrontino
impunemente i turchi? Non uscirete da questo golfo per attaccarli? Voi dovete
considerare meno la vostra conservazione, della gloria di Solimano, che sarebbe
offuscata dalla vostra debolezza se vi lasciate prendere da questa. Combattiamo
per questo gran principe, combattiamo per gli ottomani rispettati per lungo
tempo; Ariadeno, i vostri trionfi passati annunziano quelli presenti. E allora,
se la fortuna non asseconda il coraggio dei turchi, se noi periremo qui,
Solimano non mancherò di generali e soldati per rimpiazzarci; egli ha foreste
che gli forniscono legname per costruire una nuova flotta. Preferiamo una morte
gloriosa a una vergognosa punizione che Solimano non mancherà di farci subire,
quando apprenderà che non abbiamo combattuto”.
Barbarossa, rivolto a Salec, famoso corsaro, gli disse: “Quest’uomo senza esperienza ci obbliga a
combattere malgrado l’ineguaglianza delle forze. Ci accuserebbe di debolezza
presso il Sultano che non mancherà di farci perire”.
Così ordinò di levare le ancore e di uscire dal golfo.
Le galee dei cristiani che erano rimaste in osservazione,
partirono per andare ad avvertire Doria il quale si dispose per affrontare la
battaglia. Barbarossa che aveva una flotta di centocinquanta navi, decise di
supplire al numero, con i coraggio e la prudenza. Egli si dispose, per così
dire, contro la riviera facendo mettere le batterie pronte, nel caso di uno
scacco, per favorire la ritirata.
Egli si era messo al centro dell’armata, la sua nave aveva il
padiglione rosso fuoco in modo che tutte le altre potessero individuarla e
osservare i suoi segnali; Tabache (per altri, Torgoud) comandava l’ala destra, Salec
(per altri Salih Reis) l’ala sinistra; queste due ali si aggiunsero al corpo di
battaglia sulla prima linea dove Barbarossa aveva piazzato venti galere
comandate dal pirata Dragut; l’armata turca sembrava un’aquila che avesse
disteso le sue ali. Doria vedendo un così bell’ordine di battaglia, disse che “se fosse stato abbattuto avrebbe
creduto di non combattere con un pirata, ma con un ammiraglio abile e
coraggioso”.
L’ammiraglio veneziano Capello, impaziente di combattere si fece
accompagnare con una scialuppa sulla nave di Doria e gli disse: “Principe cosa attendete per iniziare a
combattere, se dubitate del mio coraggio, vado io stesso a iniziare l’attacco e
vincerò o morirò gloriosamente come conviene a un generale veneziano”.
Doria dopo aver lodato il suo zelo e il suo coraggio gli disse di
contentarsi di seguirlo e di fare attenzione ai segnali che gli avrebbero
indicato ciò che dovesse fare. Salec inviò diverse galere contro un galeone
dell’armata cristiana che si trovava avanti, ma rispondeva con bordate così
terribili che le costrinse a ritirarsi.
Doria avvertì i capitani dei vascelli di tenersi pronti a
combattere e di tenere gli occhi sul padiglione (da dove partivano i segnali
degli ordini, ndr.).
Egli aveva in mente di iniziare l’attacco con i vascelli di
carico che erano riempiti di soldati e carichi di cannoni, sperando che il loro
terribile fuoco avrebbe saccheggiato l’armata nemica mettendola in disordine e
lui si sarebbe assicurata la vittoria.
Ma Barbarossa intuite le intenzioni del suo nemico, diede ordine
ai suoi capitani di evitare questi grossi vascelli e combattere contro le
galere. Doria, persuaso che i turchi, cedendo alla loro impetuosità naturale,
venissero ad attaccarlo, si dispose a tornare verso la sua armata con la sua
galera, per far rinserrare i vascelli e metterli in condizione di resistere
alla impetuosità del nemico; egli sentiva che questa azione per loro sarebbe
stato molto facile dopo i primi fuochi.
Il patriarca di Aquileia, era così impaziente di combattere, che
Capello fece avvicinare la sua galera a quella di Doria e gli chiese cosa gli
impedisse di iniziare a combattere in questo momento, in cui tutto sembrava
annunziare la vittoria. Egli parlò con tanta veemenza che gli equipaggi che
erano nelle vicinanze lo sentirono. Tutti i capitani cristiani, più tranquilli
del patriarca, erano nella sua stessa apprensione e impazienza. Doria
persisteva nel seguire il suo piano di battaglia.
Barbarossa che, come abbiamo detto aveva intuito il suo disegno e
diede ordine alle due ali di avanzare e attaccare le galere del nemico, ritenendo
che i galeoni appesantiti, avrebbero
impiegato più tempo per giungere in loro soccorso.
L’attacco dei turchi fu così terribile che fecero arretrare le
galere dei cristiani; due galere veneziane saltarono in aria, due di Spagna,
una di Venezia e una del papa furono prese e gli equipaggi massacrati; Salec ne
prese due a tre ordini di remi.
Una terribile tempesta e un forte
vento si levarono all’improvviso; si avvicinava la notte; i cristiani
spiegarono le loro vele e si ritirarono verso Corfù. Doria aveva perso una
giornata di gloria; tutti i capitani erano sorpresi di vedere un così gran
capitano fuggire senza aver combattuto.
La notte impedì agli ottomani di proseguire nei loro vantaggi e
risparmiò ai cristiani le più gravi perdite in quanto abbandonarono le acque di
Santa Maura; Barbarossa inseguì i cristiani per qualche tempo ma essi spensero
le loro luci e approfittando del buio, risuscirno a fuggire; egli. meravigliato
che la vittoria gli era costata così poca pena, disse ridendo: “Doria ha spento i suoi fanali per non far
vedere la sua fuga”.
Barbarossa inviò dal sultano, che si trovava a Yamboli, con la
novella della vittoria, suo figlio, con due capitani cristiani fatti
prigionieri. La città di Yamboli fu illuminata e Solimano riconobbe il servizio
reso dal suo ammiraglio aumentandogli la pensione annuale di centomila aspri,
da prelevarsi dai beni della corona.
