Costantino VI presiede il Concilio di Nicea

Miniatura - Biblioteca Vaticana

                             

 

I MILLE ANNI

DELL’IMPERO BIZANTINO

 

TRA INTRIGHI,COMPLOTTI

E COLPI DI STATO

 

MICHELE DUCAS-PUGLIA

                          

CAP. VI

 

SOMMARIO. LA DINASTIA ISAURICA: LEONE III E LA LOTTA ALLE IMMAGINI; RIPERCUSSIONI IN ITALIA E NASCITA DELLO STATO PONTIFICIO; COSTANTINO V E LEONE IV IL CAZARO; COSTANTINO VI - L’IMPERATRICE IRENE E IL CONCILIO DI NICEA; NICEFORO I FOCAS; STAURACIO - MICHELE I RHANGABE; LEONE V  L’ARMENO; LA DINASTIA FRIGIA: MICHELE II IL BALBO - TEOFILO - MICHELE III L’UBRIACONE E LA NUOVA TEODORA; FOZIO E L’INIZIO DELLA CRISI TRA LE DUE CHIESE

 

 

LA DINASTIA ISAURICA

LEONE III E LA LOTTA ALLE IMMAGINI

 

 

P

rima dell’avvento di Leone III, l’impero aveva avuto venti anni di anarchia con rivolte e disordini. Ai confini gli arabi avevano espropriato i bizantini di tutta l’Africa settentrionale (693-698); avevano ripreso l’Armenia, devastate la Cilicia, la Pisidia (in Asia minore) e la Cappadocia. I bulgari avevano esteso i loro possedimenti in Tracia, raggiungendo per ben due volte Costantinopoli (702-712).

All’interno la legalità non era rispettata e regnava il caos. In queste condizioni, il popolo era demoralizzato non trovando protezione nella legge. Nell’esercito mancava la disciplina e le province erano in continuo stato di ribellione.

Leone III Isaurico (717-741), pressoché analfabeta, violento e autoritario, mise ordine a questo stato di cose. Era  uomo di grande levatura, con  non comuni capacità  in campo militare, diplomatico, amministrativo, economico-finanziario, e legislativo.

Aveva iniziato la sua carriera sotto Giustiniano II (v. cap. precedente) e proveniva dalle montagne dell’Isauria: il padre aveva offerto cinquecento pecore per la sua assunzione nell’esercito imperiale (prezzo elevatissimo, ma si rivelò un ottimo investimento!), in cui percorse i vari gradi, segnalandosi per valore e destrezza. L’imperatore Anastasio gli aveva conferito il comando delle legioni dell’Anatolia e i soldati lo elevarono alla suprema carica.

Appena eletto si trovò ad affrontare un massiccio attacco degli arabi che avevano occupato l’Anatolia ed erano giunti a Costantinopoli (717-718), riuscendo a respingerli, e scacciando il pericolo arabo dall’Europa ne aveva  ricavato grande prestigio.

Relativamente ai temi, rivide la impostazione dei territori da cui erano costituiti riducendoli a undici (7 asiatici e 4 europei), sia per rendere più efficace la loro difesa, sia per diminuire il potere degli strateghi che li reggevano. Riprese le redini dell’esercito ricostituendone la disciplina e riorganizzando anche la marina. Aveva il talento dello statista e svolse un’intensa attività legislativa. Emanò un codice militare, un codice nautico (Nòmos nautikòs), e per l’agricoltura un codice rurale (Nòmos georgikòs v. in Schede).

Riordinò quindi tutte le principali norme del Corpus juris di Giustiniano, nella materia civile, penale e nei contratti più frequenti, aggiornandolo alle necessità del momento, emanando l’Ekloga-Compendio (scritta in greco).

In materia penale, come è stato accennato in precedenza, venivano per la prima volta codificate le pene corporali  che derivavano da consuetudini orientali, quali il taglio del naso, della lingua, della mano, l'accecamento, il taglio o il bruciamento dei capelli, l'evirazione. Queste pene, accompagnate da pene pecuniarie, sostituivano più umanamente, la pena di morte.

Leone III è rimasto comunque famoso, nella storia bizantina, per aver iniziato a combattere  (726), le immagini  (v. in Schegge: Libri Carolini ecc.).

Egli non aveva una cultura religiosa, ma probabilmente (come scrive Gibbon) il contatto con arabi ed ebrei, avevano infuso in quel marziale montanaro, l’odio per le immagini e volle combatterle considerandole “idoli”, come quelli condannati dalla Bibbia. In pratica, come abbiamo già detto, Leone III aveva dato un taglio diverso a tutte le precedenti diatribe religiose, rivolgendole direttamente contro le  immagini.

Le sue intenzioni non erano religiose ma esclusivamente politiche. Il problema principale era che i monasteri avevano accumulato grandi ricchezze immobiliari ed erano esenti dal pagamento delle imposte. Alla grande ricchezza dei monasteri, si accompagnava un grande potere e popolarità dei monaci.

Egli, con la collaborazione dei vescovi Tommaso di Claudiopoli e Costantino di Nacolia,  convinti iconoclasti (come dire: fondamentalisti), suoi consiglieri, emanò un decreto (726) col quale proibiva il culto delle immagini e ne ordinava la rimozione dalle chiese e dai luoghi pubblici.

Aveva iniziato facendo togliere un maestoso crocifisso dalla porta bronzea del palazzo reale. I funzionari incaricati dell'operazione, saliti sulle scale, furono fatti cadere al suolo dalla folla inferocita che diede inizio a una rivolta immediatamente repressa. Il patriarca di Costantinopoli, Germano, protestò energicamente, ma fu immediatamente sostituito. Vi furono rivolte in Grecia e nelle isole; molti iconoduli, subirono mutilazioni o furono esiliati e i loro beni confiscati.

Si disse anche, malignamente, che Leone, non essendo riuscito a convincere gli insegnanti dell'università alla sua causa, li avesse fatti rinchiudere e fatto appiccare il fuoco all'istituto e alla biblioteca.

 

 

RIPERCUSSIONI IN ITALIA E NASCITA

DELLO STATO PONTIFICIO

 

 

L

’Italia era in buona parte sotto la dominazione bizantina con Venezia, l’Esarcato di Ravenna e Pentapoli (formata da cinque città dipendenti dall’esarcato: Rimini, Pesaro, Fano, Senigallia e Ancona), oltre al ducato di Roma e all’Italia meridionale e Sicilia compresa la Dalmazia e l’Illirico. Su questi territori il papa aveva giurisdizione patriarcale per conto dell’imperatore di Costantinopoli,. Il papa Gregorio II (669-731) che già si era opposto alla riorganizzazione operata da Leone III sulle imposte, levò le sue proteste.

Il dissidio si aggravò con l’editto di Leone III (726), in quanto il papa invitò tutta l’Italia a non osservarlo. Gregorio II, appoggiato dalle milizie romane e dai duchi longobardi di Spoleto e Benevento spodestò il duca imperiale che risiedeva a Roma e altrettanto fece con quelli della Pentapoli  e di Venezia. 

Nell’esarcato di Ravenna, l’esarca Paolo, per eseguire gli ordini di Costantinopoli aveva mandato funzionari greci che furono accecati o uccisi o scacciati, e l’esarca perse la vita (728).

Gregorio che non desiderava che i longobardi si affermassero nei territori occupati, diede ordine alle popolazioni di rimanere fedeli all’imperatore bizantino, pur respingendo la lotta alle immagini che fu condannata da un Sinodo appositamente convocato (729).

Il re dei longobardi Liutprando (affiancato da Ildebrando) colse l’occasione per marciare contro Ravenna, proseguendo per la Pentapoli e giungendo alle porte di Roma si impadronì  di Sutri (che faceva parte del ducato di Roma). Gregorio II vi si recò per supplicarlo e lo impietosì a tal punto che Liutprando accompagnatolo a Roma, ed entrato col papa nella basilica, depose sulla tomba di Pietro e Paolo il suo manto reale, l’usbergo, il pugnale, la spada dorata, la corona d’oro, la croce d’argento e donò anche la città di Sutri: fu l’inizio dell’acquisizione dei territori dello Stato pontificio che si verificherà fra qualche anno.

Leone III per contrastare il papa, emise  un secondo editto (730) col quale, rincarando la dose, estendeva il divieto al culto delle reliquie e alle preghiere ai santi.

Nel frattempo Gregorio II moriva (731) e gli succedeva Gregorio III (741) che si trovò a lottare contro Liutprando e contro Leone III per l’iconoclastia per la quale riunì un Sinodo (731), che affermando il culto delle immagini, condannava l’iconoclastia con la scomunica  scomunicando l’imperatore.

Leone III mandò una flotta in Italia che doveva riportare ordine e nello stesso tempo doveva impadronirsi del papa. Ma la flotta fu dispersa da una tempesta.

A questo punto Leone III prese due gravi decisioni: dispose il sequestro del patrimonio della Chiesa nell’Italia meridionale, in Sicilia, in Dalmazia e nell’Illirico e la sottrazione della giurisdizione patriarcale romana che passò direttamente a Costantinopoli, ma Leone III non riusciva più a tenere sotto controllo la situazione in Italia.

Nel resto dell’impero, nonostante le feroci reazioni dei monaci, con la situazione sotto controllo da parte dell’imperatore, tutto rimase nell’ambito della controversia tra iconoclasti e iconoduli.

Le cose però, peggiorarono dopo la morte di Leone III (741), con la successione del figlio Costantino V, il quale per combattere gli arabi e i bulgari (v. sotto), dovette trascurare l’Italia.

