Luigi della Zerda duca di Medina-Coeli

 

 

NOBILTA’ RIBELLE

NEL REGNO DI NAPOLI

 I VICERE’

TOLEDO E MEDINA-COELI

LA CONGIURA  DI MACCHIA

 

Michele E. Puglia

 

 

PARTE SPECIALE

PRIMA

 

                                                         

SOMMARIO PARTE SPECIALE PRIMA: IL VICERE’ MEDINA COELI SEGUE LE ORME DEL VICERE’ DE HARO; ETICHETTA E ARROGANZA SPGNOLA PER L’AMANTE DEL VICERE’; RAMMARICO DELLA NOBILTA’ PER I PROVVEDIMENTI CONTRO IL DUCA E LA DUCHESSA DI AIROLA; LA NOBILTA’ SI DEGRADA ALLEANDOSI E PROTEGGENDO I MALFATTORI; I PRIMI DUE RIBELLI: GIUSEPPE CARAFA E BARTOLOMEO TELESE; SEGUITO DEI CONTATTI DEI CONGIURTATI CON VIENNA; MORTE DEL RE DI SPAGNA IL VICERE ’PREPARA I PRIMI PROVVEDIMENTI; TRATTATIVE DEI COSPIRATORI CON L’IMPERATORE LEOPOLDO I; I NOBILI MEDITANO LE LORO VENDETTE CONTRO IL VICERE’; I COSPIRATORI SCELGONO IL CAPO MILITARE E DECIDONO LE LORO RICOMPENSE; IL PAPA CONSIDERA IL REGNO DI NAPOLI FEUDO DELLA CHIESA (In nota: La questione del Regno di Napoli e Sicilia feudo della Chiesa); SEGUITO DEI CONTATTI DEI CONGIURATI CON VIENNA; ARRIVA IL PRINCIPE DI MACCHIA SUOI DUBBI SULLA CONGIURA; LA MACCHINA DELLA CONGIURA COMINCIA A INCEPPARSI; LE ISTRUZIONI PER I CONGIURATI DA VIENNA RITARDANO; IL TENTATIVO D’IMPADRONIRSI DI CASTELNUOVO FALLISCE; L’ASSALTO E IL SACCHEGGIO DI CASTEL PAUANO; I CONGIURATI OCCUPANO IL CAMPANILE DI SAN LORENZO; LO SFOGO DEL MARINAIO CON IL PRINCIPE DI MONTESARCHIO;  L’OCCUPAZIONE DELLA CHIESA DI S. CHIARA; L’ASSEDIO A SANTA CHIARA DELLE FORZE DEL VICERE’.

 

 

IL VICERE’

MEDINA-COELI

SEGUE LE ORME

DEL VICERE’ DE HARO

 

 

L

uigi de la Ҫerda, duca di Medina-Coeli era stato nominato da Carlo II ambasciatore di  Spagna a Roma dove era stato apprezzato da tutti i ceti e si era reso popolare ai napoletani in quanto aveva appoggiato la deputazione della Città di Napoli che si opponeva al cardinale Jacopo Cantelmo, il quale voleva  introdurre a Napoli il Tribunale dell'Inquisizione (v. P. Generale).

Anche Medina-Coeli, sebbene inviso alla nobiltà, sarà per Napoli un buon vicerè in quanto aveva fatto abbellire tutto il lungomare di s. Lucia, integrato dai giardini pubblici della spiaggia (all’epoca) di Chiaia, realizzando la strada panoramica.

Egli aveva seguito in buona parte le orme del suo predecessore Gaspare de Haro, marchese del Carpo (1683-87) il quale, pur avendo avuto un periodo breve di viceregno si era prodigato in diverse attività come la giustizia, la corruzione che correva nei tribunali e nelle corti di giustizia, il banditismo che nel regno era divenuto una vera piaga e aveva raggiunto livelli insopportabili, influendo anche sulla potente nobiltà che aveva alle proprie dipendenze molti scherani e uomini di malaffare, per mezzo dei quali terrorizzavano i deboli per estorcere tutto ciò che veniva loro in mente, e non vi era  vicenda in cui non intervenissero.

I maggiori abusi avvenivano in particolare nei matrimoni in quanto imponevano ai padri di dare le figlie a chi fosse da loro designato o impedivano matrimoni ad essi non graditi; de Haro eliminando il banditismo, si era rivolto anche contro i loro protettori che procuravano  ai malfattori vitto e alloggio, armi, polvere da sparo o altri arnesi per armi, oppure ad essi comunicavano per mezzo di lettere o di messi,  avvertendoli degli agguati che venivano predisposti dalla forza pubblica; la legge valeva anche per quelli che si trovassero fuori dal regno o sotto il dominio di altro principe.

De Haro fin dal primo anno di governo, aveva concesso un indulto per tutti gli inquisiti e contumaci, a condizione che denunciassero i loro capi e le bande; quanto alle masnade che percorrevano le campagne, spedì contro di loro le milizie e ordinò l’abbattimento di tutte le torri e delle case in cui trovavano rifugio e dove trovava resistenza, inviava l’artiglieria che provvedeva ad annientarli; pose grosse taglie in premio a chi consegnasse i ricercati vivi o se erano morti, consegnassero le loro teste; a questo modo ripulì tutto il regno; rimanevano indomite le due province dell’Abruzzo dove i banditi continuavano con le rapine, gli incendi i ricatti e i saccheggi; per eliminarli, emanò una legge (1684) inviata ai présidi e sindaci del regno, piuttosto meticolosa e rigorosa  in quanto prevedeva pene severe per coloro che li nascondessero da vivi o li seppellissero da morti.

Il viceré De Haro provvide anche a un salutare rinnovamento delle monete in corso che diede un forte impulso al commercio, emettendo il ducatone di grani (*) cento e  mezzo ducatone di grani cinquanta, a cui aggiunse il tarì di venti grani; esse avevano da una parte l’immagine del re e dall’altra le sue armi; infine emise il carlino di dieci grani che aveva da una parte l’insegna del Toson d’oro, dall’altra le sue armi e infine aggiunse un’altra moneta da otto grani che aveva da una parte l’effige del re e dall’altra la croce quadra con raggi a  angoli.