Volendo approfittare della vittoria, Barbarossa andò a molestare
l’isola di Paxos, distante appena dodici miglia da Corfù, dubitando che si
sarebbero arresi e avrebbero combattuto. L’ardente Ferdinando Gonzaga, appena
vide Brbarossa, infuriato, andò a provocare i cristiani; salito su una scialuppa
si recò dal comandante delle galere e lo scongiurò di armarsi di coraggio per la
gloria del nome crisrtiano e di reprimere l’ardire dei barbari.
L’ammiraglio Capello disse che se gli avessero chiamato
qualche distaccamento spagnolo, sarebbe andato lui a combattere i turchi; ma i
cristiani impiegavano tanto tempo per fare i loro preparativi che Barbarossa,
vedendo arrivare il mese di ottobre levò le ancore per non esporsi alle
tempeste che in quei mari erano forti e
pericolose e tornò al golfo di Larta, mentre i cristiani pensarono di andare ad
assediare Durazzo (occupata dai turchi). Ma Capello fece presente che quelle
coste erano pericolose e si diressero verso il golfo di Cattaro per assediare
Castel-nuovo, piccola città sotto la dominazione turca e non tardarono a
impadronirsene in quanto vi era una debole guarnigione.
LA PRESA
DI
CASTEL-NUOVO
DA PARTE
DEI CRISTIANI
L |
a presa di questa città fece sorgere una disputa tra i cristiani;
Capello voleva che fosse ceduta a Venezia; ma Doria e Gonzaga presero possesso
in nome dell’imperatore e nominarono governatore Francesco Sarmento, con una
guarnigione di quattromila spagnoli. Capello istruì il senato veneziano di
quanto si era verificato; i senatori si indignarono a tal punto che decisero
immediatamente di rompere l’alleanza con Carlo V e di proporre la pace a
Solimano, e gli inviarono immediatamente un’ambasciata con Lorenzo Gritti.
Durante l’assedio di Castel-nuovo da parte dei cristiani,
Barbarossa riassestò la sua flotta per andare a soccorrere questa piazza, ma
uscito dal golfo di Larta fu sopreso da una furiosa tempesta che spinse molti
dei suoi vascelli contro le rocce, da essere disfatti.
Capello e Gonzaga proposero di andarli ad attaccare dicendo che
l’occasione era favorevole per riparare la perdita che avevano subito davanti a
Larta e ristabilire l’onore dei cristiani; ma Doria rispose che egli non
avrebbe seguito un pogetto così temerario e ordinò di alzare le vele per
tornare in Italia.
Questa condotta indignò Capello; la collera gli fece lanciare dei
propositi oltraggiosi contro Doria; egli si pentiva di essersi sottomessso agli
ordini di uno straniero e suggerì ai suoi ufficiali, soldati e marinai, di non
servire che un generale della loro nazione, dopo aver visto che un ligure (vale
a dire della popolazione dei liguri
che avevano occupato Genova, Monaco e il Piemonte ndr.), nemico naturale dei veneziani, li privava di una vittoria
certa e offuscava la gloria del nome italiano con una vergognosa fuga.
Valerio Orsini disse che Doria aveva adempiuto alle intenzioni di
Carlo V di provocare la guerra tra veneziani e turchi e onservare tutta intera la flotta del
monarca. Qualcuno aveva detto che l’imperatore, provocando i veneziani a
prendere le armi contro i turchi, aveva voluto salvaguardare i propri
interessi; che sperava che attaccati per mare e per terra da un nemico così
potente, le loro forze sarebbero state spossate; che essi avrebbero implorato
il suo soccorso e per averlo, gli avrebbero ceduto parte dei loro possedimenti.
Altri più maliziosi, dicevano che Doria volesse risparmiare il
suo confratello Barbarossa in quanto i corsari di norma non si facevano del
male tra di loro! Ma Doria non oppose a queste ingiurie che il disprezzo e
partì ugualmente.
Solimano, informato che Barbarossa aveva riportato una vittoria
completa sulla flotta cristiana, gli fece conoscere la grande soddifazione che
gli aveva causato e gli ordinò di riprendere Castel-nuovo. Barbarossa fece riparare
la sua flotta, aumentò il numero dei rematori e dei soldati e ripresa la
navigazione all’inizio dell’estate (1540), si diresse verso Castel-nuovo.
Quando giunse presso questa piazza, fece mettere la sua
artiglieria a terra, fece alzare le barriere e scavare le trincee; ma poiché
gli assediati tiravano continuamente sulle sue truppe, essi lavoravano di
notte, sì che si ritardarono molto i lavori. Una motitudine di soldati e
ufficiai perirono; fra questi ultimi ve ne era
uno, di nome Agis Hariaden, che Barbarossa rimpiangeva molto e lo
considerava un uomo molto prudente, coraggioso e amico da lungo tempo.
Quando le trincee furono terminate egli piazzò contro la città
cinquanta cannoni che lanciavano palle da cento libbre. Mentre questa
formidabile artiglieria batteva la città dalla terra, Salec la batteva dal mare
con tutte le artigierie delle navi.
Sarmento, che come è stato detto, era governatore di questa
sfortunata città, lavorava con incredibile attività riparando le brecce che il
nemico apriva; e poiché non aveva alcuna speranza di ricevere soccorso, decise
di difendersi fino alla morte.
Malgrado i suoi sforzi i turchi riuscirono a impadronirsi di una
torre che dominava la città e vi stabilirono una batteria che fulminava gli
assediati. Sarmento fece minare la base di questa torre al fine di farla
saltare con tutti i turchi che l’avevano occupata, ma la mina fu mal messa e il
fuoco si rivolse contro quelli che l’avevano messa, bruciando alcuni di quelli
che vi stavano lavorando.
I turchi che avevano fatto diversi attacchi, avevano abbattuto le
mura da diverse parti e passarono all’assalto; invano gli spagnoli opponevano
una resistenza ostinata, i turchi entrarono nella città, si spinsero fino alla
piazza dove li sopraffecero per il numero. Sarmento ricevette tre colpi di
lancia alla testa e spirò, cademdo sul
corpo dei suoi camerati. La sua morte gettò la costernazione negli altri
spagnoli; i turchi li fecero tutti a pezzi. Barbarossa accordò la vita solo a
quelli che erano disarmati. Egli fece cercare il corpo di Sarmento, per poter
mandare la sua testa al sultano, ma tra tanti morti, non riuscirono a trovarlo.
Volendo proseguire nelle sue conquiste, attaccò il castello di
Rizzano che si arrese senza resistenza. Di là si diresse verso Cattaro posta
nel golfo di Rizonico, chiedendo al governatore di arrendersi.