In Italia ne approfittarono i longobardi che avevano attraversato tutti i territori bizantini e Liutpando sebbene avesse donato al papa Sutri, era rimasto nel territorio romano con le sue truppe, tenendo occupate alcune città del ducato. Gregorio III, preoccupato, aveva inviato ambasciatori con doni e una lettera a Carlo Martello per chiedere aiuto, ma durante le trattative morivano sia il papa Gregorio III sia Carlo Martello (741).

A Gregorio III succedeva il papa Zaccaria (741-752) il quale si recò da Liutprando a Terni e lo convinse a restituire le città occupate. Liutprando  trattenne per sé i ducati di Spoleto, dove fece rinchiudere il duca Trasimondo in un convento, e di Benevento dove il duca Gregorio veniva trucidato a furor di popolo, sostituendo i due duchi con suoi amici e rientrando,  rioccupava città della Romagna, invadendo l’Esarcato.

Nel frattempo Liutprando moriva e i longobardi deposto Ildebrando, elevavano al comando Rachis (744) duca del Friuli. Anche Rachis  rioccupava l’Esarcato ma il papa riuscì a commuoverlo a tal punto che Rachis andò a chiudersi nel convento di Montecassino (dove si trovava anche Carlomanno fratello di Pipino, ambedue figli di Carlo Martello).

Carlo Martello, Maestro di Palazzo dei merovingi (v. Cronologie: Carolingi; Merovingi), aveva due figli, Carlomanno e Pipino III, che gli succedettero nella carica il primo come Maggiordomo d'Austrasia, il secondo di Neustria. Per rafforzare la loro posizione, i due fratelli avevano pensato di riformare la chiesa franca con l'aiuto del vescovo Bonifacio. A seguito dell'abdicazione di Carlomanno (che si ritirava in convento), Pipino diventa Maestro di Palazzo anche d'Austrasia. E' lui che in pratica esercita il potere e a questo punto ritiene sia giunto il momento di assumere definitivamente il posto del re merovingio.

Egli ha bisogno però del riconoscimento della Chiesa. Il vescovo Bonifacio invia quindi al papa Zaccaria due suoi delegati (Fulrado e Burcardo), richiedendo “se gli fosse lecito chiamarsi re”. I delegati tornano con il benestare del papa, secondo il quale “conveniva chiamare re chi detiene il potere, piuttosto che colui che tale potere non ha”. Riuniti tutti i grandi a Soissons, Pipino III si fece eleggere re dei Franchi (751) mentre Childerico III e il figlio Teodorico furono chiusi in convento.

Ad evitare che la sua nomina fosse considerata usurpazione (quale era!), i suoi consiglieri ecclesiastici, sulla base degli insegnamenti della Bibbia, secondo cui il profeta Samuele aveva unto Saul e David, gli suggerirono la consacrazione mediante l'unzione, somministrata a Pipino dai vescovi. Egli però di questa unzione non era soddisfatto perché voleva fosse fatta dal papa.

Pipino approfittò dell' occasione di una visita al regno franco del nuovo papa Stefano II (754) per farla rinnovare nella cattedrale di saint Denis, non solo per sé, ma ad evitare rivendicazioni da parte dei merovingi, anche per i due figli, Carlomanno e Carlo (v. Articoli: Carlomagno e l'idea dell'Europa).

Con questa consacrazione il re unto diventava l'eletto di Dio, mentre per tutti i predecessori era valso il principio secondo il quale il potere dei re era stato “concesso da Dio”, e da quel momento, per tutti i secoli a venire, i papi con la consacrazione di re e imperatori, acquisirono il potere esclusivo di far da tramite per l'elezione, che proveniva direttamente da Dio.

Pipino consacrato re e divenuto anche patrizio romano, aveva ora l’obbligo di difendere la santa sede e in cambio (era stato scritto, per cancellare il suo senso di colpa per l’usurpazione in danno dei merovingi) pensò di donare al papa i territori dell’Esarcato e della Pentapoli, ora sotto il re longobardo Astolfo.

La richiesta fatta a quest’ultimo di cedere i territori con una somma di dodicimila soldi d’oro ottenne un rifiuto, sì che Pipino giunse al passo di Susa (754) con un grosso esercito. Astolfo a questo punto cedette e donò a Pipino quei territori (*), Pipino a sua volta li donò al papa, tenendoli associati all’impero franco.

 

*) Ravenna, Rimini, Pesaro Cesena, Fano, Senigallia Jesi, Forlinpopoli, Forlì col castello di Sassubio, Montefeltro, Aceragio, Monlucati, Serra, Castel san Mariano, Bobro, Urbino , Cagli, Luculi, Agubio, Comacchio, Narni , i territori del primo nucleo dello Stato pontificio, erano quindi, oltre al ducato di Roma, occupato dal papa,  formato dai territori del Lazio (Etruria e Sabina), e l’Esarcato di Ravenna con la Flaminia (corrispondente alla Romagna), la Toscana (Tuscia), la Marca di Ancona, l’Umbria designati come Patrimonio di san .Pietro.

I territori rimanenti rimasero sottoposti all’imperatore, mentre Venezia e Napoli  sceglievano duchi locali, affrancandosi così da Bisanzio.

 

COSTANTINO V E

 LEONE IV IL CHAZARO

 

 

A

lla morte di Leone III (741), il figlio Costantino V (detto spregiativamente Copronimo o Caballino 741-775), proseguiva  nella politica di laicizzazione dello Stato iniziata dal padre.

Costantino V, non solo mantenne i decreti emanati dal padre, ma fece indire un Concilio a Hieria (753), che proclamò il culto delle immagini contrario alla religione cristiana, con anatema contro coloro che difendevano il culto, considerati eretici. e dei funzionari ed ecclesiastici (tra i principali difensori vi erano il patriarca Germano e Giovanni Damasceno)., Molti furono colpiti da condanne capitali mentre i beni degli ecclesiastici  e dei monasteri furono confiscati. Molti monaci preferirono emigrare recandosi nel sud Italia dove fondarono monasteri e scuole e creando nuovi centri di cultura greca.

Gli scrittori cristiani si vendicarono dell’imperatore diffamandolo, non solo col soprannome di Copronimo cioé “lordo di sterco” (perché quando fu battezzato aveva sporcato il fonte battesimale!) o Caballino (vale a dire staffiere in quanto costoro pulivano lo sterco dei cavalli),ma rivolgendogli accuse che per la loro enormità si smentivano da sole (Gibbon scrive di “averle tutte copiate con pazienza” ma purtroppo non le ha indicate nel suo testo), facendone l’imperatore più diffamato della storia bizantina.

Essi però non riuscirono a togliergli la grande popolarità di cui aveva goduto anche dopo la sua morte, perché Costantino V era stato un imperatore saggio, valido legislatore, scrittore di teologia (aveva scritto tredici testi teologici) e ottimo generale: il suo acume strategico lo aveva portato alle vittorie contro gli arabi, bloccando i loro tentativi di invasione, e i bulgari, e per questo era spassionatamente amato dai suoi soldati. Aveva rafforzato i confini orientali sistemando in Bitinia circa duecentomila slavi fuggiti dalla Bulgaria; aveva costretto il khan dei bulgari, Telerig, che voleva invadere la Tessaglia (contro il quale aveva riportato una sanguinosa e definitiva vittoria nel 763 nei pressi di Anchialo), a firmare la pace (che non fu duratura e i bulgari dovette combatterli fino alla sua morte), anche se aveva dovuto trascurare e perdere i territori italiani (v. sopra); erano però rimasti a Bisanzio buona parte dell’Italia meridionale con  la Calabria, la Sicilia e parte della Campania.

Costantino V non aveva il fisico forte del padre, era delicato, soffriva varie malattie; era  nervoso, (oggi si direbbe nevrotico), di natura psicologica instabile, complessa e contraddittoria, provava un gusto morboso a torturare i suoi avversari iconoduli, costringendo i monaci a sposarsi con gran pompa, bruciando loro le barbe e costringendoli a passeggiare nell’ippodromo con le mogli a fianco.

Aveva dovuto far fronte a un colpo di Stato del cognato Artavasde (Leone III gli aveva dato in moglie la figlia, sorella di Costantino V), che profittando della sua assenza quando era andato a combattere contro gli arabi (nel tema di Opsikion), si era eretto a difensore del culto delle immagini facendosi eleggere imperatore, nominando il figlio maggiore Niceforo co-imperatore, e l’altro figlio Niceta comandante supremo dell’armata che mandò in Armenia.

Costantino V dopo aver sconfitto Artavasde a Sardi (743) andò incontro a Niceta mettendolo in fuga a Modrina (agosto). Tornando a Costantinopoli (settembre), dopo un breve assedio entrava in città, e fece accecare Artavasde con i suoi due figli, Niceforo e Niceta, esposti poi nell'ippodromo.

Il patriarca Anastasio, che aveva preso parte attiva alla rivolta e nella chiesa di Santa Sofia aveva accusato l’imperatore  di avergli detto che “il figlio di Maria non era che uomo e Maria lo aveva messo al mondo come mia madre, me”, fu flagellato e pubblicamente umiliato: era stato messo su di un asino con la testa rivolta verso la coda dell’asino. Gli fu concesso, comunque, di continuare a ricoprire la carica di patriarca. Gli altri seguaci di Artavasde, furono in parte giustiziati, in parte mutilati e accecati.