A Napoli erano celebri gli spettacoli organizzati con magnificenza anche per il popolo; poiché lo sfarzo dei ricchi aveva raggiunto livelli impensabili, mentre nella stessa città e nel regno imperversava la miseria estrema, emise una prammatica con la quale proibiva l’eccessivo numero della servitù, gli eccessivi ricami dei vestiti, i drappi d’oro e d’argento, vietando l’uso eccessivo dell’oro alle sedie, alle carrozze, ai calessi e anche alle selle dei cavalli.

Medina-Coeli a sua volta aveva promosso le scienze e appoggiato i letterati con l'istituzione di una “Accademia” nel palazzo reale; aveva accentuato il gusto spagnolo del lusso e del fasto reale che amava smoderatamente portandolo ai massimi livelli di splendore; sebbene di carattere fosse cupo, riservato e inflessibile nelle sue decisioni (aveva come consigliere Giuseppe de' Medici principe di Ottajano, Reggente della Vicaria, l'unico con il  quale era in stretti rapporti di amicizia), era tradito soltanto dall ‘accentuato senso dell'orgoglio spagnolo che lo portava ad  abusare della sua autorità; aveva fatto imprigionare in Castelnuovo (più noto come Maschio Angioino) il principe di Torella il quale aveva fatto bastonare i muli che tiravano una carrozza del palazzo reale, minacciando il cocchiere che non si era scostato al suo passaggio.

 

*) Un grano equivale alla 576ma parte dell'oncia; un'oncia è la 12ma parte della libbra, mentre dividendo le 12 parti per 24 si ha un denaro e ripartito il 24 ancora in 24 si ha un grano.

 

 

ETICHETTA E

ARROGANZA SPAGNOLA
PER L’AMANTE

DEL VICERE’

 

 

I

l viceré si era comportato alla stessa maniera di come si era comportato con il principe di Torella, con il duca di Airola quando si era verificato un inconveniente sulle precedenze; le dame che si recavano a palazzo, evitavano di fare la lunga scalinata a piedi ma erano portate in seggetta; una sera che a palazzo si rappresentava una commedia, la duchessa di Airola aveva visto la duchessa di Popoli salire per una scala segreta e l'aveva fatta seguire dai suoi lacché; era sopraggiunta la Giorgini, amante del viceré, sulla sua seggetta, che le era passata davanti senza troppi  riguardi; i seggettieri della duchessa, non solo bastonarono quelli della Giorgini, ma la duchessa la apostrofò anche con villania; accorso un alabardiere di guardia, respinse i seggettieri della duchessa e fece passare la Giorgini; il duca di Airola protestò per questo affronto e con sdegnose invettive disse che la moglie non avrebbe mai più messo piede a palazzo!

La Giorgini era un'ottima cantante ma di bassa origine, venuta da Roma al seguito del viceré che l'aveva fatta sposare con un cavaliere spagnolo, colmandola di onori e ricchezze; il viceré non poté accettare l’offesa e fece subito arrestare il duca mandato nel castello di Capua, mentre la duchessa era stata invitata a lasciare Napoli e ritirarsi nelle sue terre.

Tutto sarebbe finito, se il duca avesse presentato al viceré una richiesta di grazia, che equivaleva alle scuse!

Ma lo stesso orgoglio che avevano i nobili spagnoli, lo avevano assorbito geneticamente  anche i nobili napoletani sottomessi al governo spagnolo:  ricordiamo che gli spagnoli erano anche nel milanese, e quei nobili ci sono stati descritti (circa un secolo prima), nelle figure di don Rodrigo e dell’Innominato (che Manzoni aveva ritenuto far convertire - come si era convertito egli stesso ...con nostro modestissimo disappunto, in quanto, un romanzo più laico avrebbe avuto una maggior forza espressiva!)

La questione del duca di Airola non era finita qui  ... era andata avanti per via burocratica!

 

 

Stemma dei duchi

di  Medina Coeli

 

RAMMARICO

DELLA NOBILTA’

PER I PROVVEDIMENTI

DEL VICERE’

NEI CONFRONTI

DEL DUCA E DUCHESSA

D’AIROLA

 

               

I

 provvedimenti del viceré erano grandemente dispiaciuti alla nobiltà e avevano suscitato lo sdegno di Malizia Carafa, “di carattere ribelle, di indole torbida e di guasti costumi”, ma di grande autorità presso le Piazze.

Riunitasi la Deputazione dei Capitoli, questa aveva unanimemente ritenuto che in base ai privilegi concessi da Ferdinando il Cattolico e da Carlo V, nessun nobile poteva essere arrestato, senza essere informato sul reato commesso ad eccezione del caso di flagranza; la Deputazione richiese comunque per il duca la grazia.   

Il viceré rispose che egli aveva sempre mantenuto, osservandoli con il giuramento, i privilegi della nobiltà ed essi non avevano, in questo caso, nulla da poter eccepire in quanto l’arresto non era stato disposto dal magistrato ma da lui, come rappresentante del re e “non vi erano leggi o capitoli che potessero limitarla”.

Quanto alla grazia, dipendeva interamente dal duca che doveva recarsi a palazzo e ritrattare quanto aveva detto; a queste condizioni gli sarebbe stata immediatamente restituita la libertà.

Questa risposta aveva suscitato opinioni diverse sulla decisione della presentazione di un ricorso al re; Malizia Carafa sosteneva che non dovesse essere chiesta nessuna grazia!

Si decise quindi per il ricorso al re, che doveva essere redatto dall’Eletto del popolo  (v. P. Generale) e mandato direttamente al re (non attraverso il viceré); ma per non inasprirlo ulteriormente, si ritenne opportuno inviare il ricorso attraverso il viceré.

Al momento della sottoscrizione del ricorso, poiché l’Eletto si era mostrato di parere contrario,  fece presente che avrebbe firmato ma indicando il voto contrario della sua Piazza  (allegando il verbale), e fece ciò anche nelle lettere indirizzate ai ministri.

Dal viceré si era recato per congedarsi (doverosamente i nobili si recavano dal viceré sia quando partivano sia quando arrivavano in città), il principe di San Nicandro (fratello della duchessa di Airola), dicendogli che andava a visitarla; Medina Coeli gli aveva espresso il suo rammarico per la sorella, come cavaliere e servitore, e non poteva permettere che il luogo in cui ora essa si trovava non fosse confacente alla sua salute, tanto più che sapeva non esservi nessuna sua colpa per quanto accaduto e per questo le permetteva di recarsi ovunque volesse e di venire anche a Napoli; mentre, dall’altra parte, aveva fatto sapere al duca, anche tramite il principe di Ottajano, che chiedendo le scuse si sarebbe usciti da questo impasse.

