Costantino VI presiede il Concilio di Nicea
Miniatura - Biblioteca Vaticana
I MILLE ANNI
DELL’IMPERO BIZANTINO
TRA INTRIGHI,COMPLOTTI
E COLPI DI STATO
MICHELE DUCAS-PUGLIA
CAP. VI
SOMMARIO.
LEONE III E
P |
rima
dell’avvento di Leone III, l’impero aveva avuto venti anni di
anarchia con rivolte e disordini. Ai confini gli arabi avevano espropriato i
bizantini di tutta l’Africa settentrionale (693-698); avevano ripreso
l’Armenia, devastate
All’interno
la legalità non era rispettata e regnava il caos. In queste condizioni,
il popolo era demoralizzato non trovando protezione nella legge.
Nell’esercito mancava la disciplina e le province erano in continuo stato
di ribellione.
Leone
III Isaurico (717-741),
pressoché analfabeta, violento e autoritario, mise ordine a questo stato
di cose. Era uomo di grande
levatura, con non comuni
capacità in campo militare,
diplomatico, amministrativo, economico-finanziario, e legislativo.
Aveva
iniziato la sua carriera sotto Giustiniano II (v. cap. precedente) e proveniva
dalle montagne dell’Isauria: il padre aveva offerto cinquecento pecore
per la sua assunzione nell’esercito imperiale (prezzo elevatissimo, ma si
rivelò un ottimo investimento!), in cui percorse i vari gradi,
segnalandosi per valore e destrezza. L’imperatore Anastasio gli aveva
conferito il comando delle legioni dell’Anatolia e i soldati lo elevarono
alla suprema carica.
Appena
eletto si trovò ad affrontare un massiccio attacco degli arabi che
avevano occupato l’Anatolia ed erano giunti a Costantinopoli (717-718),
riuscendo a respingerli, e scacciando il pericolo arabo dall’Europa ne
aveva ricavato grande prestigio.
Relativamente
ai temi, rivide la impostazione dei
territori da cui erano costituiti riducendoli a undici (7 asiatici e 4
europei), sia per rendere più efficace la loro difesa, sia per diminuire
il potere degli strateghi che li reggevano. Riprese le redini
dell’esercito ricostituendone la disciplina e riorganizzando anche la
marina. Aveva il talento dello statista e svolse un’intensa
attività legislativa. Emanò un codice militare, un codice nautico
(Nòmos nautikòs), e per l’agricoltura un codice rurale
(Nòmos georgikòs v. in Schede).
Riordinò
quindi tutte le principali norme del Corpus
juris di Giustiniano, nella materia civile, penale e nei contratti
più frequenti, aggiornandolo alle necessità del momento, emanando
l’Ekloga-Compendio (scritta in
greco).
In
materia penale, come è stato accennato in precedenza, venivano per la
prima volta codificate le pene corporali
che derivavano da consuetudini orientali, quali il taglio del naso,
della lingua, della mano, l'accecamento, il taglio o il bruciamento dei
capelli, l'evirazione. Queste pene, accompagnate da pene pecuniarie,
sostituivano più umanamente,
la pena di morte.
Leone
III è rimasto comunque famoso, nella storia bizantina, per aver iniziato
a combattere (726), le
immagini (v. in Schegge: Libri Carolini ecc.).
Egli
non aveva una cultura religiosa, ma probabilmente (come scrive Gibbon) il
contatto con arabi ed ebrei, avevano infuso in quel marziale montanaro,
l’odio per le immagini e volle combatterle considerandole “idoli”, come quelli condannati
dalla Bibbia. In pratica, come abbiamo già detto, Leone III aveva dato
un taglio diverso a tutte le precedenti diatribe religiose, rivolgendole
direttamente contro le immagini.
Le
sue intenzioni non erano religiose ma esclusivamente politiche. Il problema
principale era che i monasteri avevano accumulato grandi ricchezze immobiliari
ed erano esenti dal pagamento delle imposte. Alla grande ricchezza dei
monasteri, si accompagnava un grande potere e popolarità dei monaci.
Egli,
con la collaborazione dei vescovi Tommaso di Claudiopoli e Costantino di
Nacolia, convinti iconoclasti (come
dire: fondamentalisti), suoi
consiglieri, emanò un decreto (726) col quale proibiva il culto delle
immagini e ne ordinava la rimozione dalle chiese e dai luoghi pubblici.
Aveva
iniziato facendo togliere un maestoso crocifisso dalla porta bronzea del
palazzo reale. I funzionari incaricati dell'operazione, saliti sulle scale,
furono fatti cadere al suolo dalla folla inferocita che diede inizio a una
rivolta immediatamente repressa. Il patriarca di Costantinopoli, Germano,
protestò energicamente, ma fu immediatamente sostituito. Vi furono
rivolte in Grecia e nelle isole; molti iconoduli,
subirono mutilazioni o furono esiliati e i loro beni confiscati.
Si
disse anche, malignamente, che Leone, non essendo riuscito a convincere gli
insegnanti dell'università alla sua causa, li avesse fatti rinchiudere e
fatto appiccare il fuoco all'istituto e alla biblioteca.
RIPERCUSSIONI IN ITALIA E
NASCITA
DELLO STATO PONTIFICIO
L |
’Italia
era in buona parte sotto la dominazione bizantina con Venezia, l’Esarcato
di Ravenna e Pentapoli (formata da cinque città dipendenti
dall’esarcato: Rimini, Pesaro, Fano, Senigallia e Ancona), oltre al
ducato di Roma e all’Italia meridionale e Sicilia compresa
Il
dissidio si aggravò con l’editto di Leone III (726), in quanto il
papa invitò tutta l’Italia a non osservarlo. Gregorio II,
appoggiato dalle milizie romane e dai duchi longobardi di Spoleto e Benevento
spodestò il duca imperiale che risiedeva a Roma e altrettanto fece con
quelli della Pentapoli e di
Venezia.
Nell’esarcato
di Ravenna, l’esarca Paolo, per eseguire gli ordini di Costantinopoli
aveva mandato funzionari greci che furono accecati o uccisi o scacciati, e
l’esarca perse la vita (728).
Gregorio
che non desiderava che i longobardi si affermassero nei territori occupati,
diede ordine alle popolazioni di rimanere fedeli all’imperatore
bizantino, pur respingendo la lotta alle immagini che fu condannata da un
Sinodo appositamente convocato (729).
Il
re dei longobardi Liutprando (affiancato da Ildebrando) colse l’occasione
per marciare contro Ravenna, proseguendo per la Pentapoli e giungendo alle
porte di Roma si impadronì
di Sutri (che faceva parte del ducato di Roma). Gregorio II vi si
recò per supplicarlo e lo impietosì a tal punto che Liutprando
accompagnatolo a Roma, ed entrato col papa nella basilica, depose sulla tomba
di Pietro e Paolo il suo manto reale, l’usbergo, il pugnale, la spada dorata,
la corona d’oro, la croce d’argento e donò anche la
città di Sutri: fu l’inizio dell’acquisizione dei territori
dello Stato pontificio che si verificherà fra qualche anno.
Leone
III per contrastare il papa, emise
un secondo editto (730) col quale, rincarando la dose, estendeva il
divieto al culto delle reliquie e alle preghiere ai santi.
Nel frattempo
Gregorio II moriva (731) e gli succedeva Gregorio III (†
741) che si trovò a lottare
contro Liutprando e contro Leone III per l’iconoclastia per la quale
riunì un Sinodo (731), che affermando il culto delle immagini,
condannava l’iconoclastia con la scomunica scomunicando l’imperatore.
Leone III
mandò una flotta in Italia che doveva riportare ordine e nello stesso
tempo doveva impadronirsi del papa. Ma la flotta fu dispersa da una tempesta.
A questo punto
Leone III prese due gravi decisioni: dispose il sequestro del patrimonio della
Chiesa nell’Italia meridionale, in Sicilia, in Dalmazia e nell’Illirico
e la sottrazione della giurisdizione patriarcale romana che passò
direttamente a Costantinopoli, ma Leone III non riusciva più a tenere
sotto controllo la situazione in Italia.
Nel resto
dell’impero, nonostante le feroci reazioni dei monaci, con la situazione
sotto controllo da parte dell’imperatore, tutto rimase nell’ambito
della controversia tra iconoclasti e iconoduli.
Le cose
però, peggiorarono dopo la morte di Leone III (741), con la successione
del figlio Costantino V, il quale per combattere gli arabi e i bulgari (v.
sotto), dovette trascurare l’Italia.
In Italia ne
approfittarono i longobardi che avevano attraversato tutti i territori
bizantini e Liutpando sebbene avesse donato al papa Sutri, era rimasto nel
territorio romano con le sue truppe, tenendo occupate alcune città del
ducato. Gregorio III, preoccupato, aveva inviato ambasciatori con doni e una
lettera a Carlo Martello per chiedere aiuto, ma durante le trattative morivano
sia il papa Gregorio III sia Carlo Martello (741).
A Gregorio III
succedeva il papa Zaccaria (741-752) il quale si recò da Liutprando a
Terni e lo convinse a restituire le città occupate. Liutprando trattenne per sé i ducati di
Spoleto, dove fece rinchiudere il duca Trasimondo in un convento, e di
Benevento dove il duca Gregorio veniva trucidato a furor di popolo, sostituendo
i due duchi con suoi amici e rientrando,
rioccupava città della Romagna, invadendo l’Esarcato.