Durante il suo regno vi furono terremoti che sconquassarono l’Asia e distrussero molte città; nel mese di agosto (763) vi fu una eclissi solare che aveva oscurato l’aria, da far sembrare il giorno, notte; nell’inverno i due mari gelarono fino a cento miglia dalla riva e la neve si innalzo sul ghiaccio per venti cubiti (circa un metro), e quando sgelò, grossi iceberg si abbatterono su Costantinopoli; anche una cometa a forma di trave e portatrice di sventure, apparve per dieci giorni a occidente e poi per ventuno giorni a oriente. Scoppiò quindi la peste, prima in Calabria e Sicilia, poi giunse  attraverso le isole Egee  in Grecia e quindi a Costantinopoli dove mieté vittime per tre anni interi.

Il regno del figlio, Leone IV (775-780), detto il Chazaro (dalla provenienza della madre, figlia del khan dei chazari che ribattezzata aveva preso il nome di Irene, cioè pace), era stato di transizione e segna il passaggio tra l’apogeo della iconoclastia raggiunta con il padre e la restaurazione delle immagini che sarà operata da Irene.

 

 

 

 

 

COSTANTINO VI 

  IRENE

E IL CONCILIO DI NICEA

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

          L’imperatrice Irene

 Pala d'oro -particolare - s. Marco -Venezia*

 

 

 

 

C

ostantino V aveva fatto sposare al figlio  Leone, Irene, orfanella della iconofila Atene, che non aveva altra dote che il proprio corpo, ma si rivelerà energica e ambiziosa e, quanto a trame e ferocia non sarà da meno dei maschi imperatori.

Leone IV, dopo essersi riconciliato per breve periodo con il partito monastico e aver nominato dei monaci, vescovi in importanti sedi metropolitane, successivamente alla morte del patriarca Niceta, eunuco slavo, e alla consacrazione del nuovo patriarca Paolo di Cipro, riprese la persecuzione contro  gli adoratori delle immagini.

Avendo scoperto nascosre nella camera della moglie (780) due immagini alle quali essa rendeva segretamente il suo culto, in un raptus di risentimento fece immediatamente uccidere coloro che nella reggia avevano introdotto questo culto.

Si accingeva a far processare Irene per mandarla a morte, quando era stato attratto da una corona adorna di gemme, appartenuta all’imperatore Maurizio, che Irene “aveva consacrato al Crocifisso”:…volle metterla sulla propria testa e dopo averla presa tutte le parti delle mani e della testa che avevano toccato la corona si ricoprirono di pustole livide e Leone, preso da febbre alta, dopo poche ore moriva!

Chi non avrebbe pensato ad un potente veleno? Invece gli storici cristiani avevano attribuito il fatto a un “miracolo” ...ignorando che chi aveva dato una mano al “miracolo”, era stata proprio Irene, che, morto il marito, si fece subito incoronare col figlio Costantino VI (780-797),Porfirogenito (nato cioè nella sala della porpora quando il padre era imperatore) di dieci anni,regnando prima col figlio e poi prendendo nelle sue mani tutta l'autorità dell'impero (797-802). Ad evitare rivendicazioni  da parte dei fratelli del defunto imperatore Leone IV, li aveva costretti tutti a farsi monaci e prendere gli ordini sacri.

Irene provvide a restituire ai monasteri molti degli immobili che erano stati espropriati. In questo periodo(787) fu realizzata la riforma dei loro ordinamenti, (riforma che aveva anticipato di alcuni secoli quella che in  Europa sarà la riforma operata a Cluny) e convocò il Concilio di Nicea, settimo e ultimo dei Concili ortodossi riconosciuti.

Il Concilio si aprì inizialmente (786), nella chiesa dei santi Apostoli a Costantinopoli. Esso però fu interrotto dalle guardie del reggimento della guardia imperiale fedeli al giuramento fatto all’imperatore Costantino V. L’imperatrice non si lasciò scoraggiare: sostituì le truppe iconoclaste col pretesto di una campagna contro gli arabi, con quelle a lei fedeli che fece venire a Costantinopoli, trasferendo il Concilio a Nicea (787).

Il Concilio, con la presenza di Costantino VI (che aveva raggiunto i diciassette anni e lo vediamo nella riproduzione riportata all’inizio di questo articolo), fu presieduto dal patriarca Tarasio e ad esso  parteciparono 350 vescovi, con due rappresentanti del papa (ambedue di nome Pietro), due delegati dei tre patriarchi d’Oriente impediti dall’occupazione araba e una moltitudine di monaci.

I lavori si svolsero in sette sessioni e nella conclusione prevalse l’indirizzo moderato. Relativamente alle questioni di fede il Concilio condannò l’iconoclastia come eresia, ordinò la distruzione degli scritti iconoclasti restaurando il culto delle immagini e dispose l’ammissione nell’ortodossia degli iconoclasti che ritrattarono l’eresia di fronte all’assemblea.

Circa questa ammissione, per evitare che chi riservava il culto alle immagini cadesse nell’idolatria, seguendo le orme di Giovanni Damasceno, fu affermato il principio della “venerazione” non diretta all’immagine ma alla persona da essa rappresentata che, era stato precisato, non ha niente a che vedere con l’ ”adorazione” riservata a Dio; alla immagine invece, erano riservati solo “onore” e  riverenza”.

I monaci erano su posizioni più estreme e non condividendo questa soluzione, giunsero a discussioni violente, provocando una spaccatura. Questa divisione continuerà in tutta la storia della chiesa bizantina, da una parte, con i monaci “zeloti” (integralisti) che volevano attenersi rigorosamente alle prescrizioni canoniche rifiutando ogni compromesso; dall’altra, con i c.d. “politici”, che mediava tra la ragion di Stato e la situazione politica del momento e collaborava con il potere temporale (fino a quando però questo fosse rimasto nell’ortodossia), e non era contrario ai compromessi.

La questione ebbe ulteriore approfondimento nella materia “cristologica” (v. Schede: Le dottrine cristologiche). La distinzione fatta dagli iconofili relativamente alle immagini, portava alla “cristologia nestoriana” (delle due nature distinte: umana e divina), la loro risposta  fu che “l’immagine di Cristo non era che la raffigurazione del Verbo che si era fatto carne e aveva abitato tra noi”.

L’immagine di un uomo, essi sostenevano, non cerca affatto di mostrare la sua anima o la sua carne e il suo corpo o i singoli elementi che lo compongono, e certamente chi osserva l’immagine, si guarderà bene dal pensare che l’esecutore abbia inteso separare il corpo dall’anima. Analogamente l’immagine di Cristo incarnato non può essere guardata come se in essa la natura umana fosse separata da quella divina.

Chi contempla l’immagine di Cristo, anche se lo vede nella sua forma umana, non separa la sua natura umana da quella divina, anzi rivolge il suo pensiero alla divinità che rimane invisibile e che non può essere rappresentata, in quanto l’immagine della rappresentazione partecipa solo del nome e non della sostanza del suo prototipo.

Le decisioni del Concilio di Nicea non erano state accolte da Carlomagno che aveva riunito il Concilio di Francoforte, non accettando né l’una né l’altra tesi, ma accogliendo la soluzione che si rifaceva alla precedente posizione del papa Gregorio I (590-604), secondo la quale le immagini non vanno né adorate né distrutte (v. Specchio dell’Epoca: Libri Carolini ecc.).

Irene aveva allontanato dall’amministrazione civile, militare e religiosa tutti gli iconoclasti, onorando come martiri tutti quelli che avevano sofferto sotto di loro. Quanto al trono, il figlio Costantino, pur avendo  un carattere debole, raggiunta la maggiore età, voleva governare per conto proprio. Egli aveva esiliato la madre, confinandola ad Atene, sua città d’origine, ma Irene era riuscita ad intrigare tanto da convincere il figlio della sua assoluta sottomissione, ma tornata a  Costantinopoli e ripreso il suo posto, ricominciò nelle sue trame.

Costantino VI aveva dovuto far fronte a una congiura da parte dei suoi zii, fratellastri del padre, capeggiati da Niceforo, ma era riuscito a sventarla.

Costoro erano nati dal secondo matrimonio di Leone IV e avevano prestato giuramento nelle sue  mani che avrebbero vegliato sulla sua sicurezza. Non era la prima volta che questi cinque fratelli complottavano per impadronirsi del trono.

Il motivo delle loro trame era dovuto al fatto che i due maggiori, Niceforo e Cristoforo, avevano ottenuto il titolo di “cesare”, e gli altri tre (Niceta, Antimio e Eudocimo) quello di “nobilissimi”, il cui significato era quello di essere destinati alla successione; mentre Leone associandosi come co-imperatore il figlioletto Costantino, li escludeva. Non solo, ma li aveva anche privati di un sostanzioso legato (Gibbon lo aveva calcolato in duemilioni di sterline). Fu così che essi incominciarono a complottare contro il giovanissimo nipote.

Non appena morto Leone IV (780), i cinque fratelli erano stati al centro di un complotto di iconoclasti, inteso a mettere sul trono Niceforo. I capi furono umiliati ed esiliati, i fratelli furono rasati e costretti ad indossare la tonaca. In seguito ad altro complotto (792), a Niceforo, ritenuto il maggior responsabile furono strappati gli occhi; agli altri quattro fu data una pena ritenuta più mite: fu tagliata la lingua, e tutti furono imprigionati.

Dopo cinque anni  riuscirono a fuggire dalla prigione e a riparare nella chiesa di Santa Sofia, dove Niceforo, l’unico a poter parlare, mostrando al popolo in quali misere condizioni erano ridotti i figli dell’imperatore era quasi riuscito a sollevare la folla, quando un ministro, prontamente, con promesse, condusse i cinque fratelli nella chiesa del sacro palazzo da dove furono subito imbarcati e condotti ad Atene.