Il duca però non volle sentir ragione, minacciando la moglie che si sarebbe separato se avesse osato tradire la sua volontà; nel frattempo giungeva la risposta del re che confermava tutto l’operato del viceré.

Non solo. Ma ritenendosi che l’interessamento di un alto personaggio sarebbe valso  a vincere la ostinazione del duca, gli fu mandato il duca di Popoli, Capitano generale dell’Artiglieria del regno; il principe si era mostrato disposto a chiedere personalmente la grazia per il duca e sua moglie avrebbe chiesto la grazia per la duchessa alla viceregina: ma tutto fu inutile!

 

 

LA NOBILTA’

SI DEGRADA

ALLEANDOSI E

PROTEGGENDO

I MALFATTORI

 

 

I

 nobili carichi di orgoglio, quando si rendevano colpevoli - e ciò avveniva di frequente - accettavano malvolentieri che la giustizia (che doveva fare il suo corso!), si occupasse di loro e coloro che, a torto o a ragione, da ciò si ritenevano offesi, si allontanavano, apertamente sdegnati, dal seguito del viceré, rimandando, per lo sfogo del loro sdegno, a tempi futuri le proprie vendette che di norma erano le cospirazioni!

Essi, come abbiamo visto, proteggevano i malfattori, concedendo la loro protezione quando incorrevano nelle maglie della giustizia; questo faceva decadere la altezzosa nobiltà allo stesso livello dei protetti criminali, cosa che non si verificava negli altri paesi europei, come in Francia, dove la nobiltà aveva tutt’altro concetto del prestigio e della dignità della casta.

In una di queste situazioni si era venuto a trovare il principe della Riccia, Giambattista di Capua, il quale aveva minacciato di far assassinare due suoi vassalli del territorio di Montuoro, uno era il dottor Biagio de Vetri e l'altro un civile di nome Carlo Galiano;  ma ambedue erano ricorsi al viceré che aveva fatto arrestare il principe.

Questo era stato liberato sulla parola che non avrebbe recato loro alcuna offesa; i due comunque, non sentendosi tanto sicuri di salvarsi dall'ira del principe stando a Montuoro,  si erano trasferiti a Napoli; e infatti, il principe, appena liberato, mandò uno dei suoi sicari a Napoli, il quale, entrato di notte nella abitazione di Galiano, lo uccide con una archibugiata.   

La gravità del fatto e l’offesa recata al viceré avevano suscitato il suo sdegno e fu subito ordinato al Tribunale di istruire il processo e di arrestare il principe, il quale andò a rifugiarsi nel monastero dei padri Crociferi alla Porta di s. Gennaro.

Il principe della Riccia era il capo di una delle più illustri famiglie di Napoli, uso a vivere (alla maniera del manzoniano don Rodrigo di un secolo prima, come abbiamo già accennato),  circondato da bravi e scherani,  complici delle sue nequizie, “nascondendo sotto una apparente piacevolezza di modi, la perfidia del suo animo, che comunque, suo malgrado, gli traspariva dal volto”.

Insofferente per qualunque forma di imposizione, fin dalla giovinezza aveva fatto causa al padre per la eredità materna e pare avesse anche minacciato di avvelenarlo; era stato diverse volte in carcere per omicidi e violenze fatte commettere dai suoi sgherri e anche ammonito di portare più rispetto verso i suoi vassalli, trattati peggio di suo padre!

Avido di vendette come di danaro, aveva iniziato un aspro litigio con suo fratello Vincenzo a causa del matrimonio con la duchessa di Termoli, Ippolita Pignatelli, figlia del principe di Marsico (suo zio materno), morto senza altri eredi.

Il principe aveva lasciato tutti i suoi beni in eredità alla giovane figlia, a condizione che  raggiunti i diciotto anni, sposasse Vincenzo o uno degli altri figli del principe della Riccia; in mancanza i beni sarebbero andati alla chiesa delle Anime del Purgatorio.

La giovane duchessa era educanda presso il collegio della Trinità, dov’era una sua zia contraria a Vincenzo, che fu trasferita nel monastero di s. Gregorio Armeno perché potesse decidere liberamente se scegliere Vincenzo o il fratello minore Fabrizio.

La situazione si decise di risolverla facendo sposare la duchessa con Vincenzo, con l’impegno di un vitalizio (come avveniva di norma da parte dei primogeniti che ereditavano tutti i beni di famiglia), che avrebbe dato al fratello pari a millequatrocento ducati l’anno, oltre a un ulteriore somma, dopo la sua morte e in perpetuo, di mille ducati.

Questo contratto fu impugnato da Vincenzo che non voleva pagare il vitalizio al fratello, ma la sentenza lo confermò e Vincenzo  condannato al pagamento; egli però ritenne che questa vittoria del fratello fosse da attribuire a un vecchio rancore che Medina-Coeli aveva nei suoi confronti per una questione insorta tra i due quando il principe ricopriva la carica di generale delle galee.

Vincenzo per sottrarsi alla giustizia andò a rifugiarsi in luogo sicuro, dove tutta la nobiltà, amici e parenti andavano a trovarlo, sparlando del viceré e dei suoi ministri e pur riconoscendo che egli fosse colpevole, la normale giustizia, in questo caso,  non avrebbe dovuto fare il suo corso!

 

I PRIMI DUE RIBELLI

GIUSEPPE CARAFA E

BARTOLOMEO DI TELESE

 

 

R

itenendo prossima la fine di Carlo II, tutti erano in attesa degli eventi: si vociferava che  Francia e Inghilterra stessero trattando per la spartizione del regno di Spagna.

La nobiltà era scontenta del dominio spagnolo che aveva ribaltato tutte le leggi del regno e della  severità del viceré; la vicenda del principe della Riccia aveva accentuato lo sdegno nei suoi confronti.

Tra coloro che frequentavano il principe della Riccia vi era Tiberio Carafa al quale il padre aveva fatto intendere ripetutamente che non gli piaceva frequentasse simile compagnia; ma Tiberio sordo ai richiami paterni continuò a frequentarlo e i continui discorsi che si facevano contro il viceré e i cambiamenti che si auspicavano sulla perduta indipendenza (e abbiamo visto in che modo questa era intesa!), si erano fissati nella sua mente.