Era un senatore e il suo nome era Giovanni Matteo Bembo; aveva un
coraggio degno del suo sangue e della sua nascita; rispose a Barbarossa che non
aveva alcun diritto su Cattaro e che se l’attaccava egli rompeva il trattato
che i veneziani avevano fatto con il sultano; che sua altezza gli avrebbe fatto
sapere senza alcun dubbio la cattiva idea di mancare alla parola data. Finì,
assicurandolo che sarebbe stato ingiusto attaccarlo perché egli avrebbe
respinto la forza con la forza in quanto aveva soldati, armi e munizioni.
Baarbarossa, irritato da questa fiera risposta, fece mettere a
terra diversi pezzi di cannone e lanciò alcune bordate verso la città; Bembo
rispose con diversi colpi e fece mettere la guarnigione in ordine di battaglia
sulle mura. Barbarossa, avvertito della tregua che Solimano aveva fatto con i
veneziani, si rimbarcò recandosi a Castel-nuovo che fece fortificare. Poi si
recò a Costantinopoli dove ricevette dal sultano i più grandi segni di
soddisfazione.
La notizia della presa di Castel-nuovo e della uccisione di
quattromila uomini che occupavano la guarnigione, gettò la più viva
costernazione tra gli spagnoli; il marchese del Guasto fu colpito dal dolore
perché questa quarnigione era composta dai migliori soldati spagnoli; ma tutta
la popolazione della Lombardia ne gioì e ritenne quella disgrazia una punizione
divina, perchè gli spagnoli l’anno precedente, avevano saccheggiato le loro
terre e preso le loro case.
BARBAROSSA
RICEVE
L’ORDINE
DI
SACCHEGGIO
DELLE
COSTE
ITALIANE
SUO
MATRIMONIO
CON UNA
REGGINA
D |
opo i saccheggi dell’arcipelago e la vittoria di Santa Maura, Barbarossa
riceveva ordine dal sultano, su richiesta avanzata dell’inviato francese
Antoine Paulin, di saccheggiare le coste italiane ed egli si recò al faro di
Messina (1543) e, ormeggiate le navi davanti a Reggio, mandò una truppa leggera
per esaminare la situazione.
Dopo che gli era stata fatta la relazione sulla situazione della
città, la fece circondare per mare e per terra; il governatore della città si
chiamava don Diego Didace ed era spagnolo, poiché la città non era fortificata, egli fece
ritirare tutti gli abitanti nella cittadella.
Paulin che era rimasto con Barbarossa chiese al governatore la
capitolazione, ma per risposta furono sparati dei colpi di cannone; i soldat
turchi, irritati, diedero fuoco alle case del sobborgo, ma Barbarossa, su
richiesta di Paulin fece punire i colpevoli.
Il governatore, ritenendo di mettere la moglie e le figlie al
sicuro dalle offese dei soldati turchi, chiese, tramite Paulin, a Barbarossa,
di ospitarle nella sua tenda; Barbarossa acconsenti; una di esse era di una
bellezza straordinaria che colpì Barbarossa, in cui l’età non ancora aveva estinto il fuoco dell’amore e rivolgendosi
a Didace gli disse: “Tua figlia ha fatto
su di me una grande impressione, per
poter fare tutto ciò che desidera; ho percorso tutta l’Europa e l’Asia e
non ho mai trovato nessuna che potesse esserle paragonata; la prendo per il
compiacimento che dà a me e per quello che io ho nei tuoi confronti”.
Didace e la moglie risposero con le lacrime; smesso il pianto,
Didace disse: “Signore, ho roppo vissuto
per vedere mia figlia divenire vittima della sua bellezza; essa sarà condotta
in un paese dove si professa una religione
differente dalla sua, una religione, perdonatemi signore, che è sempre
stata causa di allontanamento. A chi potrà lei confidare le sue pene e i suoi
dispiaceri? Nessuno comprenderà la sua lingua. Quando il possesso avrà estinto
la passione, voi potrete abbandonarla in mani barbare che le faranno sentire
tutto il peso della schiavitù. Dove allora lei troverà soccorso? Le leggi nel
vostro paese non favoriscono le donne; lei non troverà conforto che nelle
lacrime, può darsi che sia la crudeltà a poterla difedere. Ah, signore, la voce
mi manca io sono tutto preso dal dolore”.
Egli prese la figlia tra le sue braccia, il suo viso si bagnò di
lacrime e le disse: “Addio figlia mia,
addio per sempre; la tua bellezza ti rende interessante, ma essa è funesta;
l’unica risorsa che ti rimane è di metterti nelle mani di Dio, egli non ti
abbandonerà”.
Le lacrime che questa fanciulla spandeva la rendevano ancora più
bella, più interessante; il vecchio cuore di Barbarossa finì per infiammarsi e
disse a Didace: “Calma il tuo dolore, tua
figlia è così bella che non può essere sfortunata; in qualunque paese dovesse
abitare, in qualunque nazione essa si potrà trovare, la bellezza regna
dappertutto sovrana. Io non la prendo per farne una schiava; la prendo per
farla mia moglie. Secondo le leggi, secondo gli usi dell’impero turco, le donne
o le vedove dei grandi personaggi sono onorate e rispettate; potrà portare con
sé tutte le donne che vorrà scegliere tra quelle di questa città”.
Detto ciò, la fece portare subito sulla sua galera e impaziente
di possederla, la sposò secondo il cerimoniale maomettano; fece dei regali a
Didace e lo mandò con sua moglie e gli altri figli, in Spagna. Il matrimonio
non spense la passione di Barbarossa, anzi la aumentò.
Tre mesi dopo, Didace, avendo appreso che la flotta era a Porto
Ercole, vi si recò per vedere sua figlia e la trovò piuttosto afflitta, come
non se l’aspettava, ma egli era stato accolto come un genero deve accogliere il
suocero.
Barbarossa intendeva proseguire nei saccheggi e si fermò nel
territori di Roma, per fornirsi di acqua; ma tutti credettero che volesse
saccheggiare la capitale del mondo cristiano; il papa, i cardinali gli abitanti
si prepararono a fuggire. Fu subito informato Francesco I il quale scrisse al
governatore che Barbarossa aveva ricevuto l’ordine dal sultano di saccheggiare
i nemici della Francia; il papa poteva stare tranquillo, i turchi non avrebbero
toccato i suoi Stati; questa lettera ristabilì la tranquillità a Roma, nelle
campagner e nei dintorni.