Anche da questa città essi non rinunciarono alle loro rivendicazioni. Avevano infatti trovato un funzionario slavo che gli promise di rimetterli in libertà e fargli acquistare il trono; ma non riuscirono ad ottenere aiuti in quanto il popolo ateniese parteggiava per Irene.

Da Atene i cinque fratelli furono trasferiti nelle prigioni dell’isola di Panormo, sul mar di Marmara, e poi, ancora, in seguito a una cospirazione contro Michele I (812), con la quale gli iconoclasti avevano progettato di mettere sul trono uno di essi, furono ulteriormente trasferiti ad Afusia. 

Costantino VI aveva sposato all’età di sette anni, per volere di Irene, una principessa della Paflagonia di nome Maria. La stessa Irene, diabolica nelle trame, aveva fatto in modo che Costantino fosse preso da passione per un’altra donna, Teodota, dama di corte, divenuta sua amante. Costantino aveva quindi ripudiato Maria (795) con l’accusa di cospirazione e aveva  sposato Teodota, celebrando le nozze con grande sfarzo, incoronandola e assegnandole il titolo di “augusta”. 

L'intento di Irene in questo intrigo era stato raggiunto: Costantino, con il suo comportamento sfrontato del duplice matrimonio, aveva suscitato la pubblica indignazione e quella del clero, particolarmente dei monaci non disposti ad accettare da parte dell’imperatore una qualsiasi contravvenzione ai rigidi precetti della Chiesa.

Per sposare Teodota, Costantino si era rivolto al patriarca Tarasio il quale, per andargli incontro, permise a un prete di nome Giuseppe di celebrare il rito.

Ma vi era un gruppo d’estremisti capeggiati dall'abate Platone, che si rivoltò contro il patriarca, accusandolo di tollerare una relazione che essi consideravano adulterina. Si crearono quindi due partiti con conseguente scisma detto “moicheanico” (da coloro che difendevano il secondo matrimonio e quindi l'adulterio: moicheia), e coloro che disapprovavano le seconde nozze, in cui si distinse Teodoro “Studita”(v. par. seguente) .

Costantino VI prese provvedimenti nei confronti dei monaci ribelli. Dopo averli fatti accecare, tagliare il naso e suppliziare a frustate, li fece chiudere in sacchi legati con  pietre e gettare in mare.

Teodoro era stato arrestato e con l’interessamento di Irene gli fu permesso di trasferirsi con la sua comunità a Studion (perciò detto Studita).

Tutto ciò rese evidente quanto Leone III e i suoi successori avessero visto giusto nel portare avanti l’opera di laicizzazione, e quanto questa avesse avuto carattere sociale e politico più che religioso e come i provvedimenti contro i monaci erano dettati da motivi politici più che religiosi.

I monasteri, come abbiamo già visto, erano ricchissimi e amministravano grandi proprietà immobiliari; ciò comportava il grande potere che essi potevano esercitare sull’imperatore e sulla corte. Il costante e abbondante flusso di denaro arrivava dalle offerte dei fedeli per i miracoli che costoro si attendevano dalle reliquie custodite dai monaci, ritenuti il tramite attraverso il quale le reliquie - vere o false - assicuravano il miracolo.

Irene, per la sua sete di potere, approfittò di questo clima di torbidi, per cacciare il figlio dal trono aiutata da un gruppo di funzionari e dal tradimento di alcuni intimi di Costantino che era riuscito a fuggire sulla costa asiatica.

Costoro andarono ad arrestarlo e lo condussero a palazzo; mentre Costantino dormiva nella sala  della porpora dov’era nato, lo pugnalarono atrocemente agli occhi (797). Secondo alcune fonti Costantino riuscì a sopravvivere e morì dimenticato in data imprecisata forse durante il regno di Irene. Secondo altri morì dissanguato tra atroci spasimi.

Con lui termina la breve dinastia isaurica il cui sangue si trasmetterà alla dinastia “frigia”attraverso la figlia di Costantino, Eufrosine, che sposerà l’imperatore Michele II (sotto).

Irene impossessatasi finalmente del trono, assunse  il titolo di basileùs-imperatore e i prelati chiusero gli occhi sul delitto commesso da Irene, restauratrice del culto delle immagini che il figlio Costantino aveva vietato.

Era la prima volta nella storia dell'impero, che una donna si appropriava di una carica riservata agli uomini, e per giunta, con il titolo al maschile, anziché al femminile (basilissa). I greci, per antica mentalità (ne parleremo quando tratteremo l’argomento dell’Antica Grecia nda.) non potevano accettare che una donna potesse sostituire un uomo, ritenendo che solo gli uomini potessero combattere e quindi fare i sovrani. Ne profittò il papa (Leone III) che, considerando il trono di Bisanzio vacante, incoronò (800) Carlo Magno, imperatore (v. in Articoli: Carlo Magno e l’idea dell’Europa).

Irene da sola, si era resa conto di trovarsi in una posizione vacillante e i suoi anni di regno furono disastrosi. A Corte avevano avuto il sopravvento le fazioni e due suoi consiglieri, gli eunuchi Stauracio ed Ezio, che tramavano tra di loro, in quanto l’uno voleva prevalere sull’altro (Ezio in particolare tramava per far eleggere imperatore suo fratello Leone).

Irene aveva  concesso sgravi fiscali ai monasteri e per guadagnarsi il favore del popolo aveva concesso sgravi anche alla popolazione, non tenendo conto delle necessità di bilancio: aveva abolito la tassa pagata dagli abitanti di Costantinopoli che era anche piuttosto alta; aveva ridotto i dazi d’importazione ed esportazione che venivano pagati alle dogane dei porti di Costantinopoli, Abido e Hierus, che costituivano una delle voci più importanti del bilancio statale, determinando il precipitare delle finanze, mentre lei viveva nel lusso sfrenato: attraversava le vie di Costantinopoli su un cocchio d’oro tirato da quattro cavalli bianchi  tenuti da quattro patrizi a piedi.

Questo periodo, fu contrassegnato anche da sconfitte diplomatiche e militari, con l’occupazione da parte degli slavi di tutto il Peloponneso, fino alla sua punta meridionale. Era il tempo del grande califfo di Bagdad, Arun ar Rashid, che aveva imposto a Bisanzio il pagamento di un pesante tributo annuo.

Con l’incoronazione di Carlo Magno (800) a imperatore d’Occidente (v. articolo cit.), si determinò il definitivo distacco dell’impero d’Occidente da quello d’Oriente.

Il tentativo di ricucitura, con un improbabile matrimonio tra Carlomagno e Irene (un precedente progetto di matrimonio tra Costantino VI e una figlia di Carlomagno, Rortrude (v. in Specchio dell’Epoca: Il gineceo di Carlomagno) , era saltato;  non ebbe alcun seguito, per il precipitare degli eventi. Quando i legati di Carlo giunsero a Costantinopoli, fecero solo in tempo ad assistere alla caduta  dell’imperatrice (802).

Del trono s’impadronì con una rivolta, Niceforo I Focas (802-11), logoteta-tesoriere  di palazzo (ministro delle finanze), il quale  indossata la porpora, bandì l’imperatrice (che aveva tentato un colpo di Stato anche contro Niceforo!), esiliandola in un monastero e negandole qualsiasi compenso di sostentamento, prima nell’isola di Prinkipos e poi a Lesbo dove morì in povertà lavorando con le proprie mani. (803).

L'imperatrice, dopo aver goduto le sue glorie terrene, ottenne anche quelle celesti. Nonostante  tutti i peccati di cui si era macchiata, le furono aperte (dagli uomini), con la santificazione, le porte del Paradiso, facendole godere in quel luogo eterno gli stessi onori di quelli di cui aveva goduto sulla terra.

 

*) Riproduzione dell’imperatrice Irene, particolare dal libro: La Pala d’Oro: Il tesoro di S. Marco edito sotto gli auspici della Fondazione Cini, da Canal & Stamperia-Venezia 1994

 

 

NICEFORO I FOCAS

STAURACIO - MICHELE I RHANGABE

 LEONE V L’ARMENO

 

N

iceforo I Focas (802-11) discendente del re arabo Jaballah di Ghassan, proveniva dalla casta della  burocrazia. Sotto Irene aveva raggiunto la carica di ministro delle finanze come logoteta-tesoriere e si era impadronito del trono, esiliando l’imperatrice.

Nella lotta tra Stato e Chiesa, che abbiamo visto condotta con l’avvicendamento e l’affermazione degl’iconoclasti prima dell’avvento d’Irene, e degl’ iconoduli ed il sopravvento della Chiesa sullo Stato con Irene, Niceforo I, convinto seguace dell’ortodossia, aveva lasciato cadere la questione delle immagini, pur rimanendo fedele alla politica iconodula dei suoi predecessori, ma si era mostrato fermo sulla sottomissione della Chiesa nei confronti dello Stato, particolarmente per quanto atteneva alla tassazione dei beni ecclesiastici.

Questo aveva provocato la reazione dei monaci estremisti (zeloti), quando l’imperatore, dopo la morte del patriarca Tarasio (806) aveva chiamato al seggio patriarcale il dotto storico Niceforo, il quale, come il suo predecessore, era un alto funzionario imperiale, versato sia nelle discipline mondane sia in teologia, e aveva scritto non solo opere storiche ma anche diverse opere in difesa del culto delle icone. I monaci zeloti invece contavano sulla elezione del loro capo, Teodoro Studita.