Con queste idee si confidò con suo zio, Malizia Carafa e poi ne parlò con il duca della Castelluccia, Francesco Spinelli, suo intimo amico (per una lunga prigionia condivisa per delitti commessi!) e acerrimo nemico del governo spagnolo, e poi, con lo stesso principe della Riccia: tutti e tre gli promisero il loro appoggio.

Essi conclusero che occorreva conoscere le intenzioni delle potenze straniere, di coinvolgere gli altri Stati italiani, di formare un potente partito a Napoli con la nobiltà per poter dare alle Piazze, alla morte del re, prima che ne fosse nominato uno dagli altri, la possibilità di eleggere un nuovo principe; non potendo contare sul papa, pensarono di rivolgersi ai veneziani, dai quali erano sicuri poter ricevere aiuti essendo sempre pronti a sminuire la potenza straniera in Italia. 

Decisero quindi che Tiberio dovesse per prima cosa recarsi a Roma dove si trovava la maggior parte degli ambasciatori e dove proprio quell’anno (1700) in cui correva il giubileo, avrebbe potuto incontrare molti personaggi stranieri; dopodiché recarsi a Venezia per sentire l’opinione del  Senato di cui era nota la segretezza nel trattare gli affari, che li metteva al sicuro dall’essere scoperti; essi nel frattempo avrebbero cercato di procurare aderenti alla causa.

Tiberio però, recatosi a Roma, non trovò nessuna adesione in quanto non ancora si conosceva il trattato della spartizione della Spagna di cui si parlava; a Venezia incontrò il senatore Matteo Bembo con cui era in corrispondenza epistolare, al quale fece un quadro delle condizioni di Napoli e di ciò che si vociferava sulle aspirazioni di indipendenza di Napoli, Sicilia e Milano; ma dopo molti colloqui avuti anche con il fratello del Bembo, non avendo ottenuto nulla di concreto, Tiberio ripartì dirigendosi a Benevento dove si era rifugiato il principe della Riccia nel frattempo condannato in contumacia e dichiarato fuorilegge.

Il principe prima di rifugiarsi a Benevento si trovava in un luogo sicuro dove vigeva la immunità di asilo e non poteva essere raggiunto dalla giustizia (si trattava di un convento); ma si era venuto a sapere che il viceré, per tutto ciò che si diceva di lui in quella combriccola che incrinava la sua autorità, aveva sollecitato il principe di Ottajano, Reggente della Vicaria, a prendere dei provvedimenti e questo aveva deciso di non tener conto della immunità e di mandare ugualmente degli sbirri ad arrestarlo; venuto a sapere ciò, il principe fuggì con una nutrita scorta armata a Benevento, che pur appartenendo al papa, costituiva rifugio di malfattori e per questo era considerata la “sentina del regno”.

Spinelli e Malizia Carafa avevano cercato aderenti e tra i primi vi fu Giuseppe Capece, fratello del marchese di Rofrano, più volte perseguitato dalla giustizia per delitti commessi, il quale con suo cugino, Bartolomeo Ceva-Grimaldi dei duchi di Telese, per gelosia di una cantante, aveva ucciso nel teatro san Bartolomeo, alla presenza del viceré conte di Santo Stefano, un Eletto del popolo, Pompeo D’Anna, figlio di un ricchissimo mercante che godeva di ottima reputazione; al delitto aveva partecipato anche Giuseppe Capece che aveva affondato la sua spada nel fianco del D’Anna.

Istruito il processo, Bartolomeo Telese fu condannato in contumacia; egli sperava nella remissione della denuncia da parte del padre del D’Anna, il quale però la rifiutò perché voleva fosse fatta giustizia; Capece fuggì ma fu preso e arrestato ad Ancona.  

A Bartolomeo, condannato a cinque anni di deportazione, fu data la possibilità della scelta del luogo dove scontare la condanna e scelse Ischia, pieno d’ira per aver dovuto essere un fuggiasco, essere tenuto in carcere e ora in esilio solo per aver ucciso “per bollore di gelosia” un semplice cittadino ...che egli considerava una colpa  lieve!

Stando a Ischia fece dipingere la facciata del suo palazzo a Napoli, di fronte alla chiesa di s. Carlo all’Arena, con pitture allegoriche che indicavano che non si lasciava abbattere dalla sventura e che si preparava a vendicarsi.

Bartolomeo Telese era patrizio genovese la cui famiglia si era stabilita a Napoli e nonostante avesse acquistato feudi e titoli, non era riuscita a ottenere la iscrizione alla Piazza; come cadetto viveva con una magra pensione ed era divorato da una grandissima ambizione; pur essendo colto era di animo duplice e malvagio e per raggiungere i suoi scopi ricorreva a raggiri e imbrogli; pallido nel volto,  triste, cupo e pensieroso, era bravo a nascondere i suoi disegni e altrettanto abile nell’eseguirli; si vantava di essere nipote del barone d’Aste che aveva gloriosamente  militato nell’esercito imperiale; per il suo carattere, non vi era cosa migliore che organizzare congiure e rivolte; sprezzante dell’autorità e delle leggi non si tirava indietro quando doveva affrontare dei pericoli; ora si trovava nel momento più adatto per vendicarsi degli spagnoli che gli avevano inferto delle punizioni. 

 

 

MORTE

DEL RE DI SPAGNA

PRIMI PROVVEDIMENTI

DEL VICERE’

 

 

D

alla Spagna erano giunte notizie sul re che si era ristabilito e il viceré organizzò a bella posta delle feste, per cui Tiberio Carafa vedendo che non era il momento opportuno per mettere a segno i piani della congiura, se ne andò a Campolieto (nel Molise) nel feudo della moglie, sua normale dimora; qui si mise in contatto con Francesco Ceva-Grimaldi figlio del marchese di Pietracastella suo vicino e con Carlo e Antonio d’Evoli, figli del duca di Castropignano: costoro a corto di sostanze e disposti ad affrontare qualunque situazione, aderirono all’impresa.

Il duca Spinelli e Malizia Carafa, rimasti a Napoli, proseguendo nei maneggi, cercavano di tenere segreta la cospirazione in quanto non ritenevano i tempi ancora maturi per la sua realizzazione e oltretutto ritenevano pericoloso fidarsi di più persone e per questo motivo non resero partecipi gli Eletti e i capi del popolo.