Nel frattempo
Liutprando moriva e i longobardi deposto Ildebrando, elevavano al comando
Rachis (744) duca del Friuli. Anche Rachis
rioccupava l’Esarcato ma il papa riuscì a commuoverlo a tal
punto che Rachis andò a chiudersi nel convento di Montecassino (dove si
trovava anche Carlomanno fratello di Pipino, ambedue figli di Carlo Martello).
Carlo Martello, Maestro di Palazzo dei merovingi (v. Cronologie:
Carolingi; Merovingi), aveva due figli, Carlomanno e Pipino III, che gli
succedettero nella carica il primo come Maggiordomo d'Austrasia, il secondo di
Neustria. Per rafforzare la loro posizione, i due fratelli avevano pensato di
riformare la chiesa franca con l'aiuto del vescovo Bonifacio. A seguito
dell'abdicazione di Carlomanno (che si ritirava in convento), Pipino diventa
Maestro di Palazzo anche d'Austrasia. E' lui che in pratica esercita il potere
e a questo punto ritiene sia giunto il momento di assumere definitivamente il
posto del re merovingio.
Egli ha bisogno però del riconoscimento della Chiesa. Il
vescovo Bonifacio invia quindi al papa Zaccaria due suoi delegati (Fulrado e
Burcardo), richiedendo “se gli
fosse lecito chiamarsi re”. I delegati tornano con il benestare del
papa, secondo il quale “conveniva
chiamare re chi detiene il potere, piuttosto che colui che tale potere non ha”.
Riuniti tutti i grandi a Soissons, Pipino III si fece eleggere re dei Franchi
(751) mentre Childerico III e il figlio Teodorico furono chiusi in convento.
Ad evitare che la sua nomina fosse considerata usurpazione (quale
era!), i suoi consiglieri ecclesiastici, sulla base degli insegnamenti della
Bibbia, secondo cui il profeta Samuele aveva unto Saul e David, gli suggerirono
la consacrazione mediante l'unzione, somministrata
a Pipino dai vescovi. Egli però di questa unzione non era soddisfatto
perché voleva fosse fatta dal papa.
Pipino approfittò dell' occasione di una visita al regno
franco del nuovo papa Stefano II (754) per farla rinnovare nella cattedrale di
saint Denis, non solo per sé, ma ad evitare rivendicazioni da parte dei
merovingi, anche per i due figli, Carlomanno e Carlo (v. Articoli: Carlomagno e
l'idea dell'Europa).
Con questa consacrazione il re
unto diventava l'eletto di Dio,
mentre per tutti i predecessori era valso il principio secondo il quale il
potere dei re era stato “concesso
da Dio”, e da quel momento, per tutti i secoli a venire, i papi con
la consacrazione di re e imperatori, acquisirono il potere esclusivo di far da
tramite per l'elezione, che proveniva
direttamente da Dio.
Pipino consacrato re e
divenuto anche patrizio romano, aveva
ora l’obbligo di difendere la santa sede e in cambio (era stato scritto,
per cancellare il suo senso di colpa per l’usurpazione in danno dei
merovingi) pensò di donare al papa i territori dell’Esarcato e
della Pentapoli, ora sotto il re longobardo Astolfo.
La richiesta fatta a
quest’ultimo di cedere i territori con una somma di dodicimila soldi
d’oro ottenne un rifiuto, sì che Pipino giunse al passo di Susa
(754) con un grosso esercito. Astolfo a questo punto cedette e donò a
Pipino quei territori (*), Pipino a sua volta li donò al papa, tenendoli
associati all’impero franco.
*) Ravenna, Rimini, Pesaro Cesena, Fano,
Senigallia Jesi, Forlinpopoli, Forlì col castello di Sassubio,
Montefeltro, Aceragio, Monlucati, Serra, Castel san Mariano, Bobro, Urbino ,
Cagli, Luculi, Agubio, Comacchio, Narni , i territori del primo nucleo dello Stato pontificio, erano quindi, oltre al
ducato di Roma, occupato dal papa,
formato dai territori del Lazio (Etruria e Sabina), e l’Esarcato
di Ravenna con
I territori rimanenti rimasero sottoposti
all’imperatore, mentre Venezia e Napoli sceglievano duchi locali, affrancandosi
così da Bisanzio.
COSTANTINO V E
LEONE IV IL CHAZARO
A |
lla
morte di Leone III (741), il figlio Costantino V (detto spregiativamente Copronimo o Caballino 741-775), proseguiva
nella politica di laicizzazione dello Stato iniziata dal padre.
Costantino
V, non solo mantenne i decreti emanati dal padre, ma fece indire un Concilio a
Hieria (753), che proclamò il culto delle immagini contrario alla
religione cristiana, con anatema contro coloro che difendevano il culto,
considerati eretici. e dei funzionari ed ecclesiastici (tra i principali
difensori vi erano il patriarca Germano e Giovanni Damasceno)., Molti furono
colpiti da condanne capitali mentre i beni degli ecclesiastici e dei monasteri furono confiscati. Molti
monaci preferirono emigrare recandosi nel sud Italia dove fondarono monasteri e
scuole e creando nuovi centri di cultura greca.
Gli
scrittori cristiani si vendicarono dell’imperatore diffamandolo, non solo
col soprannome di Copronimo
cioé “lordo di sterco”
(perché quando fu battezzato aveva sporcato il fonte battesimale!) o Caballino (vale a dire staffiere in quanto costoro pulivano lo
sterco dei cavalli),ma rivolgendogli
accuse che per la loro enormità si smentivano da sole (Gibbon scrive di
“averle tutte copiate con
pazienza” ma purtroppo non le ha indicate nel suo testo), facendone
l’imperatore più diffamato della storia bizantina.
Essi
però non riuscirono a togliergli la grande popolarità di cui
aveva goduto anche dopo la sua morte, perché Costantino V era stato un
imperatore saggio, valido legislatore, scrittore di teologia (aveva scritto
tredici testi teologici) e ottimo generale: il suo acume strategico lo aveva
portato alle vittorie contro gli arabi, bloccando i loro tentativi di
invasione, e i bulgari, e per questo era spassionatamente amato dai suoi
soldati. Aveva rafforzato i confini orientali sistemando in Bitinia circa
duecentomila slavi fuggiti dalla Bulgaria; aveva costretto il khan dei bulgari,
Telerig, che voleva invadere la Tessaglia (contro il quale aveva riportato una
sanguinosa e definitiva vittoria nel 763 nei pressi di Anchialo), a firmare la
pace (che non fu duratura e i bulgari dovette combatterli fino alla sua morte),
anche se aveva dovuto trascurare e perdere i territori italiani (v. sopra);
erano però rimasti a Bisanzio buona parte dell’Italia meridionale
con
Costantino
V non aveva il fisico forte del padre, era delicato, soffriva varie malattie;
era nervoso, (oggi si direbbe
nevrotico), di natura psicologica instabile, complessa e contraddittoria,
provava un gusto morboso a torturare i suoi avversari iconoduli, costringendo i
monaci a sposarsi con gran pompa, bruciando loro le barbe e costringendoli a
passeggiare nell’ippodromo con le mogli a fianco.
Aveva
dovuto far fronte a un colpo di Stato del cognato Artavasde (Leone III gli aveva
dato in moglie la figlia, sorella di Costantino V), che profittando della sua
assenza quando era andato a combattere contro gli arabi (nel tema di Opsikion),
si era eretto a difensore del culto delle immagini facendosi eleggere
imperatore, nominando il figlio maggiore Niceforo co-imperatore, e
l’altro figlio Niceta comandante supremo dell’armata che
mandò in Armenia.
Costantino
V dopo aver sconfitto Artavasde a Sardi (743) andò incontro a Niceta
mettendolo in fuga a Modrina (agosto). Tornando a Costantinopoli (settembre),
dopo un breve assedio entrava in città, e fece accecare Artavasde con i
suoi due figli, Niceforo e Niceta, esposti poi nell'ippodromo.
Il
patriarca Anastasio, che aveva preso parte attiva alla rivolta e nella chiesa
di Santa Sofia aveva accusato l’imperatore di avergli detto che “il figlio di Maria non era che uomo e Maria
lo aveva messo al mondo come mia madre, me”, fu flagellato e
pubblicamente umiliato: era stato messo su di un asino con la testa rivolta
verso la coda dell’asino. Gli fu concesso, comunque, di continuare a
ricoprire la carica di patriarca. Gli altri seguaci di Artavasde, furono in
parte giustiziati, in parte mutilati e accecati.
Durante
il suo regno vi furono terremoti che sconquassarono l’Asia e distrussero
molte città; nel mese di agosto (763) vi fu una eclissi solare che aveva
oscurato l’aria, da far sembrare il giorno, notte; nell’inverno i
due mari gelarono fino a cento miglia dalla riva e la neve si innalzo sul
ghiaccio per venti cubiti (circa un metro), e quando sgelò, grossi iceberg si abbatterono su
Costantinopoli; anche una cometa a forma di trave e portatrice di sventure,
apparve per dieci giorni a occidente e poi per ventuno giorni a oriente.
Scoppiò quindi la peste, prima in Calabria e Sicilia, poi giunse attraverso le isole Egee in Grecia e quindi a Costantinopoli dove
mieté vittime per tre anni interi.