La reazione dei monaci si accentuò maggiormente quando l’imperatore riprese la polemica moicheanica sostenendo che l’imperatore non è soggetto ai vincoli del canone, e per confermare questa sua posizione, convocò un sinodo per far confermare la legittimità del matrimonio tra Costantino VI e Teodota (v. sopra), non solo, ma fece rientrare nella comunità il prete Giovanni che aveva celebrato il loro matrimonio. Tutto ciò accentuò la lotta con i monaci seguaci dello Studita, che si misero anche contro l’autorità ecclesiastica e vennero perseguitati dall’autorità statale.

I pilastri su cui si fondava l’impero bizantino erano l’amministrazione a cui faceva capo il sistema fiscale e l’esercito. Nel primo caso Irene aveva disamministrato, e Niceforo I anche per rimediare ai danni provocati dall’imperatrice e riassestare il pubblico demanio rivide le imposizioni fiscali procedendo a confische e imponendo imposte che colpirono tutti senza distinzione, ricchi, beni ecclesiastici e monasteri.

Per rendere giustizia a chi aveva subito dei torti a causa delle lotte di religione, istituì un tribunale nel palazzo Magnaura, ma, contemporaneamente colpì gli evasori fiscali delle province, confiscando i beni di coloro che avevano ammassato ricchezze in poco tempo; impose pagamenti a coloro che negli ultimi venti anni avevano fatto ritrovamenti archeologici di vasi, sostenendo che i vasi trovati erano pieni di monete d’oro; stabilì un regime di prezzi per i grandi armatori di Costantinopoli in grado di acquistare terre confiscate dalla corona a prezzi ufficiali; gli stessi vennero costretti a contrarre con lo Stato un prestito forzoso di dodici libbre d’oro, con pagamento in ragione di quattro keratia per ogni nomismata (pari al 16,66%); impose tasse sulle vendite di bestiame e sui prodotti agricoli; ordinò ai funzionari di trattare i vescovi e il clero “come schiavi”, sequestrando l’oro e l’argento degli ecclesiastici; acquartierò le truppe nei palazzi dei vescovi e nei monasteri (ai quali impose il kapnikon-focatico); impose agli acquirenti di schiavi nazionali che non pagavano i dazi ad Abido, il pagamento di due nomismata per capo (circa il 10% del valore); mirando ad impedire l’accumulo di ricchezze nelle mani di privati, impedì a costoro di prestare denaro ad (alto) interesse, operazione che veniva avocata dallo Stato (che faceva pagare ugualmente un alto interesse).

Con questa rigida legislazione fiscale non poteva suscitare le simpatie degli storici cristiani (Teofane, aveva indicato i provvedimenti fiscali, come ”le dieci malefatte dell’imperatore” mettendolo in cattiva luce). L’imperatore, invece proprio con queste disposizioni dimostrò di avere polso e di essere un ottimo monarca.

Niceforo, intraprese il riordino dei confini dell’impero, colonizzando i temi asiatici col trasferimento di abitanti dai temi europei e riorganizzò l’esercito, rivedendo il sistema dei temi inteso ad aumentare il numero degli “stratioti”(v. Cap. precedente) insufficiente per rinforzare l’esercito.

La proprietà assegnata allo “stratiota” era del valore di circa quattro libbre d’oro, sufficiente (scrive Ostrogorsky) per fornire un equipaggiamento, completo di cavallo, col quale lo stratiota si doveva presentare. Niceforo estese l’obbligo di presentazione anche ai poveri, al cui equipaggiamento doveva provvedere la comunità del villaggio che doveva versare 18 ½ nomisma per anno. Nel caso uno “stratiota” si fosse impoverito da non poter provvedere al proprio equipaggiamento, l’onere passava al villaggio. Lo stesso regime valeva anche per i soldati della marina.

Purtroppo Niceforo non fu  in grado di opporsi ad Harun ar Rashid che s’impossessò di alcune città dell’Asia minore.

Abbiamo visto che i territori italiani erano andati perduti con la costituzione dello stato pontificio, ed erano rimaste legate a Bisanzio parte della Campania, la Calabria la Sicilia (solo alcune città e fortezze) e la Puglia.

La conquista della Sicilia da parte degli arabi, avrà luogo poco per volta, città per città  iniziando da Mazara (827), Palermo (838), Messina (842), Enna-Castrogiovanni (859) e con Siracusa (878) la Sicilia passava tutta sotto la dominazione araba;rimasero legate a Bisanzio Taormina (che sarà presa nel 902) e parte della Puglia.

I bulgari facevano pressione, da una parte contro i serbi, per raggiungere il mare, dall’altra sulla Tracia (che diventerà Bulgaria). Niceforo, tentò per due volte di invaderla, volendo impossessarsene (807 e 808), ma fu respinto da Krum re dei bulgari.

Ritentò l’impresa nell’811 con un grosso esercito e Krum chiese la pace, ma Niceforo non volle accettare, e fu la sua fine. Dopo aver preso la città di Pliska e bruciato la reggia bulgara, l’esercito bizantino nell’inseguire Krum per le montagne, si era accampato imprudentemente in mezzo alle gole montane, per cui i bulgari ebbero facile gioco a bloccare le gole. Pare che Niceforo, abbia esclamato: “nemmeno con le ali potremo sfuggire alla distruzione”.

Tutto l’esercito fu effettivamente massacrato e Niceforo morì eroicamente col suo esercito. Krum gli fece tagliare la testa, che fece esporre per alcuni giorni, e poi, fatto rivestire il teschio in argento, con un cerchio d’oro, lo usò come coppa per bere.

Niceforo, aveva un figlio, Stauracio che egli aveva associato al trono (803) e dopo quattro anni aveva pensato di ammogliarlo organizzando un singolare concorso di bellezza; tra le più belle donne dell’impero. Era stata scelta Teofano (ateniese parente di Irene) che non era neanche vergine e meno bella di altre due concorrenti che Niceforo invece pensò bene di tenere per se.

Durante il regno di Niceforo, era stata fatta una profezia che riguardava i suoi tre principali ufficiali, Leone l’Armeno, Michele di Frigia e Tommaso di Cappadocia: di costoro, i primi due lo avrebbero seguito nella carica imperiale.

Niceforo invece aveva fatto progetti per  il figlio Stauracio (non contemplato nella profezia), che era rimasto gravemente ferito a Plinska. Il patriarca e gli alti funzionari, profittarono delle condizioni in cui  versava (morì nell’812) per farlo abdicare in favore di Michele alto funzionario (kuroplates) e cognato di Stauracio, (di cui aveva sposato la sorella Procopia), vicino agli ambienti estremisti degli adoratori delle immagini. Il suo cognome era Rhangabe, era il primo cognome riscontrato fra tutti gli imperatori che lo avevano preceduto.

Incoronato come Michele I (811-13), si mostrò debole nei confronti di tutti: esercito, corte e chiesa, e da tutti si lasciava influenzare, e a tutti elargiva denaro. Quanto alla Chiesa, richiamò dall’esilio gli studiti-zeloti che si riconciliarono con l’autorità ecclesiastica; revocò le decisioni del Concilio dell’809 ribadendo la scomunica del prete Giovanni e reintroducendo la condanna della corrente moicheanica; affascinato dalla personalità di Teodoro Studita ne subì l’influenza anche su questioni di guerra.

Durante il suo breve regno, Michele I portò a termine le trattative con Carlo Magno, per il riconoscimento del titolo di imperatore (basielùs) nei documenti ufficiali, rimaste bloccate con Niceforo I il quale aveva fatto interrompere i rapporti del patriarca Niceforo con il papa. In cambio del riconoscimento venivano dati in restituzione Venezia, le città marittime dell’Istria, della Liburnia e della Dalmazia. Era un prezzo alto che Carlo Magno fu ben lieto di pagare pur di ottenere il riconoscimento. Gli ambasciatori che si recarono ad Aquisgrana riconoscendolo monarca dell’Occidente (812) lo acclamarono sia in greco sia in latino e, mantenendo la finzione dell’unità tra Occidente e Oriente, indicarono il loro sovrano come  basileùs ton romaìon” (imperatore dei romani).

Michele I fu deposto dalle truppe (a seguito di una macchinazione del generale Leone l’Armeno), che disarmò col suo atteggiamento remissivo dicendo che non voleva che fosse versata neanche una goccia di sangue cristiano e consegnando le chiavi di Costantinopoli e del palazzo. Salvò in questo modo gli occhi e la vita, e divorziato dalla moglie Procopia finì i suoi giorni nel monastero dell’isola di Protes dove visse ancora per oltre trentadue anni. Leone, per evitare rivendicazioni, rese eunuchi i suoi tre figli.

Leone l'Armeno, come indicato dalla profezia, veniva  designato come Leone V (813-820) e sei giorni dopo l’incoronazione dovette respingere l’attacco di Krum ai sobborghi di Costantinopoli. L’indomabile Krum stava preparando un grosso esercito quando morì per la rottura di un vaso sanguigno (814). Gli succedette il figlio Omurtag, che firmò un trattato di pace trentennale (816) che servì a Leone V per mettere ordine sulla questione iconoclasta.

Leone riteneva che il culto delle immagini non avesse portato fortuna ai precedenti imperatori (da Irene a Michele I) che avevano tutti subito sconfitte militari ed era la prova che il culto non fosse gradito alla potenza divina. Egli nominò quindi una commissione presieduta dallo studioso Giovanni il Grammatico, col compito di preparare un documento sulla teologia iconoclasta.

Il patriarca Niceforo si rifiutò di prendere in esame il problema del culto delle immagini che riteneva già risolto dal settimo concilio (Nicea). Leone V pensò di convocare un concilio a Costantinopoli (815) nel quale cercò di convincere i padri riuniti, avvertendoli che non avrebbe tollerato la loro disobbedienza.