I contadini non ebbero alcuna difficoltà a portare provvigioni ai
turchi, i quali accettarono di pagare le merci ai prezzi richiesti. Barbarossa
dopo essersi rifornito di ciò che gli serviva, tolse le ancore e si recò a
Marsiglia dove doveva ricevere gli ordini del re di Francia per le operazioni
che doveva compiere.
NIZZA ASSEDIAATA
DALLA
FLOTTA
FRANCO-TURCA
B |
arbarossa a Marsiglia era in attesaa delle disposizioni di
Fraancesco I che tardavano ad arrivare; si approssimava il mese di agosto e
Barbarossa si era spazientito dicendo a Paulin che non si era recato a
Marsiglia per starsene tranquillo; che il re di Francia per una deliberazione,
impiegava il tempo di una intera impresa; che Solimano si sarebbe irritato se
avesse saputo che si perdeva tanto tempo inutile.
Paulin, vedendo Barbarossa irritato si decise a recarsi dal re, il
quale lo incaricò di dire a Barbarossa che nei suoi disegni vi era quello di
attaccare Nizza per mare e per terra e che presto sarebbe stato raggiunto dalla
flotta francese, comandata dal duca di Enghien.
Il duca non tardò ad arrivare con la flotta composta di ventidue
galere e diciotto vascelli da carico, con sedicimila uomini di fanteria e
munizioni necessarie per diversi giorni.
Le due flotte partite, passarono davanti a Genova dove Paulin
mandò una lettera al governatore della città, per avvertirlo di non avere nulla
da temere in quanto la flotta era interamente sottoposta agli ordini del re di
Francia, che aveva intenzione di impiegarla solo nei confronti della città di
Nizza e per conferma inviò diversi prigionieri genovesi che si trovavano sulle
navi turche.
Giuntui a Nizza, il duca d’Enghien fece avvertire gli abitanti che
potevano arrendersi e non esporsi al
pericolo di un assalto alla città. Essi risposero che l’avrebbero difesa fino
all’estremo e che si sarebbero fatti seppellire sotto le macerie della città.
I francesi e i turchi l’attaccarono quindi, ciascuno da una parte
e aprirono delle brecce così considerevoli che il governatore si ritirò nella
cittadella con tutta la guarnigione. Gli abitanti capitolarono; Paulin, ad
evitare che i turchi saccheggiassero la città, pregò Barbarossa di farli rientrare
nei loro vascelli. I giannizzeri furono così malcontenti per essere stati privati del saccheggio di Nizza, che volevano
uccidere Paulin; Barbarossa fu costretto ad usare tutta la sua prudenza e tutta
la sua fermezza per evitare questo delitto.
Barbarossa e il duca d’Enghien discussero se attaccare la
cittadella; essa era costruita su una roccia, da renderla pressocché
imprendibile ed era impossibile usare
delle mine. Barbarossa rivolgendosi al duca gli disse: “Due ragioni mi spingono ad evitare l’assedio. Primo, noi staremmo molto
tempo su questa piazza, senza prenderala; il nemico non mancherà di assemblare
le truppe e venirci ad attaccare e ci troveremmo tra due fuochi. Secondo, io
non vedo dove piazzare le nostre artiglierie; se si decide di mettere
l’assedio, occorre che una delle due armate si incarichi dell’attacco, mentre
l’altra dovrà guardare il campo per metterlo al riparo da ogni sorpresa”.
Barbarossa, vedendo che il duca sembrava incerto sulla risposta,
lo guardò con aria di sprezzo e gli disse: “Io
so che i francesi sono sempre troppo lunghi a decidere quando fanno la guerra”.
Fece subito riunire le truppe nel posto che gli parve più adatto per l’assedio
della cittadella e fece mettere sette cannoni, di cui due erano di una grandezza
estrema, facendoli puntare verso i bastioni e gettò un tale spavento nella
piazza che nessuno si fece vedere sulle mura.
I francesi attaccavano dalla parte opposta e cercarono di imitare la
prontezza con la quale i turchi si servivano dei cannoni; furono tirati tanti
colpi di cannone sulla cittadella, da una parte e dall’altra che ai francesi vennero
a mancare la polvere da sparo e le palle.
Il duca d’Enghien mandò a chiederle ai turchi; Barbarossa divenne
furioso e disse a quelli che si erano recati da parte del duca: “Dite al vostro generale che riconosco
l’inconsistenza e la leggerezza dei francesi; quando erano a Marsiglia essi non
si sono occupati che di riempire i vascelli di vino e di viveri e non si sono
sognati di prendere le cose necessarie
alla guerra e si sono ridotti a rivolgersi a degli stranieri nel loro stesso
paese”. Aggiungendo che Paulin lo aveva ingannato nell’assicurarlo che avrebbe trovato in Francia tutto ciò che
era necessario; che egli li avrebbe caricati di catene e inviati a Solimano che
li avrebbe fatti punire con la punizione dovuta alla furbizia.
Fece quindi riunire gli ufficiali e disse loro che aveva
intenzione di tornarsene in Oriente; che si vergognava di essere venuto a
servire una nazione di presuntuosi e negligenti. Il duca d’Enghien si recò
personalmente da Barbarossa per fargli
le sue scuse e gli promise in nome del re, che avrebbe avuto tutto ciò che
fosse necessario e che sarebbe stato ricompensato per il suo zelo e per le sue
pene, così come gli ufficiali; Barbarossa si calmò e promise di continuare
l’assedio a condizione che il re mantenesse la parola che lui aveva dato in suo
nome.
L’assedio continuò con ardore; furono intercettate delle lettere
che il marchese del Guasto aveva scritto al governatore, esortandolo a
difendere la cittadella con coraggio e promettendogli che sarebbe arrivato
personalmente con una formidabile armata. Barbarossa e d’Enghien si resero
conto che sarebbe stato pericoloso attendere l’arrivo di del Guasto e imbarcati
i cannoni e tutte le loro munizioni di guerra, evacuarono la piazza. I turchi
caricarono i loro cannoni e i loro equipaggi a forza di braccia, con una
celerità sorprendenti e ridevano vedendo la mollezza e la lentezza dei francesi,
che si decisero ad aiutare.