Il
regno del figlio, Leone IV (775-780), detto il Chazaro (dalla provenienza della madre, figlia del khan dei chazari che ribattezzata aveva
preso il nome di Irene, cioè pace),
era stato di transizione e segna il passaggio tra l’apogeo della
iconoclastia raggiunta con il padre e la restaurazione delle immagini che
sarà operata da Irene.
COSTANTINO
VI
IRENE
E IL
CONCILIO DI NICEA
L’imperatrice Irene
Pala d'oro -particolare - s. Marco
-Venezia*
C |
ostantino
V aveva fatto sposare al figlio
Leone, Irene, orfanella della iconofila
Atene, che non aveva altra dote che il proprio corpo, ma si rivelerà
energica e ambiziosa e, quanto a trame e ferocia non sarà da meno dei
maschi imperatori.
Leone
IV, dopo essersi riconciliato per breve periodo con il partito monastico e aver
nominato dei monaci, vescovi in importanti sedi metropolitane, successivamente
alla morte del patriarca Niceta, eunuco slavo, e alla consacrazione del nuovo
patriarca Paolo di Cipro, riprese la persecuzione contro gli adoratori delle immagini.
Avendo
scoperto nascosre nella camera della moglie (780) due immagini alle quali essa
rendeva segretamente il suo culto, in un raptus
di risentimento fece immediatamente uccidere coloro che nella reggia avevano
introdotto questo culto.
Si
accingeva a far processare Irene per mandarla a morte, quando era stato
attratto da una corona adorna di gemme, appartenuta all’imperatore
Maurizio, che Irene “aveva
consacrato al Crocifisso”:…volle metterla sulla propria testa e
dopo averla presa tutte le parti delle mani e della testa che avevano toccato
la corona si ricoprirono di pustole livide e Leone, preso da febbre alta, dopo
poche ore moriva!
Chi
non avrebbe pensato ad un potente veleno? Invece gli storici cristiani avevano
attribuito il fatto a un “miracolo”
...ignorando che chi aveva dato una mano al “miracolo”, era stata proprio Irene, che, morto il
marito, si fece subito incoronare col figlio Costantino VI (780-797),Porfirogenito (nato cioè nella
sala della porpora quando il padre era imperatore) di dieci anni,regnando prima
col figlio e poi prendendo nelle sue mani tutta l'autorità dell'impero
(797-802). Ad evitare rivendicazioni
da parte dei fratelli del defunto imperatore Leone IV, li aveva
costretti tutti a farsi monaci e prendere gli ordini sacri.
Irene
provvide a restituire ai monasteri molti degli immobili che erano stati
espropriati. In questo periodo(787) fu realizzata la riforma dei loro
ordinamenti, (riforma che aveva anticipato di alcuni secoli quella che in Europa sarà la riforma operata a
Cluny) e convocò il Concilio di Nicea, settimo
e ultimo dei Concili ortodossi riconosciuti.
Il
Concilio si aprì inizialmente (786), nella chiesa dei santi Apostoli a
Costantinopoli. Esso però fu interrotto dalle guardie del reggimento
della guardia imperiale fedeli al giuramento fatto all’imperatore
Costantino V. L’imperatrice non si lasciò scoraggiare:
sostituì le truppe iconoclaste col pretesto di una campagna contro gli
arabi, con quelle a lei fedeli che fece venire a Costantinopoli, trasferendo il
Concilio a Nicea (787).
Il
Concilio, con la presenza di Costantino VI (che aveva raggiunto i diciassette
anni e lo vediamo nella riproduzione riportata all’inizio di questo
articolo), fu presieduto dal patriarca Tarasio e ad esso parteciparono 350 vescovi, con due
rappresentanti del papa (ambedue di nome Pietro), due delegati dei tre
patriarchi d’Oriente impediti dall’occupazione araba e una
moltitudine di monaci.
I
lavori si svolsero in sette sessioni e nella conclusione prevalse
l’indirizzo moderato. Relativamente alle questioni di fede il Concilio
condannò l’iconoclastia come eresia, ordinò la distruzione
degli scritti iconoclasti restaurando il culto delle immagini e dispose
l’ammissione nell’ortodossia degli iconoclasti che ritrattarono l’eresia
di fronte all’assemblea.
Circa
questa ammissione, per evitare che chi riservava il culto alle immagini cadesse
nell’idolatria, seguendo le orme di Giovanni Damasceno, fu affermato il
principio della “venerazione”
non diretta all’immagine ma alla persona da essa rappresentata che, era
stato precisato, non ha niente a che vedere con l’ ”adorazione” riservata a Dio; alla
immagine invece, erano riservati solo “onore” e “riverenza”.
I
monaci erano su posizioni più estreme e non condividendo questa
soluzione, giunsero a discussioni violente, provocando una spaccatura. Questa
divisione continuerà in tutta la storia della chiesa bizantina, da una
parte, con i monaci “zeloti”
(integralisti) che volevano attenersi rigorosamente alle prescrizioni canoniche
rifiutando ogni compromesso; dall’altra, con i c.d. “politici”, che mediava tra la
ragion di Stato e la situazione politica del momento e collaborava con il
potere temporale (fino a quando però questo fosse rimasto
nell’ortodossia), e non era contrario ai compromessi.
La
questione ebbe ulteriore approfondimento nella materia “cristologica” (v. Schede: Le dottrine cristologiche). La
distinzione fatta dagli iconofili relativamente alle immagini, portava alla
“cristologia nestoriana”
(delle due nature distinte: umana e divina), la loro risposta fu che “l’immagine di Cristo non era che la raffigurazione del Verbo che
si era fatto carne e aveva abitato tra noi”.
L’immagine di un uomo, essi sostenevano, non
cerca affatto di mostrare la sua anima o la sua carne e il suo corpo o i
singoli elementi che lo compongono, e certamente chi osserva l’immagine,
si guarderà bene dal pensare che l’esecutore abbia inteso separare
il corpo dall’anima. Analogamente l’immagine di Cristo incarnato
non può essere guardata come se in essa la natura umana fosse separata
da quella divina.
Chi contempla l’immagine di
Cristo, anche se lo vede nella sua forma umana, non separa la sua natura umana
da quella divina, anzi rivolge il suo pensiero alla divinità che rimane
invisibile e che non può essere rappresentata, in quanto
l’immagine della rappresentazione partecipa solo del nome e non della
sostanza del suo prototipo.
Le
decisioni del Concilio di Nicea non erano state accolte da Carlomagno che aveva
riunito il Concilio di Francoforte, non accettando né l’una
né l’altra tesi, ma accogliendo la soluzione che si rifaceva alla
precedente posizione del papa Gregorio I (590-604), secondo la quale le
immagini non vanno né adorate né distrutte (v. Specchio
dell’Epoca: Libri Carolini ecc.).
Irene
aveva allontanato dall’amministrazione civile, militare e religiosa tutti
gli iconoclasti, onorando come martiri tutti quelli che avevano sofferto sotto
di loro. Quanto al trono, il figlio Costantino, pur avendo un carattere debole, raggiunta la
maggiore età, voleva governare per conto proprio. Egli aveva esiliato la
madre, confinandola ad Atene, sua città d’origine, ma Irene era
riuscita ad intrigare tanto da convincere il figlio della sua assoluta sottomissione,
ma tornata a Costantinopoli e
ripreso il suo posto, ricominciò nelle sue trame.
Costantino
VI aveva dovuto far fronte a una congiura da parte dei suoi zii, fratellastri
del padre, capeggiati da Niceforo, ma era riuscito a sventarla.
Costoro
erano nati dal secondo matrimonio di Leone IV e avevano prestato giuramento
nelle sue mani che avrebbero
vegliato sulla sua sicurezza. Non era la prima volta che questi cinque fratelli
complottavano per impadronirsi del trono.
Il
motivo delle loro trame era dovuto al fatto che i due maggiori, Niceforo e
Cristoforo, avevano ottenuto il titolo di “cesare”, e gli altri tre (Niceta, Antimio e Eudocimo) quello
di “nobilissimi”, il cui
significato era quello di essere destinati alla successione; mentre Leone
associandosi come co-imperatore il figlioletto Costantino, li escludeva. Non
solo, ma li aveva anche privati di un sostanzioso legato (Gibbon lo aveva
calcolato in duemilioni di sterline).
Fu così che essi incominciarono a complottare contro il giovanissimo
nipote.
Non
appena morto Leone IV (780), i cinque fratelli erano stati al centro di un
complotto di iconoclasti, inteso a mettere sul trono Niceforo. I capi furono
umiliati ed esiliati, i fratelli furono rasati e costretti ad indossare la
tonaca. In seguito ad altro complotto (792), a Niceforo, ritenuto il maggior
responsabile furono strappati gli occhi; agli altri quattro fu data una pena
ritenuta più mite: fu tagliata la lingua, e tutti furono imprigionati.
Dopo
cinque anni riuscirono a fuggire
dalla prigione e a riparare nella chiesa di Santa Sofia, dove Niceforo,
l’unico a poter parlare, mostrando al popolo in quali misere condizioni
erano ridotti i figli dell’imperatore era quasi riuscito a sollevare la
folla, quando un ministro, prontamente, con promesse, condusse i cinque
fratelli nella chiesa del sacro palazzo da dove furono subito imbarcati e
condotti ad Atene.
Anche
da questa città essi non rinunciarono alle loro rivendicazioni. Avevano
infatti trovato un funzionario slavo che gli promise di rimetterli in
libertà e fargli acquistare il trono; ma non riuscirono ad ottenere
aiuti in quanto il popolo ateniese parteggiava per Irene.