All’improvviso giunse un corriere da Roma (20. xi. 1700) inviato dall’ambasciatore duca di Uzeda, che annunciava la morte del sovrano avvenuta il primo del mese, comunicatagli dal cardinal de’ Medici al quale l’aveva riferita il fratello granduca di Toscana che aveva ricevuto la comunicazione ufficiale da Madrid.

L’annuncio era accompagnato dalla disposizione testamentaria in base alla quale Filippo di Borbone, duca d’Angiò, secondogenito del delfino di Francia (v. P. Generale), era stato nominato erede universale e, nella linea di successione, era seguito dal fratello terzogenito, poi  dall’arciduca Carlo e infine dal duca di Savoia; fino al momento dell’accettazione egli veniva sostituito da un consiglio di reggenza presieduto dalla regina.

Al mattino a Napoli, a palazzo, si recarono moltissimi dei nobili che solevano corteggiare il viceré, nonché gli Eletti; erano tutti in attesa, quando si presentò Medina-Coeli con il volto mesto il quale pronunciò un  breve  discorso di circostanza, “di costernazione per la perdita di un sovrano che non era stato loro signore, ma un padre amorevolissimo”; egli aggiunse che “potevano star tutti tranquilli per l’immediato avvenire  in quanto il sovrano aveva designato il nuovo monarca nella persona del duca d’Angiò, secondogenito del delfino di Francia; che i monarchi francesi non potevano essere considerati stranieri in quanto la  casa d’Angiò aveva già regnato a Napoli e se ne ammiravano ancora i superbi monumenti; per quel che riguardava il presente era stato previsto il consiglio di reggenza e per quanto potesse riguardare la sua persona egli era pronto a deporre, all’arrivo del successore, la sua autorità”.

Tutti gli si fecero intorno scongiurandolo di non abbandonare il governo e gli Eletti non osando contraddire, si unirono agli altri, ma quando il duca Spinelli e Giuseppe Capece ne erano venuti a conoscenza, si recarono in san Lorenzo con i fratelli Girolamo e Bernardino Acquaviva e altri consorti, protestando per l’operato degli Eletti, in quanto la conferma del viceré non era nel loro potere perché il viceré decadeva con la morte del re e, rimasto il trono vacante, il diritto era devoluto agli Eletti fino alla nomina del successore; ma non trovando molto seguito ridussero la loro richiesta, e per  l’onore della città, si presentarono a palazzo chiedendo “che gli Eletti potessero affiancare il viceré” (nel governo della città); il viceré senza scomporsi, si tirò d’impaccio dicendo loro che intendeva  convocare il Parlamento generale del regno, e chiuse a questo modo la partita!

Dovettero passare alcuni mesi prima che arrivasse la notizia ufficiale (24 giugno) con la copia del testamento e la conferma che esso era stato accettato, con le disposizioni che prescrivevano che “tutti i viceré e i ministri dei regni soggetti alla Spagna erano confermati e dovessero continuare nell’esercizio della loro autorità fino a quando non fosse stato diversamente disposto”.

Il viceré inviò a Madrid il duca di Popoli per porgere i complimenti al nuovo re Filippo V (v. P. Generale), mentre gli Eletti fecero sapere che erano in attesa della convocazione del promesso Parlamento; l’Eletto del popolo che annunziò la morte del re Carlo II, come era costume, accennò a un  Viva l’Austria” ... accolto con indifferenza!

 

TRATTATIVE

DEI COSPIRATORI

CON L’IMPERATORE

 LEOPOLDO I

 

N

el frattempo Malizia e Tiberio Carafa erano stati a visitare il duca di Casalcalenda loro parente infermo e poi si erano recati a Campolieto dove trovarono Francesco Ceva-Grimaldi di Pietracastella, i due fratelli d’Evoli e altri amici con numeroso seguito di armati a cavallo, i quali convennero di attendere notizie sulle mosse dell’Austria.

Ambedue i Carafa si recarono a Napoli dove incontrarono il marchese di Rofrano fratello di Capece, tutti segretamente a casa del duca Spinelli della Castelluccia; Rofrano era famoso giocatore e viveva viaggiando per esercitare questa attività da cui traeva grossi guadagni.

Grande fu la delusione in Austria per il testamento di Carlo II e la pacifica acclamazione di Filippo V; a Vienna si trovavano due napoletani, il colonnello Carlo di Sangro, fratello del marchese di s. Lucido e il tenente colonnello Giovanni Carafa dei conti di Policastro, ambedue appartenevano al reparto dei corazzieri a cavallo dell’esercito imperiale; il di Sangro doveva recarsi a Napoli per sollecitare il versamento del vitalizio che il fratello non gli versava e aveva chiesto licenza e si era procurato delle “commendatizie” per il viceré Medina-Coeli.

Leopoldo I (v. P. Generale) lo convocò e gli chiese di recarsi a Napoli con il Carafa per conoscere la situazione e la disponibilità della popolazione nei confronti dell’Austria essendo disposto a concedere come loro re suo figlio secondogenito Carlo  (che contrastava con la decisione presa dai Seggi di nominare un loro re!), in modo da poterlo mandare subito a Napoli per familiarizzarsi e prendere confidenza con i loro costumi; l‘imperatore aggiunse che avrebbe fatto sapere ai baroni e alle Piazze che sarebbero stati osservati gli antichi privilegi e ne avrebbe concessi  dei nuovi; che avrebbe alleviato le gabelle da cui erano oppressi...che tutte le cariche e i benefici sarebbero stati esclusivamente dei napoletani e sapendo della lunghezza dei giudizi civili a causa della confusione delle leggi e degli arbitrii del governo, prometteva per l’avvenire la pronta e corretta amministrazione della giustizia; inoltre, recandosi a Roma dal suo ambasciatore Lamberg, accertassero, nel caso fosse stato già acclamato Filippo, quali potessero essere i mezzi più opportuni per concedersi all’Austria; ricevettero altresì dal vice-cancelliere Kaunitz lettere per Paolo Carafa della Roccella, colonnello e gentiluomo di camera dell’imperatore che si trovava a Napoli, perché recandosi in Sicilia, facesse altrettanto.

Una volta che i due nobili messaggeri giunsero a Roma, le cose cambiarono aspetto: il colonnello di Sangro durante il viaggio si era infortunato a un occhio e si recarono a visitarlo il principe di Belvedere e il marchese di San Marco i quali li aggiornarono sugli ultimi accadimenti di Napoli.