Il tumulto che questa dipartita precipitosa aveva creato, diede
la possibilità ad alcuni turchi di entrare in città per saccheggiarla, dando
fuoco a diverse case. Barbarossa si recò al porto d’Antibes per riposarsi e
prendere il fresco che gli era necessario. Ma fu subito avvertito che la flotta
di Doria nella quale si trovava il duca di Savoia e il marchese del Guasto,
aveva subito una tempesta nella baia di Villafranca, nella contea di Nizza; che
quattro galere di questa flotta si erano frantumate finendo contro le rocce,
che le altre erano in forte pericolo.
Paulin che si trovava con Barbarossa fece tutte le richieste
possibili per convincerlo a profittare dell’occazione per distruggere la flotta
di Doria; ma furono inutili. Barbarossa rispose che non avrebbe mai perso
l’occasione di lasciarsi sfuggire una tal gloria, ma i venti del nord non gli
permettevano di tentare questa impresa. Quando i venti si calmarono e il mare
divenne tranquillo, fece levare le ancore, ma non fece spiegare tutte le vele e
fece remare lentamente perché temeva l’arrivo di una nuova tempesta.
Gli uffciali che lo ritenevano l’uomo più attivo e più ardente
del suo tempo, furono sorpresi nel veder prendere tante precauzioni e ne risero
dicendo ad alta voce perché ascoltasse, “Ariadeno
(come lo chiamavano i turchi) e Doria
sono due corsari che non vogliono nuocersi. Ariadeno fa oggi per Doria ciò che
Doria ha fatto per lui a Ippona o a Larta”. Barbarossa punto sul vivo,
rispose: “Dei giovani senza esperienza
credono di sapere più di un vecchio generale che ha passato tutta la sua vita
tra le armi e combattendo” e fissando Cayergol, che aveva alzato la voce
più degli altri, aggiunse: Egli mi giudica come suo padre Cayerbeg che
comandava l’ala destra dell’armata egiziana alla battaglia di Singa (Marj-Dabiq
nei pressi di Aleppo, 1516 durante il regno di Selin I, padre di Solimano II)
agli ordini di Campson (Qansuh al-Ghuri), sultano d’Egitto che non volle
combattere contro i turchi e procurò loro la vittoria e la conquista
dell’Egitto, ed essi diedero a Cayeberg il governatorato di questo regno, come
ricompensa del suo tradimento. Suo figlio Cayergol crede che io abbia
intelligenza con i nemici e mi attendo grandi ricompense per non averli
attaccati (alcuni storici hanno ritenuto che Barbarossa avesse intelligenza con
Doria, ma si tratta di supposizione infondata ndr.).
Barbarossaa inviò venticinque galere sotto il comando del fedele
Salec e dispose di andare a saccheggiare le coste della Spagna; Salec eseguì
gli ordini e saccheggiò diverse città di
questo regno. Inoltre, prese due vascelli carichi di mercanzia nel porto di
Palamos, c eon questa merce si recò ad Algeri dove si fermò il tempo
neecessario per la navigazione.
Barbarossa vedendo che il sartiame di alcuni vascelli erano in
cattivo stato fece richiesta a Genova per provvedere alle riparazioni e ottenne
l’approvazione da parte di Doria e in pagamento rese i prigionieri genovesi che
aveva preso da vascelli dell’imperatore.
Poichè arrivava l’autunno, si recò a Tolone dove passò l’inverno;
a Nizza Andrea Doria era stato nominato Priore
dei Sindicatori, a vita, ma nel governo della città era sostituito dal duca
Emanuele Filiberto di Savoia, il quale dopo la partenza della flotta
franco-turca, rientrato in città, fece battere una medaglia con la croce di
Savoia da una parte, circondata dagli attributi della vittoria e dall’altra una
scritta che diceva: Nicea à Turcis &
Gallia obsessa (Nizza assediata dai turchi e dai francesi).
I
SACCHEGGI
PROSEGUONO
SULLE
COSTE
TOSCANE
L’IDEA DI
BARBAROSSA
DELLA
CONQUISTA
D’ITALIA
B |
arbarossa vedendo arrivare la primavera e che il re di Francia
non proponeva alcuna spedizione fece dire al re che egli si annoiava a stare
per lungo tempo nell’inazione, e che sua maestà non doveva trovare cattiva
l’idea che egli se ne tornasse a Costantinopoli che aveva bisogno dei suoi
servigi. Egli aggiunse che se Francesco I avesse voluto avere una giusta
vendetta su Carlo, egli avrebbe potuto mettere a ferro e fuoco tutte le coste
di Spagna e avrebbe raso al suolo le case, gli alberi, l’erba e le teste degli
spagnoli (i quali non si radevano il capo come facevano i turchi). Il senso di
umanità fece dire a Francesco che sarebbe stata una barbarie contro i cristiani,
mentre il nemico era Carlo. Poiché Barbarossa aveva intenzione di andare a
prendere degli schiavi, Francesco gli fece omaggio di quattrocento uomini,
condannati alle galere.
Barbarossa si era reso conto che i francesi non avevano né la
volontà, né le forza di completare il vasto progetto della conquista
dell’Italia (che rientrava negli accordi tra Francesco I e il sultano mirava a
spartirla tra francesi e turchi ndr.).
Egli aveva proposto di fare ingrandire Porto Ercole e farla fortificare e
mettere una guarnigione considerevole e far costruire un canale profondo a Porto
Santo Stefano, posto a sette miglia da Orbetello, fino al lago che si trovava
davanti a questa città, per fare un porto spazioso da poter contenere un numero
considerevole di navi che potessero tenere sotto sorveglianza tutte le coste
italiane. Sua intenzione segreta – assicurano – era di portare la più gran partita navale dei
turchi, sperando che la debolezza dei cristiani, causata dalla loro disunione,
gli avrebbero facilitato il compito di invadere tutta l’Italia.
Era il 25 Maggio 1545, e Barbarossa fece rotta verso le isole di
Lerins (prossime alla Costa Azzurra) e si fernò nel porto di Vado (Corsica)
appartenente a Genova, dove il senato gli mandò dei rinfreschi ed egli
accettandoli fece sapere che non aveva alcuna intenzione di causare offesa alla
Repubblica di Genova.