Da
Atene i cinque fratelli furono trasferiti nelle prigioni dell’isola di
Panormo, sul mar di Marmara, e poi, ancora, in seguito a una cospirazione
contro Michele I (812), con la quale gli iconoclasti avevano progettato di
mettere sul trono uno di essi, furono ulteriormente trasferiti ad Afusia.
Costantino
VI aveva sposato all’età di sette anni, per volere di Irene, una
principessa della Paflagonia di nome Maria. La stessa Irene, diabolica nelle
trame, aveva fatto in modo che Costantino fosse preso da passione per
un’altra donna, Teodota, dama di corte, divenuta sua amante. Costantino
aveva quindi ripudiato Maria (795) con l’accusa di cospirazione e
aveva sposato Teodota, celebrando
le nozze con grande sfarzo, incoronandola e assegnandole il titolo di “augusta”.
L'intento di Irene in questo intrigo era stato raggiunto: Costantino, con il suo comportamento sfrontato del duplice matrimonio, aveva suscitato la pubblica indignazione e quella del clero, particolarmente dei monaci non disposti ad accettare da parte dell’imperatore una qualsiasi contravvenzione ai rigidi precetti della Chiesa.
Per
sposare Teodota, Costantino si era rivolto al patriarca Tarasio il quale, per
andargli incontro, permise a un prete di nome Giuseppe di celebrare il rito.
Ma vi era un gruppo d’estremisti capeggiati dall'abate Platone, che si rivoltò contro il patriarca, accusandolo di tollerare una relazione che essi consideravano adulterina. Si crearono quindi due partiti con conseguente scisma detto “moicheanico” (da coloro che difendevano il secondo matrimonio e quindi l'adulterio: moicheia), e coloro che disapprovavano le seconde nozze, in cui si distinse Teodoro “Studita”(v. par. seguente) .
Costantino VI prese
provvedimenti nei confronti dei monaci ribelli. Dopo averli fatti accecare,
tagliare il naso e suppliziare a frustate, li fece chiudere in sacchi legati
con pietre e gettare in mare.
Teodoro
era stato arrestato e con l’interessamento di Irene gli fu permesso di
trasferirsi con la sua comunità a Studion (perciò detto Studita).
Tutto
ciò rese evidente quanto Leone III e i suoi successori avessero visto
giusto nel portare avanti l’opera di laicizzazione, e quanto questa
avesse avuto carattere sociale e politico più che religioso e come i
provvedimenti contro i monaci erano dettati da motivi politici più che
religiosi.
I monasteri, come abbiamo
già visto, erano ricchissimi e amministravano grandi proprietà
immobiliari; ciò comportava il grande potere che essi potevano
esercitare sull’imperatore e sulla corte. Il costante e abbondante flusso
di denaro arrivava dalle offerte dei fedeli per i miracoli che costoro si
attendevano dalle reliquie custodite dai monaci, ritenuti il tramite attraverso
il quale le reliquie - vere
o false - assicuravano il miracolo.
Irene,
per la sua sete di potere, approfittò di questo clima di torbidi, per
cacciare il figlio dal trono aiutata da un gruppo di funzionari e dal
tradimento di alcuni intimi di Costantino che era riuscito a fuggire sulla
costa asiatica.
Costoro
andarono ad arrestarlo e lo condussero a palazzo; mentre Costantino dormiva
nella sala della porpora dov’era nato, lo
pugnalarono atrocemente agli occhi (797). Secondo alcune fonti Costantino
riuscì a sopravvivere e morì dimenticato in data imprecisata
forse durante il regno di Irene. Secondo altri morì dissanguato tra
atroci spasimi.
Con
lui termina la breve dinastia isaurica il cui sangue si trasmetterà alla
dinastia “frigia”attraverso
la figlia di Costantino, Eufrosine, che sposerà l’imperatore
Michele II (sotto).
Irene
impossessatasi finalmente del trono, assunse il titolo di basileùs-imperatore
e i prelati chiusero gli occhi sul delitto commesso da Irene, restauratrice del
culto delle immagini che il figlio Costantino aveva vietato.
Era
la prima volta nella storia dell'impero, che una donna si appropriava di una
carica riservata agli uomini, e per giunta, con il titolo al maschile,
anziché al femminile (basilissa).
I greci, per antica mentalità (ne parleremo quando tratteremo
l’argomento dell’Antica
Grecia nda.) non potevano accettare che una donna potesse sostituire un
uomo, ritenendo che solo gli uomini potessero combattere e quindi fare i
sovrani. Ne profittò il papa (Leone III) che, considerando il trono di
Bisanzio vacante, incoronò (800) Carlo Magno, imperatore (v. in
Articoli: Carlo Magno e l’idea
dell’Europa).
Irene
da sola, si era resa conto di trovarsi in una posizione vacillante e i suoi anni
di regno furono disastrosi. A Corte avevano avuto il sopravvento le fazioni e
due suoi consiglieri, gli eunuchi Stauracio ed Ezio, che tramavano tra di loro,
in quanto l’uno voleva prevalere sull’altro (Ezio in particolare
tramava per far eleggere imperatore suo fratello Leone).
Irene
aveva concesso sgravi fiscali ai
monasteri e per guadagnarsi il favore del popolo aveva concesso sgravi anche
alla popolazione, non tenendo conto delle necessità di bilancio: aveva
abolito la tassa pagata dagli abitanti di Costantinopoli che era anche
piuttosto alta; aveva ridotto i dazi d’importazione ed esportazione che
venivano pagati alle dogane dei porti di Costantinopoli, Abido e Hierus, che
costituivano una delle voci più importanti del bilancio statale,
determinando il precipitare delle finanze, mentre lei viveva nel lusso
sfrenato: attraversava le vie di Costantinopoli su un cocchio d’oro
tirato da quattro cavalli bianchi
tenuti da quattro patrizi a piedi.
Questo
periodo, fu contrassegnato anche da sconfitte diplomatiche e militari, con
l’occupazione da parte degli slavi di tutto il Peloponneso, fino alla sua
punta meridionale. Era il tempo del grande califfo di Bagdad, Arun ar Rashid,
che aveva imposto a Bisanzio il pagamento di un pesante tributo annuo.
Con
l’incoronazione di Carlo Magno (800) a imperatore d’Occidente (v.
articolo cit.), si determinò il definitivo distacco dell’impero
d’Occidente da quello d’Oriente.
Il
tentativo di ricucitura, con un improbabile matrimonio tra Carlomagno e Irene
(un precedente progetto di matrimonio tra Costantino VI e una figlia di
Carlomagno, Rortrude (v. in Specchio dell’Epoca: Il gineceo di
Carlomagno) , era saltato; non ebbe
alcun seguito, per il precipitare degli eventi. Quando i legati di Carlo
giunsero a Costantinopoli, fecero solo in tempo ad assistere alla caduta dell’imperatrice (802).
Del
trono s’impadronì con una rivolta, Niceforo I Focas (802-11), logoteta-tesoriere di palazzo (ministro delle finanze), il
quale indossata la porpora,
bandì l’imperatrice (che aveva tentato un colpo di Stato anche
contro Niceforo!), esiliandola in un monastero e negandole qualsiasi compenso
di sostentamento, prima nell’isola di Prinkipos e poi a Lesbo dove
morì in povertà lavorando con le proprie mani. (803).
L'imperatrice,
dopo aver goduto le sue glorie terrene, ottenne anche quelle celesti.
Nonostante tutti i peccati di cui
si era macchiata, le furono aperte (dagli uomini), con la santificazione, le
porte del Paradiso, facendole godere in quel luogo eterno gli stessi onori di
quelli di cui aveva goduto sulla terra.
*) Riproduzione dell’imperatrice
Irene, particolare dal libro:
NICEFORO I FOCAS
STAURACIO - MICHELE I RHANGABE
LEONE V L’ARMENO
N |
iceforo
I Focas (802-11) discendente del re arabo Jaballah di Ghassan, proveniva dalla
casta della burocrazia. Sotto Irene
aveva raggiunto la carica di ministro delle finanze come logoteta-tesoriere e si era impadronito del trono, esiliando
l’imperatrice.
Nella
lotta tra Stato e Chiesa, che abbiamo visto condotta con l’avvicendamento
e l’affermazione degl’iconoclasti prima dell’avvento
d’Irene, e degl’ iconoduli ed il sopravvento della Chiesa sullo Stato
con Irene, Niceforo I, convinto seguace dell’ortodossia, aveva lasciato
cadere la questione delle immagini, pur rimanendo fedele alla politica
iconodula dei suoi predecessori, ma si era mostrato fermo sulla sottomissione
della Chiesa nei confronti dello Stato, particolarmente per quanto atteneva
alla tassazione dei beni ecclesiastici.
Questo
aveva provocato la reazione dei monaci estremisti (zeloti), quando l’imperatore, dopo la morte del patriarca
Tarasio (806) aveva chiamato al seggio patriarcale il dotto storico Niceforo,
il quale, come il suo predecessore, era un alto funzionario imperiale, versato
sia nelle discipline mondane sia in teologia, e aveva scritto non solo opere
storiche ma anche diverse opere in difesa del culto delle icone. I monaci zeloti invece contavano sulla elezione
del loro capo, Teodoro Studita.