Molti però non ebbero timore di mostrare il loro rifiuto. Teodoro Studita gli disse apertamente che l’imperatore non aveva alcun diritto di intervenire sulle questioni ecclesiastiche che potevano essere decise solo dal clero autorizzato.

Il patriarca Niceforo veniva quindi deposto e sostituito dal patriarca Teodato Cassiteras. Un secondo concilio revocò le decisioni del 787, rimise  in vigore i decreti del 754, proibì la fabbricazione e l’uso delle immagini, precisando comunque che esse non sarebbero state considerate come “idoli”. Teodoro Studita cercò di coinvolgere il papa, ma ciò irritò l’imperatore che lo bandì con i suoi sostenitori, alcuni dei quali furono mandati a morte.

Un vecchio compagno d’arme dell’imperatore, Michele l’Amoriano o di Frigia (in quanto originario di Amorion in Frigia), comandante della guardia imperiale, ritenuto colpevole di tradimento era stato condannato ad essere bruciato vivo e nell’attesa era stato legato a una scimmia e gettato nella fornace dei bagni di palazzo, in attesa dell’esecuzione.

Nonostante tutte le precauzioni prese dall’imperatore che temeva di essere deposto, i suoi amici riuscirono a trucidarlo; indossati i paramenti sacri, si presentarono nella cappella di palazzo durante la funzione di Natale (820) alla quale assisteva l’imperatore e lo pugnalarono. Il patriarca che officiava, dopo aver sentito della sua uccisione, esclamava: la Chiesa perde un nemico, ma l’impero perde un gran principe.

Con Leone V si estingue la dinastia armena, seguita dalla dinastia frigia o amoriana, che segna il passaggio, tra le due più importanti dinastie, la isaurica e la macedone.

 

 

LA DINASTIA FRIGIA:

MICHELE II IL BALBO

 TEOFILO - MICHELE III L’UBRIACONE

 E LA NUOVA TEODORA

 

L

o stesso giorno di Natale in cui era stato assassinato Leone V, Michele di Frigia o l’Armoriano, come detto, e come previsto dalla profezia, in attesa di essere arso vivo, ancora con i ceppi  perché non si era trovato il fabbro che gli togliesse le catene, fu incoronato imperatore e dal patibolo si ritrovò sul trono col nome di Michele II, (820-829), detto il Balbo per congenita balbuzie.

Egli diede inizio alla dinastia frigia o amoriana, durata solo tre generazioni. Soldato rude, senza cultura ma con notevole forza di carattere e molto senso pratico, si trovò ad affrontare una rivolta civile scoppiata in Asia minore, già iniziata con Leone V, sotto la guida di Tommaso lo Slavo (820-23), suo generale (il terzo indicato nella profezia).

Tommaso aveva dato alla sua rivolta un carattere etnico-religioso-sociale, avendo attirato tra le sue fila varie etnie di arabi, persiani, armeni, iberi, ed altre etnie, assicurandosi anche l’appoggio dello sceriffo al Ma-mun e degli scontenti  iconofili e pauliciani, diseredati del popolo, dissidenti, schiavi, oppressi ed esattori scontenti che gli fornirono i fondi: Tommaso prometteva a tutti la liberazione dalle loro sofferenze.

Dopo essere stato incoronato imperatore ad Antiochia, Tommaso, che era giunto al punto di  raccontare di essere Costantino VI, figlio di Irene,  riuscì a bloccare Costantinopoli per mare e per terra, tenendola sotto assedio per un anno.

La città e l’organizzazione militare dell’imperatore riuscirono a resistere e nella primavera ((823)) giunse  in aiuto di Michele II, il khan dei bulgari Omurtag, figlio di re Krum, il peggior nemico di Bisanzio che disperse gli assedianti, mentre per mare le forze di Tommaso furono sconfitte dalla marina imperiale. Solo nell’ottobre Tommaso fu preso ad Arcadiopoli e dopo essere stato torturato e mutilato delle mani e dei piedi e così sanguinate portato in giro nelle vie di Costantinopoli su di un asino, fu ucciso con quelli del suo seguito.

Negli affari religiosi Michele II seguì Leone V nella politica iconoclasta ma in maniera moderata, con il ristabilimento dei decreti iconoclasti e la tolleranza per l’ortodossia. Egli aveva liberato tutti quelli che erano stati imprigionati e aveva fatto rientrare tutti gli esiliati, compresi Niceforo e lo Studita, affidando l’educazione del figlio all’iconoclasta Giovanni Grammatico, uno dei principali uomini di cultura dell’epoca..

Non abrogò invece la legge che vietava l’uso pubblico delle immagini e non volle fossero richiamati i concili del 754,787 e 815. Gli estremisti zeloti-studiti non accettarono queste condizioni e la proposta di una conferenza per riesaminare l’intera materia, insistendo per devolvere la decisione al papa.

Michele, essendo nel frattempo morto il patriarca Teodoto Melisseno (821), nominava il vescovo Antonio Sileo, che era stato consigliere iconoclasta di Leone V.

Lo Studita, sempre in fermento continuava ad affermare la competenza del papa sulle questioni ecclesiastiche e teologiche; ne fece le spese il siciliano Metodio che gli aveva portato un’ammonizione del papa sul problema delle icone, che fece tanto infuriare l’imperatore da farlo fustigare e rinchiudere in prigione (fu l’unico eccesso compiuto dall’imperatore che successivamente gli concesse la grazia e Metodio divenne patriarca).

Michele II per avere il consenso di Roma, mandò  ambasciatori presso  Ludovico il Pio, al   quale si rivolse (con condiscendenza per il titolo di imperatore), chiamandolo “regi francorum et longobardorum vocato eorum imperatori” (al re dei franchi e longobardi, da essi chiamato imperatore), al quale, nel far presente di credere nei sei concili generali e nelle reliquie, indicava gli eccessi e gli abusi nel culto delle immagini, onorate con ceri, incensi e preghiere e dell’eucaristia spesso distribuita usando le icone o mescolata  con polvere da esse grattata.

Ludovico riunì un sinodo a Parigi (825) che condannò il culto delle immagini, criticò il papa Adriano I che aveva approvato il “credo” (787) ma censurò anche gli iconoclasti  per il fatto che non tolleravano la presenza delle immagini nelle chiese.

Era la posizione  assunta dal concilio di Francoforte (794) riunito da Carlo Magno (v. in Specchio dell’Epoca: Libri carolini, culto delle immagini e iconoclastia), che veniva ratificato. Michele II ne rimase deluso e continuò nella politica di tolleranza adottata fin dall’inizio della sua elezione.

Michele II, dalla prima moglie che aveva perduto, aveva avuto un figlio di nome Teofilo. Egli su richiesta del senato, aveva sposato Eufrosine, figlia di Costantino VI che viveva in un monastero, dalla quale si aspettava altri figli che Eufrosine non potette dargli. Alla sua morte gli succedeva quindi il figlio Teofilo (829-842) allevato nelle raffinatezze della corte e nell’amore per l’arte e la cultura trasmessagli dal colto Giovanni Grammatico il quale,  tra l’altro, gli aveva incultato anche l’amore per la cultura araba.

Teofilo era dotato di un forte senso di giustizia che lo portava ad ascoltare le lamentele della povera gente e punire i colpevoli senza troppi riguardi per la classe alla quale essi appartenevano. Proseguì nella riorganizzazione dei “temi” formandone di nuovi (Paflagonia e Candia) e nei territori montagnosi dei confini arabi (Anatolia e Armenia) istituì tre nuove circoscrizioni militari-amministrative dei “passi di montagna” (kleisourai) che diventarono anch’esse “temi” e le città bizantine della Crimea vennero riunite in un unico  tema” con sede dello stratega a Cherson.

In questo periodo, su richiesta del khan dei chazari gli architetti bizantini costruirono la fortezza di Sarkel alla foce del Don che era un monumento della tecnica da essi raggiunta.

Era l’epoca dell’espansione araba e Teofilo, nonostante la sua ammirazione per la loro arte e cultura, dovette affrontare guerre, prima con il califfo al-Ma-mun (813-33) che conquistava Palermo (831) e poi con il fratello al-Mu’tasim che gli era succeduto e che occupò Ancira e rase al suolo Amorion (838), la città natale dell’imperatore Michele II e di provenienza della famiglia imperiale; l’imperatore stesso al comando dell’esercito era stato sconfitto. L’anno successivo (389) gli arabi prendevano Taranto, dividendo la Calabria in due e sconfissero anche la flotta veneziana che era accorsa in aiuto dei bizantini (840). In quest’anno Teofilo riuscì a raggiungere  con al-Mu’tasim una tregua.

Teofilo era iconoclasta come il suo maestro Giovanni Grammatico, divenuto patriarca (832) e iniziò anch’egli la persecuzione degli iconoduli, particolarmente indirizzata nei confronti dei monaci, emanando un editto con il quale proibiva la fabbricazione delle immagini.

Fino a Teofilo gl’imperatori avevano proceduto tutti sulla strada riformista iniziata da Costantino V. Sebbene inclini a tollerare il culto delle immagini essi si mostrano  fermi sul punto principale della sottomissione della chiesa  ricorrendo alle misure estreme nei confronti dei monaci recalcitranti, imprigionandoli, o esiliandoli e confiscandone i beni

Con Teofilo ebbe fine l’epoca degli iconoclasti e nell’impero si ristabiliva l’unità religiosa e la Chiesa greca acquistava un carattere più nazionale così delineatosi dopo lo scisma di Fozio (v. sotto).