Barbarossa fece vela verso l’isola d’Elba da dove scrisse al
signore di Piomnbino una lettera in cui
diceva di sapere che egli aveva al suo servizio un giovane turco fatto
prigioniero a Tunisi, figlio di Sinas, suo luogotenente; se glielo avesse
restituito, avrebbe avuto la sua
riconoscenza, impedendo ai turchi a lui sottomessi che glielo chiedevano, di arrecare
dei danni alle sue terre; ciò che avrebbe fatto se lo avesse negato.
Appiano, questo era il nome del signore di Piombino, gli rispose
che la religione gli impediva di liberare il ragazzo che lui richiedeva in
quanto aveva abbracciata la loro religione; per il resto gli avrebbe prestato
ogni aiuto di cui egli avesse avuto bisogno, promettendo che avrebbe trattato
il ragazzo non come uno schiavo, ma come un figlio.
Gli aveva quindi mandato ogni genere di rinfreschi perché
sopportasse il rifiuto con tranquillità. Egli però non conosceva Barbarossa che
al minimo rifiuto perdeva le staffe, il quale, fatta circondare l’isola d’Elba
dalla flotta, ordinò ai soldati di
scendere dalle navi e saccheggiarla. I turchi cominciarono a prendere tutti gli
isolani che incontravano nelle cammpagne e saccheggiavano i villaggi; Appiano
fu preso da spavento e provvide subito a mandare a Barbarossa il reagazzo che
gli aveva chiesto; il saccheggio cessò e la flotta levò le ancore.
Il granduca Cosimo de’ Medici,
aveva su una galera del Barbarossa una spia greca che lo informava di tutti i
progetti e di ciò che Barbarossa decideva di fare e lo avvertì che la flotta
turca avrebbe costeggiato le coste della Toscana; il granduca avvertì Stefano
Colonna, che era il generale delle truppe del ducato, di raccogliere i soldati
e disporli sulle rive per difenderle se i turchi avessero voluto approdarvi.
Il granducai inviò un deputato a Siena, suggerendo di prendere le
stesse precauzioni e mise a disposizione le sue truppe, se ne avessero avuto
bisogno; ma i senesi erano da lungo tempo nemici dei fiorentini e non si
fidavano di ricevere sul loro territorio le truppe fiorentine; risposero che
erano in grado di difendersi per conto proprio.
Essi non tardarono a rendersi conto che la loro diffidenza era
mal fondata. Barbarossa giunse con la sua flotta davanti a Télamo, una delle
loro città e messo piede a terra diresse le artiglierie contro le mura. Poiché queste
erano deboli, aprirono una breccia; il governatore era così affranto che si
salvò uscendo dalla breccia stessa, ma cadde nelle mani dei turchi che si
resero padroni della città e la saccheggiarono. Barbarossa entrò nella casa
di Bartolomeo Telamo, morto qualche
giorno prima alla quale diedero fuoco; fece aprire la sua tomba e fece ridurre
il cadavere a pezzi che furono dispersi.
Ciò che aveva dato occasione a questa barbarie era stato il
desiderio di vendicarsi del saccheggio che Telamo che era generale delle galere
del papa, aveva fatto nell’isola natìa di Lesbo-Mitilene, dove Barbarossa aveva
dei possedimenti. I turchi marciarono poi fino a Montéano, che si trovava a
otto miglia da Télamo e arrivarono di notte e presero tutto ciò che la loro cupidigia
gli avesse consentito di prendere e caricarono di catene tutti gli abitanti di
questa sfortunata città; i lavoratori furono i soli a salvarsi in quanto erano
a lavorare nei campi.
I turchi, come le tigri che sono eccitate dalla carneficina, misero a ferro e fuoco turta la contrada, poi
si recarono a Porto Ercole. Juan de Luna che era il governatore, vedendoli
arrivare, riunì per ordine del magistrato, da una parte la guarnigione composta
di spagnoli, e dall’altra gli abitanti, ma essendosi reso conto che non
sarebbero stati in grado di resistere ai turchi, consigliò il senato di Siena
di mandare a pregare Cosimo (de’ Medici) di dimenticare il loro precedente
comportamento e di prestar loro il soccorso che aveva offerto.
Ambrogio Mucio, uno dei principali senatori noto per il talento
della parola, fu incaricato di questa commissione e andò a prostrarsi ai piedi
di Cosimo de’ Medici, chiedendogli che la sua generosità chiedeva di
dimenticare il comportamento dei senesi e di prendere in considerazione la loro
sventura e di soccorrerli. Cosimo sapeva che il suo interesse e la sua fama
esigevano che prestasse l’aiuto richiesto e diede ordine a Stefano Colonna di
condurre la sua armata a Porto Ercole affidando l’avanguardia con un
distaccamento di cavalleria e di fanteria a Cipino Vitelli, ma giunsero troppo
tardi. I turchi avevano già alzato le loro batterie di cannoni su una roccia
che dominava la città che i cittadini, spaventati dal pericolo che li
minacciava avevano loro aperte le porte. L’armata di Cosimo giunse per vedere
che stavano imbarcando gli sfortunati cittadini carichi di catene, con le
fiamme che divoravano la città.
Juan de Luna si era fatto largo tra le truppe turche con una
parte della truppa che egli aveva riunito, recandosi a Orbetello, piccola città
poco distante da Porto Ercole. La sua posizione la rendeva quasi imprendibile,
posta su una roccia in mezzo a uno stagno salato da dieci a dodici miglia di
circonferenza che forma la riviera d’Albegna che si scaricava nel mare con una
apertura molto larga. Si arrivava alla riviera attraverso una striscia molto
stretta che si poteva facilmente tagliare.
Barbarossa, volendo lasciare il ricordo del suo furore e della
sua barbarie, decise di attaccare Orbetello, fece mettere dei grossi cannoni
sulle galere a tre ordini di remi. Luna e i soldati che aveva portati con sé,
vedendo fare questi preparativi sotto le mura della città, furono presi dallo
spavento e decisero di attraversare la palude accanto alle terre e darsi alla
fuga.
Vitelli che si era fermato a poca distanza, non volendo esporre
il piccolo numero di soldati che aveva raccolto che ccomandava, contro l’arnata
dei turchi, essendosi rinforzato con una parte di soldati di Stefano Colonna,
apparve improvvisamente sulla riva e dispose la sua armata in ordine di
battaglia, facendo puntare sulla flotta dei turchi qualche pezzo di artiglieria
che aveva portato, mandandone diverse a picco; la sua cavalleria si precipitò
addosso ai turchi che avevano messo piede a terra, abbattendoune un gran
numero; costrinse il resto a ritornare verso i loro vascelli.