Di Sangro e Carafa qualche giorno dopo si presentarono al duca di Uzeda comunicandogli di aver avuto credenziali dell’imperatore per il conte di Lamberg per spingere a Napoli la fazione austriaca; ma essi rinunziavano all’incarico in quanto intendevano passare dalla parte del re di Spagna; il conte lodò la loro fedeltà e suggerì di restituire tutti i documenti ricevuti all’ambasciatore Lamberg, al quale richiesero di inviare un suo segretario a ritirare i documenti in quanto non volevano che si sapesse in giro che essi erano al servizio dell’Austria. 

Ma era tutta una finzione! Essi non solo si incontrarono segretamente con Lamberg ma si misero in contatto con il cardinale Vincenzo Grimani, nobile veneziano, capo della fazione austriaca per riconoscenza che egli aveva nei confronti dell’imperatore Leopoldo I il quale gli aveva fatto ottenere dal papa (Innocenzo XIII) la nomina a cardinale.

A Roma giunse un capitano dell’esercito imperiale di nome Rocco Stella incaricato di prendere contatti con i sostenitori austriaci: tra costoro vi erano due ragguardevoli personaggi il principe di Caserta, Francesco Gaetani che possedeva feudi nello Stato pontificio e il marchese del Vasto, Cesare d’Avalos, grandi di Spagna e cavalieri del Toson d’Oro, incaricati del controllo delle frontiere.

 

 

I NOBILI

 MEDITANO LE

 LORO VENDETTE

CONTRO IL VICERE’

 

 

L

a ruggine del principe Gaetani nei confronti del vicerè era dovuta a un processo   al quale il viceré lo aveva sottoposto per aver assassinato il governatore di Caserta!

Gaetani aveva quindi messo a disposizione del principe Antonio Lichtenstein, precettore dell'arciduca Carlo, il suo castello di Sermoneta posto ai confini del regno e il castello di Cisterna, famoso ricovero di fuoriusciti, per la raccolta di tutti i masnadieri disponibili da utilizzare nell'impresa. 

Quanto al marchese del Vasto, di antica famiglia, del suo grado non aveva che la boria: Quando era andato ad abitare a Napoli, sotto il viceré Medina-Coeli, aveva maltrattato uno del suo seguito ed era stato obbligato a riparare all'ingiuria; ma la storia non era finita qui: Il marchese tornando nelle sue terre (nel castello di Vasto) aveva maltrattato un dipendente spagnolo il quale si era rivolto al viceré che gli aveva imposto di nominare un suo sostituto per battersi a duello con l'offeso.

Il marchese fremente di rabbia quando era giunta la notizia del testamento del defunto Carlo, aveva manifestato di parteggiare per la casa d'Austria attesa entro la prossima primavera.

A queste parole erano seguiti i fatti in quanto si mise a restaurare il suo castello edificando bastioni, circondandolo di fossati, munendolo di armi e vettovaglie.

Ma nello stesso tempo ...ad ogni buon conto, aveva scritto al re di Francia (Luigi XIV) e al nipote il re Filippo V, ma quei monarchi lo ignorarono completamente ... al che il marchese si scagliò contro entrambi dicendo che invano Filippo era stato proclamato re in quanto il testamento era nullo e il regno spettava di diritto all'arciduca Carlo.

Nello stesso tempo mandò suoi agenti a Roma, ma anche direttamente a Vienna dall'imperatore Leopoldo per invitarlo a occupare l'Abruzzo e la Puglia che, prive di qualsiasi difesa, sarebbero state prese senza sparare un sol colpo.

A Roma si trovava il patrizio milanese Fabrizio Odescalchi (nipote di Innocenzo XI) che pur essendo stato gratificato dalla Spagna, parteggiava per l'Austria in quanto Leopoldo (su richiesta dello zio papa!) gli aveva assegnato il principato di Sirmio in Ungheria.

Il nuovo re Filippo V fu acclamato a Napoli con festeggiamenti, con il viceré che sfilava per le strade con tutte le autorità e il Sindaco della cerimonia, principe di Carinari, che cavalcava alla sua sinistra, seguiti dalla nobiltà e dagli Eletti; al popolo si gettarono gran quantità di carlini d'argento con l'effige del nuovo re.

L'atmosfera era di gran festa, tra suoni di trombe dagli spalti di Castel Capuano, spari di artiglierie e mortaretti nella piazza sottostante; furono messi in libertà, graziosamente concessa dal viceré, tutti i prigionieri rinchiusi nel castello.

Nonostante questa atmosfera di festa, il popolo  era silenzioso e non inneggiava a Filippo in quanto all'orgoglio spagnolo si sostituiva la tracotanza francese e a un padrone se ne sostituivano due, dovendosi attendere soprusi e disprezzi, dei quali se ne aveva avuto appena un saggio in quanto il nuovo re non si era neanche degnato di scrivere al baronaggio e ai Seggi e da parte del popolo si paventava l'ulteriore aumento delle gabelle, e la cupidigia francese avrebbe portato altri aggravi per le guerre che non sarebbero tardate a scoppiare e avrebbero portato un diluvio di mali.

Non era un caso che il re Luigi XIV aveva ordinato l'acquisto di centomila tomoli di grano per i suoi eserciti, cinquantamila di biada e altre derrate, ciò che faceva supporre un loro possibile aumento dei prezzi, oltre che a scarseggiare, come già cominciava a verificarsi.

Alle lamentele del popolo si aggiungevano quelle dei monaci di tutto il regno i quali avevano  immense ricchezze e possedimenti, con l'aggravio che i francesi avevano dato protezione ai giansenisti, nemici della santa sede e per questa ragione quel paese era considerato scismatico, mentre l'Austria era più favorevole alle immunità ecclesiastiche e i religiosi erano per la maggior parte considerati devoti all'impero.

Il nunzio apostolico Filippo Casoni sollecitato dal viceré, faceva intendere ai loro superiori che agli ecclesiastici non conveniva parteggiare per nessuno dei principi e loro compito era di pregare per la causa più giusta e promuovere il superiore bene del cristianesimo; il nunzio apostolico, mostrandosi al di sopra delle parti,  lo faceva sia per contrastare l'arcivescovo di Napoli Cantelmo (di antica famiglia provenzale), che si mostrava fortemente affezionato ai Borboni e sia anche per far tacere coloro che sparlavano di Luigi XIV, di Filippo e dei loro ministri.