Teofilo aveva spiccato il senso della giustizia e nello stesso tempo nel sangue la crudeltà raffinata dei satrapi orientali e le sue punizioni erano  originali. A una donna che si lamentava della costruzione di un palazzo vicino alla sua casa, che con l’altezza la privava di aria e di luce, l’imperatore le donò l’intero palazzo. Puniva severamente i suoi ministri prefetti, questori, capitani delle guardie o con l’esilio o mutilandoli o facendoli immergere nella pece bollente o facendoli bruciare nell’ippodromo. Un risvolto originale, nella crudeltà, ebbe la punizione  inflitta a due fratelli palestinesi, Teodoro e Teofane (poeta noto per i versi in lode delle icone), che dopo essere stati fustigati ed esiliati furono richiamati nella speranza di convincerli a condannare l’uso delle icone. Ma i due fratelli non accettarono, e dopo essere stati bastonati gli furono impressi col fuoco sulla fronte dei versi iconoclasti. A un altro monaco che non voleva cessare l’attività di dipingere icone, furono bruciate le mani con tizzoni ardenti.

Sia l’imperatore sia il patriarca non ebbero molto seguito nella loro lotta iconoclasta che era già in crisi e alla morte dell’imperatore (842) essa crollò definitivamente con l’avvento di Teodora.

Per il matrimonio di Teofilo fu organizzato un concorso di bellezza (che sarà poi copiato dai russi per i matrimoni imperiali) di tutte le ragazze nobili dell’impero. Passandole in rassegna con una mela d’oro in mano, Teofilo si fermò davanti a una concorrente di nome Icasia alla quale l’imperatore non avendo altro da dire, disse che le donne erano state causa di molti mali. La bella Icasia ebbe la prontezza di rispondere: Ma anche molto bene. La risposta non piacque all’imperatore che assegnò la mela a un’altra concorrente, Teodora che alla sua morte regnerà per conto del figlio Michele, di tre anni.

Fu in questo periodo che ebbe inizio l’epoca d’oro della rinascita culturale bizantina. Con Teofilo Bisanzio gareggiava con Bagdad per lo splendore  degli edifici, il lusso del Sacro Palazzo, la grandezza della civiltà; la letteratura e l’arte incominciavano a prendere forza e ad avviarsi verso una grande rinascita.

Con la morte di Teofilo, Teodora assumeva le reggenza su Michele III che aveva tre anni (842-867), reggenza che Teodora tenne con saggezza per quattordici anni, con un consiglio di reggenza di cui facevano parte i fratelli dell’imperatrice, Bardas e Petronas, Sergio Nicetiate e il logoteta Teoctisto che aveva servito gli imperatori Michele II e Leone V. Vi faceva parte anche la sorella maggiore di Michele, Tecla, ma costei  veniva tenuta lontana dal governo.

Con Teodora aveva termine la lotta iconoclastica (protrattasi dal 711 all’843), in quanto Teodora, come primo atto politico dichiarava solennemente il culto delle immagini, annunciato dal Concilio da lei indetto l’anno successivo (843) facendo celebrare da quel momento, ogni anno, “la festa dell’Ortodossia”, e sostituendo Giovanni Grammatico con il patriarca Metodio, ortodosso  di stretta osservanza.

Ma cessate le lotte iconoclastiche, insorsero quelle interne con gli zeloti di Teodoro Studita contro il patriarca Metodio che scomunicò gli studiti. Alla morte di Metodio salì sul seggio patriarcale Ignazio figlio di Michele II Rangabe che alla morte del padre era stato evirato e messo in convento, il quale aveva tendenze favorevoli agli zeloti e pur senza volerlo fu trascinato nella lotta contro Fozio che sostituirà Ignazio (858).

Cessate però le lotte religiose interne, si acuiscono i rapporti tra la Chiesa orientale e quella occidentale come vedremo più avanti (par. Fozio) .

Michele III era stato bollato dalla storiografia della chiesa come Costantino V, facendolo apparire come essere spregevole, dedito ai vizi e al vino, perciò detto  l'Ubriacone, accusandolo di lasciare il governo nella mani dei suoi favoriti, che avvicendandosi in continuazione non avevano fatto altro che procurare danni. Con i favoriti era stato accusato di aver dissipato, durante i tredici anni di regno, tutto il tesoro imperiale, fino a mettere in vendita i preziosi ornamenti del palazzo e delle chiese. Sempre secondo gli storici ecclesiastici, Michele III  frequentatore del circo, dove si fronteggiavano azzurri e verdi (v. Cap. III par. Azzurri e verdi), partecipando per gli azzurri, premiava gli aurighi più abili, e offriva loro e accettava banchetti, passava  le sue notti nelle orge, e preso dai fumi dell’alcol dava ordini sanguinari che i suoi servi non eseguivano. Il suo maggior divertimento sarebbe stata la derisione della religione. Un buffone di corte si vestiva come il patriarca e i suoi dodici metropoliti, tra i quali l’imperatore con gli abiti sacerdotali e avrebbero usato i vasi sacri e somministrato la comunione con un miscuglio di senape e aceto. Nel giorno di una festa solenne, durante una processione del patriarca l’imperatore con i suoi amici, a cavallo di asini avrebbero portato scompiglio nella processione con lazzi e oscenità.

Mentre il regno di Michele III era stato screditato dagli scrittori ecclesiastici, quello di Teodora era invece stato screditato dagli uomini di Michele III, che avevano criticato ciò che di buono era stato fatto da Teodora.

Ma il periodo di Teodora e di Michele III, anche per meriti non propri di costoro ma degli uomini che dirigevano l’impero (quindi a Bardas e all’onnipotente Teoctisto Briennio), è ritenuto da Ostrogorsky come “ il periodo in cui i segni della prossima grande rinascita politica dell’impero diventano chiaramente visibili. Lo sviluppo culturale che si andava preparando  già durante la reggenza giunge alla sua grande fioritura e appare in tutta la sua grandezza la forma d’irradiazione e l’attività della cultura bizantina”.

Teoctisto poco alla volta aveva allontanato Bardas dal potere e dalla corte (843). Uomo colto e di grande erudizione aveva riorganizzato l’esercito e per mare la flotta formata da trecento vascelli che riconquistava Creta (843) ccupata dagli arabi e Damietta (853) in Egitto; la sua accorta politica finanziaria assicurava all’impero grandi riserve auree. 

L’epoca del grande slancio  della svolta politica e della rinascita culturale dell’impero avvenne dall’ 856, quando Michele fece un colpo di stato contro Teodora che interferiva anche nella sua vita privata (l’anno precedente lo aveva forzato a separarsi da Eudocia Ingerina per costringerlo a sposare Eudocia Decapitolissa), escludendola dal governo.

Bardas d’accordo con Michele era tornato a corte e aveva ucciso Teoctisto e Michele assumeva così il potere. Michele metteva quindi la direzione degli affari di stato nelle mani dello zio Bardas, nominato cesare,  uomo colto e letterato per merito del quale  l’università di Costantinopoli ricostituita nel palazzo  Magnaura  (intorno all’850), era tornata a diventare centro della cultura bizantina. Quivi venivano coltivate tutte le scienze profane essendo stati chiamati tutti gli uomini di scienza dell’impero sotto la direzione del matematico Leone, dalla cultura enciclopedica, nipote di Giovanni Grammatico, e dove insegnava anche Fozio, il più grande studioso del secolo.

Il fratello Petronas fu nominato domestikos delle scholai (generale e capo della guardia palatina). Petronas era ottimo capitano e riportò due vittorie (863) sull’emiro di Melitene, ‘Omar che fu ucciso con un migliaio dei suoi uomini, e a Mayyafariqin con la sconfitta del governatore dell’Armenia, Al’ ibn Yayhya, anch’egli ucciso.

Queste vittorie diedero prestigio all’imperatore che rafforzati i confini orientali doveva ora regolare i rapporti con la Moravia, la Bulgaria e l’impero russo che in quel tempo era in formazione (v. in Specchio dell’epoca: La formazione dell’antico Stato russo).

L’occasione fu data  dalla richiesta del principe di Moravia  Rotislav (v. in Schede: Scismi e riti in Oriente: La Chiesa slava) di missionari e gli furono mandati Costantino-Cirillo di Tessaglia col fratello Metodio che la cristianizzarono con il rito ortodosso (all’epoca la Moravia costituita da un vasto territorio  comprendente la Boemia, la Slovacchia, la Pannonia, la Polonia minore e parte della Slesia), ma successivamente (921) il rito ortodosso sarà abbandonato per quello latino.

Cirillo si era recato in precedenza a Cherson, centro della popolazione dei chazari che aveva fornito molte spose agli imperatori di Bisanzio e aveva subito influenze da parte di ebrei che convivevano con loro e qui egli imparò l’ebraico e lo slavo, e oltre alla traduzione della Bibbia in questa lingua, aveva creato un nuovo alfabeto per gli slavi che non avevano una propria scrittura (glacolitico-cirillico).

Dopo la Moravia fu il turno della Bulgaria che si era rivolta invece ai Franchi, ma Bisanzio intervenne immediatamente e il principe Boris (864) fu battezzato col rito ortodosso col nuovo nome di Michele, tenuto a battesimo da Michele III che gli fece da padrino.

Questo avvenimento che in pratica aveva sottratto la Bulgaria alla influenza del papa, non aveva fatto altro che inasprire i rapporti tra Roma e Bisanzio, mentre Fozio si ergeva a difensore  non solo dell’indipendenza della Chiesa ma anche degli interessi dell’impero, sostenuto da Michele III e da Bardas.