Luna e i suoi soldati, avendo ripreso coraggio, raggiunsero la
truppa di Vitelli e il distaccamento di quella di Stefano Colonna in arrivo.
Barbarossa si rese conto che avrebbe impiegato molto tempo e per prendere
Orbetello avrebbe perduto molti dei suoi e la stagione era avanzata; levate le
ancore, si recò all’isola del Giglio che si trova nei paraggi; disceso a terra,
assediò la città, la prese d’assalto e prese gli abitanti rendendoli schiavi.
Si rimane sorpresi che Barbarossa, di cui è noto il coraggio e
l’attività, abbia così facilmente abbandonato Orbetello; ma egli avveva in
animo di recarsi a Costantinopoli e certamente per la stagione inoltrata sarebbe
stato sorpreso dall’autunno che gli aveva fatto pensare ai due posti che gli
sarebbero stati funesti, uno era il Capo della Chimera e l’altro la Propontide
o il Mar di Marmara.
Partendo dall’isola del Giglio, egli costeggiò Capolinaro al di
sopra di Civitavecchia, si fermò sotto le mura di questa con l’intenzione di
farle subire la stessa sorte di Télamo; ma il capitano Paulin cheera con lui,
gli fece presente che tutti questi saccheggi sarebbero stati imputati al re di
Francia, ciò che sarebbe stato un disonore e avrebbe causato una viva amarezza.
E gli fece cambiare idea.
VERSO COSTANTINOPOLI
IL SUO PASSAGGIO
DALLE COSTE DI NAPOLI
B |
arbarossa si recò all’isola d’Ischia e saccheggiò Ferino, Pensa e
Varrano, tre borghi dell’isola, ma non attaccò la città di Ischia perchè era
ben fortificata; poi passò all’isola di Procida dove fece poco danno, in quanto
gli abitanti erano fuggiti con i loro effetti. Entrò nel golfo di Pozzuoli,
estese la sua flotta dall’Avverno fino a Messina e fece lanciare qualche colpo
di cannone su Pozzuoli e resosi conto che era abbastanza forte, passò oltre. Il
suo arrivo sparse il terrore nelle città vicine (le mamme per calmare i loro
bambini dicevano che stava arrivando Barbarossa!).
Pietro di Toledo, viceré di Napoli, fece battere il tamburo per raccogliere tutti
i giovani per andare in soccorso di Pozzuoli. Barbarossa, superato il
Promontorio di Campanello, prese a sinistra per andare ad assediare Salerno; ma
una tempesta che sopraggiunse improvvisamente, spinse la flotta al di là di
Palinuro e saccheggiata la città di Carrea, avanzò verso Lipari, che pose sotto
assedio. Il governatore che era un uomo timido e debole, la rese, senza fare la
minima resistenza. Barbarossa gli accordò la lbertà ma prese prigionieri tutti
gli altri abitanti il cui numero ammontava a settemila tra uomini, donne e
bambini.
I suoi vascelli erano così carichi di spoglie da non poterne più contenere e partì infine
verso Costantinopoli.
Il numero di schiavi che trasportava era prodigioso; li aveva
fatti mettere al fondo della chiglia delle navi, dove morivano di fame, di
sete, di dolore e altri morirono soffocati; fece gettare più di mille corpi in
mare.
Quando Barbarossa giunse a Costantinopili, trovò il sultano
nell’afflizione; aveva appena perduto il figlio maggiore, Mohammed, che amava
teneramente e accolse il suo ammiraglio con tutta la soddisfazione che il
dolore gli consentiva.
Barbarossa si ritirò a Bisistach (Beschiktasch) che si trova a
due leghe da Costantinopoli per riposarsi delle sue fatiche e gioire dei
piaceri della bella reggina facendo costruire una moschea.
Il riposo però lo annoiava e ordinò di riparare le sue galere e
di costruirne altre nuove: egli si proponeva di tornare a solcare il mare, ma
fu colto da un attacco di dissenteria Un medico ebreo gli suggerì di mettergli
vicino dei ragazzi per dormire con lui ma fu vinto da una violenta febbre che
gli tolse la vita nel mese di maggio o luglio 1546 (lo stessso anno del
principe Mohammed), all’età di ottant’anni e fu sepolto nella moschea che aveva
fatto costruire ai bordi del Bosforo, in un luogo romantico, tutto verdeggiante
di muschio ed edera.
Brantome scrive che Barbarossa era morto settuagenario, ma quasi
tutti gli scrittori confermano la morte a ottant’asnni; da escludere che fosse stato preso in battaglia a Orano e tagliata la
sua testa, fosse stata mandata in Spagna, esposta su una picca.
Avevaa lasciato al sultano ottocento schiavi, al gran-vizir
Rustem-bassa, duecento schiavi, restituendo a quest’ultimo un prestito di trentamila
ducati e, per assicurare a suo figlio, reggente di Algeria, altri mille schiavi
e sessantamila ducati (cit. Hammer, che aggiunge in nota, da altra fonte,
diecimila zecchini per suo genero e al nipote Mustafa diecimila zecchini).
Suo successore nel comando della flotta turca fu il pirata
Dragut, uffciciale che si era formato sotto Barbarossaa da cui aveva ereditato
il coraggio, il talento e la fortuna ... e i saccheggi delle coste italiane
continuarono, mentre Andrea Doria, anch’egli carico di anni, divenuto ancora
più cauto, preferiva tornasene a Genova, (1553) lasciando libero campo al nuovo
pirata contro il quale poco poté il grande Carlo V, che lasciando l’impero a
suo fratello Ferdinando e i regni a suo figlio Filippo II, se ne andava a morire
in un convento dell’Estremadura (1558).
CONCLUSIONI
C |
arlo V, pare per crisi depressiva, aveva deciso di rinunciare
all’impero e aveva diviso i suoi regni, lasciando la parte imperiale al
fratello Ferdinando, malvisto dai tedeschi (in quanto lo consideravano
spagnolo, per essere stato educato in Spagna); e tutto il resto dei regni,
Nuovo Mondo compreso, al figlio Filippo. Ferdinando moriva nel 1563 e gli
succedeva il figlio Massimiliano, più
gradito ai tedeschi, il quale ebbe modo di gareggiare con l’impero ottomano,
superiore in potenza.