La
reazione dei monaci si accentuò maggiormente quando l’imperatore
riprese la polemica moicheanica sostenendo
che l’imperatore non è soggetto ai vincoli del canone, e per
confermare questa sua posizione, convocò un sinodo per far confermare la
legittimità del matrimonio tra Costantino VI e Teodota (v. sopra), non
solo, ma fece rientrare nella comunità il prete Giovanni che aveva
celebrato il loro matrimonio. Tutto ciò accentuò la lotta con i
monaci seguaci dello Studita, che si misero anche contro
l’autorità ecclesiastica e vennero perseguitati
dall’autorità statale.
I
pilastri su cui si fondava l’impero bizantino erano
l’amministrazione a cui faceva capo il sistema fiscale e
l’esercito. Nel primo caso Irene aveva disamministrato, e Niceforo I
anche per rimediare ai danni provocati dall’imperatrice e riassestare il
pubblico demanio rivide le imposizioni fiscali procedendo a confische e
imponendo imposte che colpirono tutti senza distinzione, ricchi, beni
ecclesiastici e monasteri.
Per
rendere giustizia a chi aveva subito dei torti a causa delle lotte di
religione, istituì un tribunale nel palazzo Magnaura, ma,
contemporaneamente colpì gli evasori fiscali delle province, confiscando
i beni di coloro che avevano ammassato ricchezze in poco tempo; impose
pagamenti a coloro che negli ultimi venti anni avevano fatto ritrovamenti
archeologici di vasi, sostenendo che i vasi trovati erano pieni di monete
d’oro; stabilì un regime di prezzi per i grandi armatori di
Costantinopoli in grado di acquistare terre confiscate dalla corona a prezzi
ufficiali; gli stessi vennero costretti a contrarre con lo Stato un prestito
forzoso di dodici libbre d’oro, con pagamento in ragione di quattro keratia per ogni nomismata (pari al 16,66%); impose tasse sulle vendite di bestiame
e sui prodotti agricoli; ordinò ai funzionari di trattare i vescovi e il
clero “come schiavi”,
sequestrando l’oro e l’argento degli ecclesiastici;
acquartierò le truppe nei palazzi dei vescovi e nei monasteri (ai quali
impose il kapnikon-focatico); impose
agli acquirenti di schiavi nazionali che non pagavano i dazi ad Abido, il
pagamento di due nomismata per capo
(circa il 10% del valore); mirando ad impedire l’accumulo di ricchezze
nelle mani di privati, impedì a costoro di prestare denaro ad (alto)
interesse, operazione che veniva avocata dallo Stato (che faceva pagare
ugualmente un alto interesse).
Con
questa rigida legislazione fiscale non poteva suscitare le simpatie degli
storici cristiani (Teofane, aveva indicato i provvedimenti fiscali, come
”le dieci malefatte
dell’imperatore” mettendolo in cattiva luce).
L’imperatore, invece proprio con queste disposizioni dimostrò di
avere polso e di essere un ottimo monarca.
Niceforo,
intraprese il riordino dei confini dell’impero, colonizzando i temi asiatici col trasferimento di
abitanti dai temi europei e
riorganizzò l’esercito, rivedendo il sistema dei temi inteso ad aumentare il numero
degli “stratioti”(v. Cap.
precedente) insufficiente per rinforzare l’esercito.
La
proprietà assegnata allo “stratiota”
era del valore di circa quattro libbre d’oro, sufficiente (scrive
Ostrogorsky) per fornire un equipaggiamento, completo di cavallo, col quale lo stratiota si doveva presentare. Niceforo
estese l’obbligo di presentazione anche ai poveri, al cui equipaggiamento
doveva provvedere la comunità del villaggio che doveva versare 18
½ nomisma per anno. Nel caso
uno “stratiota” si fosse
impoverito da non poter provvedere al proprio equipaggiamento, l’onere
passava al villaggio. Lo stesso regime valeva anche per i soldati della marina.
Purtroppo
Niceforo non fu in grado di opporsi
ad Harun ar Rashid che s’impossessò di alcune città
dell’Asia minore.
Abbiamo
visto che i territori italiani erano andati perduti con la costituzione dello
stato pontificio, ed erano rimaste legate a Bisanzio parte della Campania,
La
conquista della Sicilia da parte degli arabi, avrà luogo poco per volta,
città per città iniziando da Mazara (827), Palermo (838),
Messina (842), Enna-Castrogiovanni (859) e con Siracusa (878)
I
bulgari facevano pressione, da una parte contro i serbi, per raggiungere il
mare, dall’altra sulla Tracia (che diventerà Bulgaria). Niceforo,
tentò per due volte di invaderla, volendo impossessarsene (807 e 808),
ma fu respinto da Krum re dei bulgari.
Ritentò
l’impresa nell’811 con un grosso esercito e Krum chiese la pace, ma
Niceforo non volle accettare, e fu la sua fine. Dopo aver preso la città
di Pliska e bruciato la reggia bulgara, l’esercito bizantino
nell’inseguire Krum per le montagne, si era accampato imprudentemente in
mezzo alle gole montane, per cui i bulgari ebbero facile gioco a bloccare le
gole. Pare che Niceforo, abbia esclamato: “nemmeno con le ali potremo sfuggire alla distruzione”.
Tutto
l’esercito fu effettivamente massacrato e Niceforo morì eroicamente
col suo esercito. Krum gli fece tagliare la testa, che fece esporre per alcuni
giorni, e poi, fatto rivestire il teschio in argento, con un cerchio
d’oro, lo usò come coppa per bere.
Niceforo,
aveva un figlio, Stauracio che egli aveva associato al trono (803) e dopo
quattro anni aveva pensato di ammogliarlo organizzando un singolare concorso di bellezza; tra le più
belle donne dell’impero. Era stata scelta Teofano (ateniese parente di
Irene) che non era neanche vergine e meno bella di altre due concorrenti che
Niceforo invece pensò bene di tenere per se.
Durante
il regno di Niceforo, era stata fatta una profezia che riguardava i suoi tre
principali ufficiali, Leone l’Armeno, Michele di Frigia e Tommaso di
Cappadocia: di costoro, i primi due lo avrebbero seguito nella carica
imperiale.
Niceforo
invece aveva fatto progetti per il
figlio Stauracio (non contemplato nella profezia), che era rimasto gravemente
ferito a Plinska. Il patriarca e gli alti funzionari, profittarono delle
condizioni in cui versava
(morì nell’812) per farlo abdicare in favore di Michele alto
funzionario (kuroplates) e cognato di
Stauracio, (di cui aveva sposato la sorella Procopia), vicino agli ambienti
estremisti degli adoratori delle immagini. Il suo cognome era Rhangabe, era il
primo cognome riscontrato fra tutti gli imperatori che lo avevano preceduto.
Incoronato
come Michele I (811-13), si mostrò debole nei confronti di tutti:
esercito, corte e chiesa, e da tutti si lasciava influenzare, e a tutti
elargiva denaro. Quanto alla Chiesa, richiamò dall’esilio gli studiti-zeloti che si riconciliarono con
l’autorità ecclesiastica; revocò le decisioni del Concilio
dell’809 ribadendo la scomunica del prete Giovanni e reintroducendo la
condanna della corrente moicheanica; affascinato dalla personalità di
Teodoro Studita ne subì l’influenza anche su questioni di guerra.
Durante
il suo breve regno, Michele I portò a termine le trattative con Carlo
Magno, per il riconoscimento del titolo di imperatore (basielùs) nei documenti ufficiali, rimaste bloccate con
Niceforo I il quale aveva fatto interrompere i rapporti del patriarca Niceforo
con il papa. In cambio del riconoscimento venivano dati in restituzione
Venezia, le città marittime dell’Istria, della Liburnia e della
Dalmazia. Era un prezzo alto che Carlo Magno fu ben lieto di pagare pur di
ottenere il riconoscimento. Gli ambasciatori che si recarono ad Aquisgrana
riconoscendolo monarca dell’Occidente (812) lo acclamarono sia in greco
sia in latino e, mantenendo la finzione dell’unità tra Occidente e
Oriente, indicarono il loro sovrano come
“basileùs ton
romaìon” (imperatore dei romani).
Michele
I fu deposto dalle truppe (a seguito di una macchinazione del generale Leone
l’Armeno), che disarmò col suo atteggiamento remissivo dicendo che
non voleva che fosse versata neanche una goccia di sangue cristiano e
consegnando le chiavi di Costantinopoli e del palazzo. Salvò in questo
modo gli occhi e la vita, e divorziato dalla moglie Procopia finì i suoi
giorni nel monastero dell’isola di Protes dove visse ancora per oltre
trentadue anni. Leone, per evitare rivendicazioni, rese eunuchi i suoi tre
figli.
Leone
l'Armeno, come indicato dalla profezia, veniva designato come Leone V (813-820) e sei
giorni dopo l’incoronazione dovette respingere l’attacco di Krum ai
sobborghi di Costantinopoli. L’indomabile Krum stava preparando un grosso
esercito quando morì per la rottura di un vaso sanguigno (814). Gli
succedette il figlio Omurtag, che firmò un trattato di pace trentennale
(816) che servì a Leone V per mettere ordine sulla questione
iconoclasta.
Leone
riteneva che il culto delle immagini non avesse portato fortuna ai precedenti
imperatori (da Irene a Michele I) che avevano tutti subito sconfitte militari
ed era la prova che il culto non fosse gradito alla potenza divina. Egli
nominò quindi una commissione presieduta dallo studioso Giovanni il
Grammatico, col compito di preparare un documento sulla teologia iconoclasta.