In questa circostanza l’imperatore aveva chiesto al papa di revocare il suo giudizio contro Fozio. Infatti quando era stato eletto papa Nicolò I (858-867) si era pronunciato a favore di Ignazio ritenendo la elezione di Fozio irregolare (v. sotto) e aveva mandato due suoi emissari a Costantinopoli i quali, di fronte alla forza argomentativa di Fozio, capitolavano, sottomettendosi al giudizio di un Concilio (861) che confermava la nomina di Fozio e la destituzione di Ignazio. Ma Nicolò I così sconfessato fece emettere un giudizio opposto da un Sinodo convocato in Laterano (863). Seguì uno scambio di lettere tra l’imperatore e il papa mentre Fozio soffiava sul fuoco attaccando la dottrina della Chiesa romana sulla processione  dello Spirito Santo dal Padre  e dal Figlio come eretica (mentre per gli ortodossi lo Spirito Santo procedeva dal Padre attraverso il Figlio). Riunì inoltre un sinodo a Costantinopoli (867)  che condannò come eretico Nicolò I e la dottrina di Roma, dichiarando illegali le intrusioni della Chiesa di Roma sulla bizantina.

Durante questi avvenimenti, per il giovane imperatore l’ora della fine si stava avvicinando. Tra i suoi favoriti stava emergendone uno con particolari doti, di nome Basilio, che voleva giungere ancora più in alto e aveva  tolto di mezzo tutti i suoi rivali, giungendo fino a Bardas che era secondo subito dopo l’imperatore. Basilio, come vedremo nel prossimo capitolo, era riuscito a far credere all’imperatore che Bardas tramava contro di lui e durante  una campagna militare lo uccise davanti ai suoi occhi (866).

 Michele quindi nominava Basilio co-imperatore al posto di Bardas. Al ritorno a Costantinopoli, Michele, che non era un campione di costanza, incominciò a cambiare atteggiamento nei confronti di Basilio e aveva dato i calzari di porpora a Basiliciano (il gesto  presupponeva la nomina a cesare), ma Basilio lo prevenne. Offrendogli un banchetto nrlla residenza imperiale di San Mama sull’altro versante del Corno d’Oro, dopo averlo fatto ubriacare, Michele si era ritirato per riposare. Basilio entrò nella camera con i suoi soldati; Michele ebbe la forza di alzarsi e stando in piedi, sebbene stordito dall’alcol si rese perfettamente conto  che il suo migliore amico stava per assassinarlo.

Impadronendosi dell’impero, Basilio regnerà col nome di Basilio I: con lui ha inizio la nuova dinastia che va sotto il nome di dinastia macedone.

 

 

FOZIO

E L’INIZIO DELLA CRISI

TRA LE DUE CHIESE

 

A

bbiamo visto come l’imperatrice Teodora aveva chiamato a Costantinopoli il monaco Ignazio, fratello dell’imperatore Michele I, che con altri monaci si era sottratto alla persecuzione degli iconoclasti, nominandolo patriarca (840). Ignazio, rigidamente osservante e studita, denunciava il ministro Bardas, fratello di Teodora (che ricopriva la carica di co-reggente in quanto faceva parte del consiglio di reggenza) di Michele III. Bardas aveva divorziato dalla moglie e conviveva con la vedova del figlio: un tale rapporto da Ignazio era considerato incestuoso.

L’invito a desistere da questa relazione, non era stato accolto e Ignazio bandì il ministro dalla Chiesa. Bardas a sua volta, bandì Ignazio, nominando (858)al suo posto  Fozio (820 c.a - 891), in quanto un fratello di Fozio di nome Sergio, aveva sposato Irene, sorella dell’imperatrice Teodora, la madre  di Michele III.

Fozio (827-898), è uno dei grandi personaggi della cultura bizantina, dalla vivace intelligenza e formidabile memoria (v. Schede La chiesa ortodossa. anche nota 3) oltre ad essere politico eminente era il diplomatico più accorto che avesse rivestito la carica di patriarca. Lo possiamo considerare grande umanista e quindi, data l’epoca un precursore dell’umanesimo che, in Oriente si era sviluppato alcuni secoli prima dell’Occidente.

Fozio insegnava all’università di Costantinopoli ed era maestro di filologia, scienza e filosofia e consentiva ai suoi studenti libero accesso alla sua casa e alla sua biblioteca.

Oltre ad essere un brillante oratore, aveva una prodigiosa memoria che gli aveva consentito di scrivere un libro (Miriobiblion-Biblioteca) in cui aveva recensito duecentosettantanove libri da lui letti, molti dei quali sono andati perduti e della cui conoscenza l’umanità gli deve profonda gratitudine.

La sua cultura lo poneva a livelli superiori, con aperture di vedute che lo portavano ad avere rapporti di amicizia con musulmani. Era infatti amico dell’emiro di Creta, per cui la sua nomina a patriarca di Costantinopoli, dal popolo, e dallo stesso clero, fu ritenuta scandalosa.

Egli ricopriva la carica di primo segretario di stato e protostatario. Bardas, nell’estromettere Ignazio (858), aveva designato Fozio, che al momento era laico, per cui la sua nomina fu considerata un’offesa dal clero di Costantinopoli. Nel frattempo veniva convocato un Concilio che convalidava  l’estromissione di Ignazio e la nomina di Fozio (861).

Fozio, presi gli ordini, fu consacrato da Gregorio Asbesta, metropolita di Siracusa (che in precedenza era stato scomunicato).

L’elezione comunque doveva essere convalidata da Roma, e Fozio mandava messi dal papa, al quale riferiva (falsamente), di aver dovuto assumere l’incarico, in quanto Ignazio vi aveva rinunziato. 

Ignazio, dal suo canto, non avendo accettato la sua estromissione, aveva fatto appello al papa (Nicola I), il quale inviava due legati, Rodoaldo e Zaccaria, incaricati di procedere a una inchiesta, con due lettere, una per l’imperatore Michele III, l’altra per Fozio.

Il papa, nelle lettere diceva che non vi era nessuna questione ecclesiastica in cui il papa non dovesse esprimere il suo parere, mostrandosi contrario alla nomina di Fozio. Egli ordinava quindi all’imperatore di reintegrare Ignazio, ma Bardas minacciava di far intervenire l’esercito.

A seguito di tale minaccia Nicola I scrisse una energica lettera all’imperatore in cui, non solo  gli rinfacciava la sua arrendevolezza ma la debolezza stessa del suo esercito, che, diceva il papa, non era stato in grado di fronteggiare  gli slavi e i saraceni, permettendo l’invasione di Creta, della Sicilia, della Grecia, delle chiese dei sobborghi di Costantinopoli bruciate dai pagani e i territori che impunemente avevano conquistato, bruciato e devastato, “mentre noi cattolici cristiani siamo minacciati dal terrore delle vostre armi”. “Voi” , terminava il papa, “liberate Barabba e uccidete Cristo”.   

Fozio fece riunire dall’imperatore un altro Concilio (non indicato ufficialmente negli annali) che scomunicava il papa (867), in cui veniva affermata la parità dei patriarchi di Costantinopoli ai pontefici, accusando di eterodossia la Chiesa occidentale e denunciando le eresie della Chiesa romana che aveva introdotto nel Credo latino, “tra cui il procedere dello Spirito Santo dal padre e dal figlio (filioque)”, e non ultima, “l’usanza che i preti occidentali avevano di radersi, oltre all’osservanza ad essi imposta dell’obbligo del celibato”.

Erano tutte le premesse per la scissione che sarà apertamente dichiarata nel 1054 per tutti i secoli a venire (v. Schede: La chiesa ortodossa).

Nicolò I, venuto a conoscenza di questi fatti, riuniva un Sinodo che condannava l’operato dei legati, dichiarando nulle le deliberazioni su Ignazio e Fozio che aveva fatto apparire il suo caso personale come operato del concilio, e quindi, si accentuava l’ostilità di Roma diretta nei confronti della Chiesa greca e della corte imperiale.

A questo punto la stella di Fozio incomincia a tramontare, quando, essendo stati uccisi Bardas e l’imperatore Michele III,  prendeva  il potere Basilio I.

Il nuovo imperatore, al momento del colpo di stato, avendo bisogno del sostegno della Chiesa di Roma fece rientrare Ignazio, e Fozio fu invitato a ritirarsi in un convento (867).

Nel frattempo Basilio aveva consolidato il suo potere, e aveva chiamato a corte Fozio ma solo perché facesse da precettore al figlio. Alla morte di Ignazio, reinsediò Fozio nel seggio patriarcale  riuscendo, questa volta, ad ottenere per la sua riabilitazione anche l’assenso di Roma, sancita da un ulteriore Concilio (879).

Eletto però il nuovo papa,Giovanni VIII,  scomunicava Fozio (881), il quale avrà il  sostegno dell’imperatore.

Solo con l’imperatore Leone VI la stella di Fozio tramonterà definitivamente, perché questa volta per il seggio patriarcale era in ballo la nomina a patriarca del fratello dell’imperatore, Stefano. Fozio terminerà la sua brillante e intensa vita, spegnendosi in un oscuro monastero (898 circa).

 

*) Secondo l’originario credo del Concilio di Nicea (325) lo Spirito Santo procede dal Padre (“ex patre procedit”), attraverso il Figlio (per filium) mentre il credo di Toledo (589), aveva modificato la formula nel senso che lo Spirito Santo procede dal padre e dal figlio (“ex patre filioque procedit”).

 

 

 

 FINE

 

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segue Cap.VII