Relativamente alla piaga della pirateria turca, che affliggeva
tutta l’Europa, Massimiliano aveva dato incarico al generale, conte Niccolò di
Sdrino, di scrivere una relazione per opporre ai turchi una difesa più consistente
e più valida e per aumentare le armate, che dopo la partenza delle milizie
spagnole scarseggiavano di uomini e dopo cinquant’anni di guerre le popolazioni
delle province si erano naturalmente impoverite.
Il conte di Sdrino scrisse la sua relazione pubblicata da
Giovanni Sagredo e ripresa da Becattini. il quale diceva che il mezzo più
opportuno per avere la pace, era quello di fare la guerra a chi possedeva tre
imperi (gli ottomani), con tanti regni e innumerevoli province, che inondava
l’Asia come un torrente, spaventava l’Europa e fatta serva l’Africa, per la
quale sarebbero stati necessari ottantamila uomini agguerriti e ben condotti.
E’ vero aggiungeva, che i turchi ci superano nella quantità, non
nella qualità. Non hanno, né mai hanno avuti, altrettanti soldati in tutte le
loro armate che siano capaci di combattere a pié fermo; tutto il rimanente
consiste in tatari, che a guisa di ungari, da essi discendenti, sono più amanti
della rapina che della battaglia.
I valacchi e i moldavi, se la vittoria sarà nostra, si
rivolteranno contro gli infedeli. Se una volta ci metteremo in condizione di
mostrar loro il viso, saremo assistiti dai loro stessi sudditi cristiani, che
tenteranno di spezzare le loro catene. Ma
se noi non saremo in grado di sostenerli, avranno sempre timore di
venire in nostro aiuto per evitare il peggio per loro stessi.
Ma è necessario armarsi di coraggio e cambiare il metodo di
guerreggiare; occorre far la guerra attiva; entrare nel cuore dei paesi
ottomani, accendere il fuoco in casa loro. Invece di ritirarci sempre, dobbiano
avanzare, il retrocedere finisce in cedere e il cedere non è altro che
spogliarsi.
A chi vuol salvare Vienna e l’Austria (°) amareggiate dai turchi,
non più da lontano ma da vicino, occorre difenderle di là del Danubio e della
Sava.
Mi si opporrà che mancano gli uomini per una tale impresa. Vostra
Maestà rappresenti a Roma lo stato deprecabile dell’Ungheria e delle sue
annesse province, la perdita di più di cinque milioni di anime cadute nel 1522
sotto la oppressione turca; tanti vescovati che si sono perduti, tante mitre
cambiate in turbanti.
I turchi mantengono sopra trecentomila soldati; nella cristianità
si nutre un maggior numero di frati; una parte di questi plachi pure l’ira del
Cielo con le orazioni, ma l’altra abbatta l’orgoglio degli infedeli con le
armi.
I leviti combattevano anch’essi in servizio del Tempio e dei loro
re quando vi era bisogno. Tante migliaia di braccia non continuino ad essere inoperose;
ogni uomo addestrato alle armi fa per un altro uomo e in tal guisa se i turchi
abbondano di gente, gente pure non mancherà nelle armate cristiane.
La lettera continua ma ci fermiamo qui per trarre, dalla
esperienza del passato un insegnamento per il presente (**).
L’Italia è afflitta, come tutti sanno, dalla ingovernabilità; il
cambio di un governo all’anno in cinquant’anni è una vera vergogna che i nostri
politici non hanno il pudore di avvertire. E non si sono vergognati neanche nel
far cadere un governo retto da un personaggio che gode di prestigio
internazionale, che stava governando in un periodo gravissimo in cui si sono
accomunate ben quattro componenti negative, una epidemia, una grave crisi
economica, una siccità e una guerra le cui ripercussioni si stanno abbattendo
su tutti i cittadini, esclusi gli evasori che godono di una evasione di centocinquata
mld. (come ufficiali sono indicati 103 mld.!), una ricchezza immensa sottratta
al paese, che nessuno dei partiti ha mai preso in seria considerazione, per
motivi elettorali,
Il male si trova, come nel passato, nell’Italia, allora divisa in
tanti staterelli che si facevano la guerra, ora in oltre cento partitini che
lottano uno contro l’altro, non per il bene del Paese, ma per spartirsi
ministeri e sottosegretariati, con una divisione di destra, sinistra e centro,
ognuna delle quali promette agli elettori un cententino, mentre essa dovrebbe
essere considerata antistorica e non dovrebbe avere più motivo di essere, nel
momento in cui si deve realizzare un grande programma unitario di ricostruzione
e ammodernamento del Paese, rimasto indietro di oltre trent’anni.
A questo stava pensando il Governo Draghi che è stato fatto
cadere per vigliaccheria, meschinità e dispetto, che è stato un dispetto fatto all’intero
Paese che non potrà avere, ne siamo certi, un governo che possa portare avanti
il programma previsto dal P.N.R.R. .
°) Una
curiosità: il celebre cornetto con
cui l’imperatore Francesco Giuseppe faceva colazione, era stato inventato dai
cuochi austriaci in ricordo della occupazione turca.
**) Allora in Europa, come ora nella Unione Europea
(eccessivamente burocratizzata), non vi era, come non vi è, unicità di intenti: abbiamo ventisette
paesi tra i quali manca una coesione con
uno spirito sociale e una volontà unica,
intesa al benessere di tutta la comunità; ci troviamo invece con ognuno di essi (in particolare il gruppo
dei paesi ex sovietici, tra i quali
primeggiano la l’Ungheria e la Polonia), che pensa per se stesso e non per
l’intera comunità e con il diritto di
veto che ciascun membro può opporre su una decisione (come fa continuamente
l’Ungheria che per queto dovrebbe essere estromessa) che ne abusa e tutta l’Unione
rimane ferma e bloccata sulle decisioni che riguardano l’intera comunità.
E’ in corso una folle e insensata guerra di conquista della
Russia e purtroppo le sanzioni comminate si stanno rivolgendo contro tutti gli
altri paesi estranei alla guerra e chi ne soffre e soffrirà sono le aziende, le
famiglie e i semplici cittadini, in particolare gli anziani molti dei quali
vivono in solitudine e senza assistenza come chi scrive.
FINE