Per di più molti ecclesiastici, messi al corrente del segreto, agivano dai confessionali presso il popolo appoggiando  la causa  dei congiurati e per la casa d'Austria si adoperava il gesuita Francesco Maria Torres intimo amico del duca Spinelli  al quale scriveva inviando le lettere al padre che aveva dimora in Roma presso il conte di Lamberg, per essere stato espulso dal regno in quanto incolpato della tosatura delle monete.

I congiurati ritenendo giunto il momento di agire, decisero di mandare Giuseppe Capece abituato a viaggiare e a conoscenza della lingua francese e tedesca, che aveva  mostrato la sua disponibilità a recarsi a Vienna per concludere il trattato con l'imperatore e concordare l'invio di truppe; solo  il duca Spinelli e il duca di Telese non avevano molta stima di lui in quanto lo ritenevano di carattere doppio e lo consideravano ambizioso, ma non avendo altro da aggiungere non mossero obiezioni.  

I congiurati passarono ciascuno a valutare la congiura sulla base della vendetta che ognuno di essi covava: i duchi della Riccia e di Telese, furibondi per non essere stati assolti nei processi, volevano trucidare il viceré in quanto, secondo la loro opinione,  reciso il pastore si sarebbe disperso il gregge; mentre Tiberio Carafa era del parere che facendolo prigioniero lo avrebbero utilizzato come moneta di scambio senza sporcarsi le mani di sangue e recare offesa alla sua persona; fugata questa ipotesi passarono al vaglio la possibilità di impossessarsi di qualcuno dei castelli per potervisi rifugiare fino all'arrivo delle truppe imperiali e di ciò fu dato incarico al duca Spinelli che aveva molte conoscenze in Castelnuovo.

 

 

I COSPIRATORI

SCELGONO

IL CAPO MILITARE

E DECIDONO

 LE LORO RICOMPENSE

 

 

P

er poter avere un capo militare il duca Spinelli aveva scritto al principe Gaetano Gambacorta di Macchia (*), colonnello di un reggimento di fanteria, legato al principe Giorgio Darmstadt governatore della Catalogna, sembrando la persona più idonea, in quanto si era dimesso appena pubblicato il testamento del re spagnolo in favore del delfino di Francia, sollecitandolo a recarsi a Napoli per appoggiare la sollevazione in favore dell'Austria.

Macchia pur essendo prode soldato, sprezzante dei pericoli e capace di qualunque azione ardita e di temperamento caldo e collerico, era disinvolto nel gestire e scialacquare il suo patrimonio, amante della bella vita, inseguito da debiti e liti, era ridotto in gravi ristrettezze, ma a Napoli godeva di molta popolarità, aveva scioltezza nella parola e possedeva l'arte di infervorare la plebe!

Erano queste le intenzioni dei congiurati quando nessuno sospettava di loro e il regno era privo di qualsiasi difesa e aperto a tutti. 

I congiurati passarono a decidere le concessioni politiche, le grazie e le ricompense per i partecipanti alla congiura che si dovevano chiedere all'imperatore...e non erano da poco!

Infatti, il marchese del Vasto chiedeva il marchesato del Monferrato che  si considerava attualmente detenuto dal fisco imperiale, per fellonia commessa dal duca di Mantova; il principe di Caserta rivendicava il feudo di Fondi per antichi diritti, di recente confiscato a Enrico Francesco Mansfeld al quale era stato concesso da Carlo II come ricompensa per aver accompagnato in Spagna sua moglie la regina; Malizia Carafa richiedeva il principato di Stigliano; il duca Spinelli della Castelluccia, il ducato di Sorrento o secondo altri, il principato di Taranto; il marchese Carafa di Rofrano richiedeva il principato di Salerno; il duca di Telese, la carica di Gran Connestabile (prerogativa dei Colonna fedeli alla Spagna!); il principe di Macchia chiedeva il supremo comando dei castelli del regno, con il principato di Piombino, nel frattempo devoluto all'impero per  la estinzione dei Ludovisi; Carlo di Sangro, la  contea di Cosenza e Giuseppe Capece quella di Nola!

Il principe della Riccia, Giambattista di Capua, non aveva avanzato alcuna richiesta di feudi in quanto aveva dichiarato bastargli la morte del viceré ...ma si era ritenuto più verosimile che non sapendo quale piega avrebbe preso la congiura ... non volesse comparire tra i congiurati!

Chi per generosità non aveva avanzato richieste, era stato Tiberio Carafa che tra tanti personaggi, era l’unico dotato di nobiltà d’animo.

Alle richieste personali erano da aggiungere tutte le altre richieste riguardanti la organizzazione del regno che sarebbe stato affidato all'arciduca Carlo designato re di Napoli, di cui fu stilato un lungo e articolato promemoria affidato a Capece da consegnare all’imperatore.

Capece aveva annunciato pubblicamente di recarsi in Fiandra mentre si diresse prima a Venezia e poi proseguì per Vienna dove trovò che si stavano facendo preparativi di guerra, nonostante molti principi tedeschi fossero contrari in quanto propendevano per il riconoscimento di Filippo.

Leopoldo aveva affidato il comando dell’esercito di trentaduemila uomini al principe Eugenio di Savoia, e non solo era appoggiato dal re d’Inghilterra Guglielmo III, ma stava conducendo trattative segrete con i veneziani che avrebbero fornito vettovaglie e guide per l’attraversamento dei monti.

Inutile dire che le richieste dei congiurati, come abbiamo visto, erano esorbitanti e conducevano allo smembramento di città e di beni della corona e alla ricostituzione dei grandi feudi, eliminati con fatica!

I ministri dell’imperatore consigliarono di condiscendere, salvo poi a decidere sulla base degli eventi, in quanto i trattati con i sudditi erano fondati sulla disponibilità del monarca.

Giuseppe Capece dopo essere stato intrattenuto dall’imperatore, fu presentato dal principe di Lichtenstein all’arciduca il quale gli donò un suo ritratto con cornice in diamanti, dopodiché ripartì per Roma recandosi presso il fratello marchese di Rofrano con il quale frequentavano sia gli ambasciatori di Francia sia di Spagna per non destare sospetti.

 

*) La famiglia Gambacorta era di antica origine pisana; Gaetano Gambacorta  era quarto principe di Macchia e sesto marchese di Celenza.