Il
patriarca Niceforo si rifiutò di prendere in esame il problema del culto
delle immagini che riteneva già risolto dal settimo concilio (Nicea).
Leone V pensò di convocare un concilio a Costantinopoli (815) nel quale
cercò di convincere i padri riuniti, avvertendoli che non avrebbe
tollerato la loro disobbedienza.
Molti
però non ebbero timore di mostrare il loro rifiuto. Teodoro Studita gli
disse apertamente che l’imperatore non aveva alcun diritto di intervenire
sulle questioni ecclesiastiche che potevano essere decise solo dal clero
autorizzato.
Il
patriarca Niceforo veniva quindi deposto e sostituito dal patriarca Teodato
Cassiteras. Un secondo concilio revocò le decisioni del 787, rimise in vigore i decreti del 754,
proibì la fabbricazione e l’uso delle immagini, precisando
comunque che esse non sarebbero state considerate come “idoli”. Teodoro Studita
cercò di coinvolgere il papa, ma ciò irritò
l’imperatore che lo bandì con i suoi sostenitori, alcuni dei quali
furono mandati a morte.
Un
vecchio compagno d’arme dell’imperatore, Michele l’Amoriano o
di Frigia (in quanto originario di Amorion in Frigia), comandante della guardia imperiale, ritenuto colpevole di tradimento era stato condannato ad
essere bruciato vivo e nell’attesa era stato legato a una scimmia e
gettato nella fornace dei bagni di palazzo, in attesa dell’esecuzione.
Nonostante
tutte le precauzioni prese dall’imperatore che temeva di essere deposto,
i suoi amici riuscirono a trucidarlo; indossati i paramenti sacri, si
presentarono nella cappella di palazzo durante la funzione di Natale (820) alla
quale assisteva l’imperatore e lo pugnalarono. Il patriarca che
officiava, dopo aver sentito della sua uccisione, esclamava:
Con
Leone V si estingue la dinastia armena, seguita dalla dinastia frigia o
amoriana, che segna il passaggio, tra le due più importanti dinastie, la
isaurica e la macedone.
MICHELE II IL BALBO
TEOFILO - MICHELE III L’UBRIACONE
E
L |
o stesso giorno di Natale in
cui era stato assassinato Leone V, Michele di Frigia o l’Armoriano, come
detto, e come previsto dalla profezia, in attesa di essere arso vivo, ancora
con i ceppi perché non si
era trovato il fabbro che gli togliesse le catene, fu incoronato imperatore e
dal patibolo si ritrovò sul trono col nome di Michele II, (820-829),
detto il Balbo per congenita balbuzie.
Egli diede inizio alla
dinastia frigia o amoriana, durata solo tre generazioni. Soldato rude, senza
cultura ma con notevole forza di carattere e molto senso pratico, si
trovò ad affrontare una rivolta civile scoppiata in Asia minore,
già iniziata con Leone V, sotto la guida di Tommaso lo Slavo (820-23),
suo generale (il terzo indicato nella profezia).
Tommaso aveva dato alla sua
rivolta un carattere etnico-religioso-sociale, avendo attirato tra le sue fila
varie etnie di arabi, persiani, armeni, iberi, ed altre etnie, assicurandosi
anche l’appoggio dello sceriffo al Ma-mun e degli scontenti iconofili e pauliciani, diseredati del
popolo, dissidenti, schiavi, oppressi ed esattori scontenti che gli fornirono i
fondi: Tommaso prometteva a tutti la liberazione dalle loro sofferenze.
Dopo essere stato
incoronato imperatore ad Antiochia, Tommaso, che era giunto al punto di raccontare di essere Costantino VI,
figlio di Irene, riuscì a
bloccare Costantinopoli per mare e per terra, tenendola sotto assedio per un
anno.
La città e
l’organizzazione militare dell’imperatore riuscirono a resistere e
nella primavera ((823)) giunse in
aiuto di Michele II, il khan dei bulgari Omurtag, figlio di re Krum, il peggior
nemico di Bisanzio che disperse gli assedianti, mentre per mare le forze di
Tommaso furono sconfitte dalla marina imperiale. Solo nell’ottobre
Tommaso fu preso ad Arcadiopoli e dopo essere stato torturato e mutilato delle
mani e dei piedi e così sanguinate portato in giro nelle vie di
Costantinopoli su di un asino, fu ucciso con quelli del suo seguito.
Negli affari religiosi
Michele II seguì Leone V nella politica iconoclasta ma in maniera
moderata, con il ristabilimento dei decreti iconoclasti e la tolleranza per
l’ortodossia. Egli aveva liberato tutti quelli che erano stati
imprigionati e aveva fatto rientrare tutti gli esiliati, compresi Niceforo e lo
Studita, affidando l’educazione del figlio all’iconoclasta Giovanni
Grammatico, uno dei principali uomini di cultura dell’epoca..
Non abrogò invece la
legge che vietava l’uso pubblico delle immagini e non volle fossero
richiamati i concili del 754,787 e 815. Gli estremisti zeloti-studiti non
accettarono queste condizioni e la proposta di una conferenza per riesaminare
l’intera materia, insistendo per devolvere la decisione al papa.
Michele, essendo nel
frattempo morto il patriarca Teodoto Melisseno (821), nominava il vescovo
Antonio Sileo, che era stato consigliere iconoclasta di Leone V.
Lo Studita, sempre in
fermento continuava ad affermare la competenza del papa sulle questioni
ecclesiastiche e teologiche; ne fece le spese il siciliano Metodio che gli
aveva portato un’ammonizione del papa sul problema delle icone, che fece
tanto infuriare l’imperatore da farlo fustigare e rinchiudere in prigione
(fu l’unico eccesso compiuto dall’imperatore che successivamente
gli concesse la grazia e Metodio divenne patriarca).
Michele
II per avere il consenso di Roma, mandò ambasciatori presso Ludovico il Pio, al quale si rivolse (con
condiscendenza per il titolo di imperatore), chiamandolo “regi francorum et longobardorum vocato eorum
imperatori” (al re dei franchi e longobardi, da essi chiamato
imperatore), al quale, nel far presente di credere nei sei concili generali e
nelle reliquie, indicava gli eccessi e gli abusi nel culto delle immagini,
onorate con ceri, incensi e preghiere e dell’eucaristia spesso
distribuita usando le icone o mescolata
con polvere da esse grattata.
Ludovico
riunì un sinodo a Parigi (825) che condannò il culto delle
immagini, criticò il papa Adriano I che aveva approvato il “credo” (787) ma censurò
anche gli iconoclasti per il fatto
che non tolleravano la presenza delle immagini nelle chiese.
Era
la posizione assunta dal concilio
di Francoforte (794) riunito da Carlo Magno (v. in Specchio dell’Epoca:
Libri carolini, culto delle immagini e iconoclastia), che veniva ratificato.
Michele II ne rimase deluso e continuò nella politica di tolleranza
adottata fin dall’inizio della sua elezione.
Michele
II, dalla prima moglie che aveva perduto, aveva avuto un figlio di nome
Teofilo. Egli su richiesta del senato, aveva sposato Eufrosine, figlia di
Costantino VI che viveva in un monastero, dalla quale si aspettava altri figli
che Eufrosine non potette dargli. Alla sua morte gli succedeva quindi il figlio
Teofilo (829-842) allevato nelle raffinatezze della corte e
nell’amore per l’arte e la cultura trasmessagli dal colto Giovanni
Grammatico il quale, tra
l’altro, gli aveva incultato anche l’amore per la cultura araba.
Teofilo era dotato di un
forte senso di giustizia che lo portava ad ascoltare le lamentele della povera
gente e punire i colpevoli senza troppi riguardi per la classe alla quale essi
appartenevano. Proseguì nella riorganizzazione dei “temi” formandone di nuovi
(Paflagonia e Candia) e nei territori montagnosi dei confini arabi (Anatolia e
Armenia) istituì tre nuove circoscrizioni militari-amministrative dei
“passi di montagna”
(kleisourai) che diventarono anch’esse “temi” e le città bizantine della Crimea vennero
riunite in un unico “tema” con sede dello stratega a
Cherson.
In questo periodo, su
richiesta del khan dei chazari gli architetti bizantini costruirono la fortezza
di Sarkel alla foce del Don che era un monumento della tecnica da essi
raggiunta.
Era
l’epoca dell’espansione araba e Teofilo, nonostante la sua
ammirazione per la loro arte e cultura, dovette affrontare guerre, prima con il
califfo al-Ma-mun (813-33) che conquistava Palermo (831) e poi con il fratello
al-Mu’tasim che gli era succeduto e che occupò Ancira e rase al
suolo Amorion (838), la città natale dell’imperatore Michele II e
di provenienza della famiglia imperiale; l’imperatore stesso al comando
dell’esercito era stato sconfitto. L’anno successivo (389) gli
arabi prendevano Taranto, dividendo
Teofilo
era iconoclasta come il suo maestro Giovanni Grammatico, divenuto patriarca
(832) e iniziò anch’egli la persecuzione degli iconoduli,
particolarmente indirizzata nei confronti dei monaci, emanando un editto con il
quale proibiva la fabbricazione delle immagini.
Fino
a Teofilo gl’imperatori avevano proceduto tutti sulla strada riformista
iniziata da Costantino V. Sebbene inclini a tollerare il culto delle immagini
essi si mostrano fermi sul punto
principale della sottomissione della chiesa ricorrendo alle misure estreme nei
confronti dei monaci recalcitranti, imprigionandoli, o esiliandoli e
confiscandone i beni
Con
Teofilo ebbe fine l’epoca degli iconoclasti e nell’impero si
ristabiliva l’unità religiosa e
Teofilo
aveva spiccato il senso della giustizia e nello stesso tempo nel sangue la
crudeltà raffinata dei satrapi orientali e le sue punizioni erano originali. A una donna che si lamentava
della costruzione di un palazzo vicino alla sua casa, che con l’altezza
la privava di aria e di luce, l’imperatore le donò l’intero
palazzo. Puniva severamente i suoi ministri prefetti, questori, capitani delle
guardie o con l’esilio o mutilandoli o facendoli immergere nella pece
bollente o facendoli bruciare nell’ippodromo. Un risvolto originale,
nella crudeltà, ebbe la punizione
inflitta a due fratelli palestinesi, Teodoro e Teofane (poeta noto per i
versi in lode delle icone), che dopo essere stati fustigati ed esiliati furono
richiamati nella speranza di convincerli a condannare l’uso delle icone.
Ma i due fratelli non accettarono, e dopo essere stati bastonati gli furono
impressi col fuoco sulla fronte dei versi iconoclasti. A un altro monaco che
non voleva cessare l’attività di dipingere icone, furono bruciate
le mani con tizzoni ardenti.
Sia
l’imperatore sia il patriarca non ebbero molto seguito nella loro lotta
iconoclasta che era già in crisi e alla morte dell’imperatore (842)
essa crollò definitivamente con l’avvento di Teodora.
Per
il matrimonio di Teofilo fu organizzato un concorso di bellezza (che
sarà poi copiato dai russi per i matrimoni imperiali) di tutte le
ragazze nobili dell’impero. Passandole in rassegna con una mela
d’oro in mano, Teofilo si fermò davanti a una concorrente di nome
Icasia alla quale l’imperatore non avendo altro da dire, disse che le donne erano state causa di molti mali.
La bella Icasia ebbe la prontezza di rispondere: Ma anche molto bene. La risposta non piacque all’imperatore
che assegnò la mela a un’altra concorrente, Teodora che alla sua
morte regnerà per conto del figlio Michele, di tre anni.
Fu in questo periodo che ebbe inizio l’epoca
d’oro della rinascita culturale bizantina. Con
Teofilo Bisanzio gareggiava con Bagdad per lo splendore degli edifici, il lusso del Sacro
Palazzo, la grandezza della civiltà;
Con
la morte di Teofilo, Teodora assumeva le reggenza su Michele
III che aveva tre anni (842-867), reggenza che Teodora tenne con saggezza per quattordici
anni, con un consiglio di reggenza di cui facevano parte i fratelli
dell’imperatrice, Bardas e Petronas, Sergio Nicetiate e il logoteta Teoctisto
che aveva servito gli imperatori Michele II e Leone V. Vi faceva parte anche la
sorella maggiore di Michele, Tecla, ma costei veniva tenuta lontana dal governo.
Con
Teodora aveva termine la lotta iconoclastica (protrattasi dal 711
all’843), in quanto Teodora, come primo atto politico dichiarava
solennemente il culto delle immagini, annunciato dal Concilio da lei indetto
l’anno successivo (843) facendo celebrare da quel momento, ogni anno,
“la festa dell’Ortodossia”,
e sostituendo Giovanni Grammatico con il patriarca Metodio, ortodosso di stretta osservanza.
Ma
cessate le lotte iconoclastiche, insorsero quelle interne con gli zeloti di
Teodoro Studita contro il patriarca Metodio che scomunicò gli studiti.
Alla morte di Metodio salì sul seggio patriarcale Ignazio figlio di
Michele II Rangabe che alla morte del padre era stato evirato e messo in
convento, il quale aveva tendenze favorevoli agli zeloti e pur senza volerlo fu
trascinato nella lotta contro Fozio che sostituirà Ignazio (858).
Cessate
però le lotte religiose interne, si
acuiscono i rapporti tra la Chiesa orientale e quella occidentale come vedremo
più avanti (par. Fozio) .
Michele
III era stato bollato dalla storiografia della chiesa come
Costantino V, facendolo apparire come essere spregevole, dedito ai vizi e al
vino, perciò detto
l'Ubriacone, accusandolo di lasciare il governo nella mani dei suoi favoriti, che
avvicendandosi in continuazione non avevano fatto altro che procurare danni.
Con i favoriti era stato accusato di aver dissipato, durante i tredici anni di
regno, tutto il tesoro imperiale, fino a mettere in vendita i preziosi
ornamenti del palazzo e delle chiese. Sempre secondo gli storici ecclesiastici,
Michele III frequentatore del circo,
dove si fronteggiavano azzurri e verdi (v. Cap. III par. Azzurri e verdi),
partecipando per gli azzurri, premiava gli aurighi più abili, e offriva
loro e accettava banchetti, passava
le sue notti nelle orge, e preso dai fumi dell’alcol dava ordini
sanguinari che i suoi servi non eseguivano. Il suo maggior divertimento sarebbe
stata la derisione della religione. Un buffone di corte si vestiva come il
patriarca e i suoi dodici metropoliti, tra i quali l’imperatore con gli
abiti sacerdotali e avrebbero usato i vasi sacri e somministrato la comunione
con un miscuglio di senape e aceto. Nel giorno di una festa solenne, durante
una processione del patriarca l’imperatore con i suoi amici, a cavallo di
asini avrebbero portato scompiglio nella processione con lazzi e
oscenità.
Mentre
il regno di Michele III era stato screditato dagli scrittori ecclesiastici,
quello di Teodora era invece stato screditato dagli uomini di Michele III, che
avevano criticato ciò che di buono era stato fatto da Teodora.
Ma
il periodo di Teodora e di Michele III, anche per meriti non propri di costoro
ma degli uomini che dirigevano l’impero (quindi a Bardas e
all’onnipotente Teoctisto Briennio), è ritenuto da Ostrogorsky
come “ il periodo in cui i segni
della prossima grande rinascita politica dell’impero diventano
chiaramente visibili. Lo sviluppo culturale che si andava preparando già durante la reggenza giunge
alla sua grande fioritura e appare in tutta la sua grandezza la forma
d’irradiazione e l’attività della cultura bizantina”.
Teoctisto
poco alla volta aveva allontanato Bardas dal potere e dalla corte (843). Uomo
colto e di grande erudizione aveva riorganizzato l’esercito e per mare la
flotta formata da trecento vascelli che riconquistava Creta (843) ccupata dagli
arabi e Damietta (853) in Egitto; la sua accorta politica finanziaria
assicurava all’impero grandi riserve auree.
L’epoca
del grande slancio della svolta
politica e della rinascita culturale dell’impero avvenne dall’ 856,
quando Michele fece un colpo di stato contro Teodora che interferiva anche
nella sua vita privata (l’anno precedente lo aveva forzato a separarsi da
Eudocia Ingerina per costringerlo a sposare Eudocia Decapitolissa),
escludendola dal governo.
Bardas
d’accordo con Michele era tornato a corte e aveva ucciso Teoctisto e
Michele assumeva così il potere. Michele metteva quindi la direzione
degli affari di stato nelle mani dello zio Bardas, nominato cesare, uomo colto e letterato per merito del
quale l’università di
Costantinopoli ricostituita nel palazzo
Magnaura (intorno
all’850), era tornata a diventare centro della cultura bizantina. Quivi
venivano coltivate tutte le scienze profane essendo stati chiamati tutti gli
uomini di scienza dell’impero sotto la direzione del matematico Leone,
dalla cultura enciclopedica, nipote di Giovanni Grammatico, e dove insegnava
anche Fozio, il più grande studioso del secolo.
Il
fratello Petronas fu nominato domestikos
delle scholai (generale e capo della
guardia palatina). Petronas era ottimo capitano e riportò due vittorie
(863) sull’emiro di Melitene, ‘Omar che fu ucciso con un migliaio
dei suoi uomini, e a Mayyafariqin con la sconfitta del governatore
dell’Armenia, Al’ ibn Yayhya, anch’egli ucciso.
Queste
vittorie diedero prestigio all’imperatore che rafforzati i confini
orientali doveva ora regolare i rapporti con
L’occasione
fu data dalla richiesta del
principe di Moravia Rotislav (v. in
Schede: Scismi e riti in Oriente:
Cirillo
si era recato in precedenza a Cherson, centro della popolazione dei chazari che
aveva fornito molte spose agli imperatori di Bisanzio e aveva subito influenze
da parte di ebrei che convivevano con loro e qui egli imparò
l’ebraico e lo slavo, e oltre alla traduzione della Bibbia in questa
lingua, aveva creato un nuovo alfabeto per gli slavi che non avevano una propria
scrittura (glacolitico-cirillico).
Dopo
Questo
avvenimento che in pratica aveva sottratto la Bulgaria alla influenza del papa,
non aveva fatto altro che inasprire i rapporti tra Roma e Bisanzio, mentre
Fozio si ergeva a difensore non
solo dell’indipendenza della Chiesa ma anche degli interessi
dell’impero, sostenuto da Michele III e da Bardas.
In
questa circostanza l’imperatore aveva chiesto al papa di revocare il suo
giudizio contro Fozio. Infatti quando era stato eletto papa Nicolò I
(858-867) si era pronunciato a favore di Ignazio ritenendo la elezione di Fozio
irregolare (v. sotto) e aveva mandato due suoi emissari a Costantinopoli i
quali, di fronte alla forza argomentativa di Fozio, capitolavano,
sottomettendosi al giudizio di un Concilio (861) che confermava la nomina di
Fozio e la destituzione di Ignazio. Ma Nicolò I così sconfessato
fece emettere un giudizio opposto da un Sinodo convocato in Laterano (863).
Seguì uno scambio di lettere tra l’imperatore e il papa mentre
Fozio soffiava sul fuoco attaccando la dottrina della Chiesa romana sulla
processione dello Spirito Santo dal
Padre e dal Figlio come eretica
(mentre per gli ortodossi lo Spirito Santo procedeva dal Padre attraverso il
Figlio). Riunì inoltre un sinodo a Costantinopoli (867) che condannò come eretico
Nicolò I e la dottrina di Roma, dichiarando illegali le intrusioni della
Chiesa di Roma sulla bizantina.
Durante
questi avvenimenti, per il giovane imperatore l’ora
della fine si stava avvicinando. Tra i suoi favoriti stava emergendone uno con
particolari doti, di nome Basilio, che voleva giungere ancora più in
alto e aveva tolto di mezzo tutti i
suoi rivali, giungendo fino a Bardas che era secondo subito dopo
l’imperatore. Basilio, come vedremo nel prossimo capitolo, era riuscito a
far credere all’imperatore che Bardas tramava contro di lui e
durante una campagna militare lo
uccise davanti ai suoi occhi (866).
Michele quindi nominava Basilio
co-imperatore al posto di Bardas. Al ritorno a Costantinopoli, Michele, che non
era un campione di costanza, incominciò a cambiare atteggiamento nei
confronti di Basilio e aveva dato i calzari di porpora a Basiliciano (il
gesto presupponeva la nomina a
cesare), ma Basilio lo prevenne. Offrendogli un banchetto nrlla residenza
imperiale di San Mama sull’altro versante del Corno d’Oro, dopo
averlo fatto ubriacare, Michele si era ritirato per riposare. Basilio
entrò nella camera con i suoi soldati; Michele ebbe la forza di alzarsi
e stando in piedi, sebbene stordito dall’alcol si rese perfettamente
conto che il suo migliore amico
stava per assassinarlo.
Impadronendosi
dell’impero, Basilio regnerà col nome di Basilio I: con lui ha
inizio la nuova dinastia che va sotto il nome di dinastia macedone.
FOZIO
E L’INIZIO DELLA CRISI
TRA LE DUE CHIESE
A |
bbiamo
visto come l’imperatrice Teodora aveva chiamato a Costantinopoli il
monaco Ignazio, fratello dell’imperatore Michele I, che con altri monaci
si era sottratto alla persecuzione degli iconoclasti, nominandolo patriarca
(840). Ignazio, rigidamente osservante e studita, denunciava il ministro
Bardas, fratello di Teodora (che ricopriva la carica di co-reggente in quanto
faceva parte del consiglio di reggenza) di Michele III. Bardas aveva divorziato
dalla moglie e conviveva con la vedova del figlio: un tale rapporto da Ignazio
era considerato incestuoso.
L’invito
a desistere da questa relazione, non era stato accolto e Ignazio bandì
il ministro dalla Chiesa. Bardas a sua volta, bandì Ignazio, nominando
(858)al suo posto Fozio (820 c.a -
891), in quanto un fratello di Fozio di nome Sergio, aveva sposato Irene,
sorella dell’imperatrice Teodora, la madre di Michele III.
Fozio
(827-898), è uno dei grandi personaggi della cultura bizantina, dalla
vivace intelligenza e formidabile memoria (v. Schede La chiesa ortodossa. anche nota 3) oltre ad essere politico
eminente era il diplomatico più accorto che avesse rivestito la carica
di patriarca. Lo possiamo considerare grande umanista e quindi, data
l’epoca un precursore dell’umanesimo che, in Oriente si era
sviluppato alcuni secoli prima dell’Occidente.
Fozio
insegnava all’università di Costantinopoli ed era maestro di
filologia, scienza e filosofia e consentiva ai suoi studenti libero accesso
alla sua casa e alla sua biblioteca.
Oltre
ad essere un brillante oratore, aveva una prodigiosa memoria che gli aveva
consentito di scrivere un libro (Miriobiblion-Biblioteca) in cui aveva
recensito duecentosettantanove libri da lui letti, molti dei quali sono andati
perduti e della cui conoscenza l’umanità gli deve profonda
gratitudine.
La
sua cultura lo poneva a livelli superiori, con aperture di vedute che lo
portavano ad avere rapporti di amicizia con musulmani. Era infatti amico
dell’emiro di Creta, per cui la sua nomina a patriarca di Costantinopoli,
dal popolo, e dallo stesso clero, fu ritenuta scandalosa.
Egli
ricopriva la carica di primo segretario di stato e protostatario. Bardas,
nell’estromettere Ignazio (858), aveva designato Fozio, che al momento
era laico, per cui la sua nomina fu considerata un’offesa dal clero di
Costantinopoli. Nel frattempo veniva convocato un Concilio che convalidava l’estromissione di Ignazio e la
nomina di Fozio (861).
Fozio,
presi gli ordini, fu consacrato da Gregorio Asbesta, metropolita di Siracusa
(che in precedenza era stato scomunicato).
L’elezione
comunque doveva essere convalidata da Roma, e Fozio mandava messi dal papa, al
quale riferiva (falsamente), di aver dovuto assumere l’incarico, in
quanto Ignazio vi aveva rinunziato.
Ignazio,
dal suo canto, non avendo accettato la sua estromissione, aveva fatto appello
al papa (Nicola I), il quale inviava due legati, Rodoaldo e Zaccaria,
incaricati di procedere a una inchiesta, con due lettere, una per
l’imperatore Michele III, l’altra per Fozio.
Il
papa, nelle lettere diceva che non vi era nessuna questione ecclesiastica in
cui il papa non dovesse esprimere il suo parere, mostrandosi contrario alla
nomina di Fozio. Egli ordinava quindi all’imperatore di reintegrare
Ignazio, ma Bardas minacciava di far intervenire l’esercito.
A
seguito di tale minaccia Nicola I scrisse una energica lettera
all’imperatore in cui, non solo
gli rinfacciava la sua arrendevolezza ma la debolezza stessa del suo
esercito, che, diceva il papa, non era stato in grado di fronteggiare gli slavi e i saraceni, permettendo
l’invasione di Creta, della Sicilia, della Grecia, delle chiese dei
sobborghi di Costantinopoli bruciate dai pagani e i territori che impunemente
avevano conquistato, bruciato e devastato, “mentre noi cattolici cristiani siamo minacciati dal terrore delle
vostre armi”. “Voi”
, terminava il papa, “liberate
Barabba e uccidete Cristo”.
Fozio
fece riunire dall’imperatore un altro Concilio (non indicato
ufficialmente negli annali) che scomunicava il papa (867), in cui veniva
affermata la parità dei patriarchi di Costantinopoli ai pontefici, accusando di
eterodossia
Erano
tutte le premesse per la scissione che sarà apertamente dichiarata nel
1054 per tutti i secoli a venire (v. Schede: La chiesa ortodossa).
Nicolò
I, venuto a conoscenza di questi fatti, riuniva un Sinodo che condannava
l’operato dei legati, dichiarando nulle le deliberazioni su Ignazio e
Fozio che aveva fatto apparire il suo caso personale come operato del concilio,
e quindi, si accentuava l’ostilità di Roma diretta nei confronti
della Chiesa greca e della corte imperiale.
A
questo punto la stella di Fozio incomincia a tramontare, quando, essendo stati
uccisi Bardas e l’imperatore Michele III, prendeva il potere Basilio I.
Il
nuovo imperatore, al momento del colpo di stato, avendo bisogno del sostegno
della Chiesa di Roma fece rientrare Ignazio, e Fozio fu invitato a ritirarsi in
un convento (867).
Nel
frattempo Basilio aveva consolidato il suo potere, e aveva chiamato a corte
Fozio ma solo perché facesse da precettore al figlio. Alla morte di
Ignazio, reinsediò Fozio nel seggio patriarcale riuscendo, questa volta, ad ottenere per
la sua riabilitazione anche l’assenso di Roma, sancita da un ulteriore
Concilio (879).
Eletto
però il nuovo papa,Giovanni VIII,
scomunicava Fozio (881), il quale avrà il sostegno dell’imperatore.
Solo
con l’imperatore Leone VI la stella di Fozio tramonterà
definitivamente, perché questa volta per il seggio patriarcale era in
ballo la nomina a patriarca del fratello dell’imperatore, Stefano. Fozio
terminerà la sua brillante e intensa vita, spegnendosi in un oscuro
monastero (898 circa).
*) Secondo l’originario credo del
Concilio di Nicea (325) lo Spirito Santo procede dal Padre (“ex patre procedit”), attraverso il
Figlio (per filium) mentre il credo
di Toledo (589), aveva modificato la formula nel senso che lo Spirito Santo
procede dal padre e dal figlio (“ex
patre filioque procedit”).
FINE
segue Cap.VII