 

 

IL PAPA

CONSIDERA IL REGNO

FEUDO DELLA CHIESA

 

 

I

l papa aveva offerto a Leopoldo I la propria disponibilità per procurargli qualche ragionevole compenso se avesse abbandonato le sue rivendicazioni sulla eredità di Carlo II, ma l’imperatore gli rispose sdegnato che la successine a Carlo II gli spettava di diritto.

In ogni caso non si poteva fare a meno dell’intervento del papa in quanto il Regno di Napoli e di Sicilia era considerato feudo della Chiesa (*) e spettava al papa, per inveterata consuetudine, la legittimazione non solo del possesso ma la concessione della investitura.

L’arciduca Carlo fece sapere di essere disposto a pagare il censo (settemila ducati d’oro!) e presentare la chinea, un cavallo bianco riccamente bardato, che dovevano essere offerti annualmente alla vigilia di s. Pietro, ma il papa fece sapere che se al momento non riceveva il tributo, non rimanevano pregiudicate le ragioni di ciascuno, fino alla decisione finale.

L'ambasciatore spagnolo Uzeda, avvicinandosi la festività si san Pietro, aveva ricevuto ordini per corriere espresso, che, volesse o non volesse il papa,  doveva provvedere al censo e alla chinea.

Il papa, avuto sentore lo convocò in udienza e gli fece intendere che non aveva nessuna intenzione di concedere l’investitura fino a quando non fosse avvenuto il  riconoscimento del diritto.

L’ambasciatore non sapendo come uscirne, si rivolse a un certo Alfonso di Toralbo, uomo intraprendente e di spirito, il quale presa una cavalla bianca, vecchia e malandata, dopo averla riccamente bardata, la ricoprì per nasconderla, con una coperta e la fece condurre dietro una carretta in Vaticano;  entrato nella camera feudale, dopo i vespri, mostrò al Camerlengo la cavalla a cui aveva tolto la coperta che nascondeva la ricca bardatura e deposta la cedola dei settemila ducati d’oro, andò via, lasciando tutti esterrefatti.

Il papa (Clemente XI), venutone a conoscenza ordinò che si gettasse via la cedola e si cacciasse la cavalla; la povera cavalla, mandata via a bastonate, si aggirò per due giorni per le strade di Roma e alla fine stramazzò a terra  morta di fame.     

Il conte de Lamberg protestò che ciò non poteva costituire riconoscimento  a favore della corona di Spagna e si dichiarò disposto a versare censo e chinea che furono rifiutati: dal che ambedue i monarchi colsero l’occasione di sostenere di essere stati dispensati e per tutto il regno di papa Clemente XI (1721) e del censo e della chinea non se ne fece più parola.  

 

 

*) La questione del REGNO DI NAPOLIE SICILIA ritenuto abusivamente FEUDO appartenente alla Chiesa, risale al periodo normanno quando venuti a battaglia con le forze papali di Leone XI (Civitella 1053), sicuro della vittoria, per l’aiuto del cielo, furono sconfitte; il papa si era rifugiato in città e gli abitanti che non volevano il saccheggio, lo fecero uscire e il papa ritenne di dirigersi verso i normanni; stranamente costoro gli andarono incontro (ecco l’aiuto del cielo!), si misero in ginocchio e cospargendosi di polvere, gli chiesero perdono e la sua benedizione.

Il papa con ottima presenza di spirito, non solo gli diede la benedizione ma prese l’iniziativa di accordare loro l’investitura, in nome di san Pietro come Feudo della Chiesa, di tutto quanto avevano già e avrebbero conquistato (in Puglia, Calabria e Sicilia); in questo modo, scrive Giannone che riprendeva Sismondi, “la Chiesa ottenne con una sconfitta, ciò che non avrebbe ottenuto con una vittoria”!

Infeudando i normanni, il papa si attribuiva la proprietà di territori posseduti da greci e longobardi senza averne alcun diritto e ancor meno, in base alla falsa “Donazione di Costantino”.

Questa fu la prima investitura: seguirono quella di Roberto il Guiscardo quando il papa Niccolò II (1059-1061) riunì un concilio a Melfi (1059, prima capitale normanna) dove si trovava Roberto il Guiscardo, conte di Puglia con tutta la nobiltà normanna; il papa gli confermava il titolo di duca di Puglia e Calabria e, conquistando la Sicilia, occupata da greci e saraceni, anche della  Sicilia quando sarebbe stata conquistata (et futurus Siciliae); questa fu interamente conquistata da Ruggero II e il papa  Innocenzo II (1130-1143) lo investì del titolo di re di Sicilia, alla quale unì la Puglia  (carpita al nipote Ruggero, figlio di Roberto il Guiscardo), la Calabria,  il principato di Capua appartenente ai normanni di Aversa e la repubblica di Napoli.

In precedenza, Ruggero I, conte di Sicilia (fratello di Roberto Guiscardo, 1031-1101), dopo l’arresto dell’arcivescovo di Troia perché Urbano II (1088-1099) lo aveva nominato proprio legato  (1098)  senza il suo consenso, aveva concordato il diritto  di Legazia Apostolicaa  che regolerà i rapporti tra i monarchi normanni e la Santa sede.

Tutti i monarchi che seguirono, che ricorrevano al papa per essere incoronati, dovettero accettare questa usurpazione, sottoponendosi anche all’onere  della chinea (il cavallo bianco riccamente bardato) e del pagamento del tributo (censo).         

 

 

SEGUITO

DEI CONTATTI

DEI CONGIURATI

CON VIENNA

 

 

I

 congiurati a Napoli aspettavano di essere informati sulle decisioni dell’imperatore che Giuseppe Capece ritardava a far conoscere; egli aveva scritto delle lettere ma in termini generici perché gli era stato imposto il segreto e per eccessiva prudenza, ma anche per il secondo fine di attribuirsi in seguito il merito della impresa; ciò aveva sdegnato particolarmente il duca Spinelli che fin dal principio non aveva condiviso la sua scelta,il quale suggerì che si mandasse a Vienna qualcun altro per non dipendere da lui.

La scelta cadde su Tommaso Torres, fratello del gesuita, uomo scaltro e audace che fu fatto partire immediatamente con lettere di Lamberg e dell’ambasciatore austriaco a Venezia, e a Vienna fu presentato dai conti Martiniz e Mansfeld; Torres fece una relazione della organizzazione della congiura; i ministri lo ascoltarono benevolmente ma ritennero di non potersi fidare di lui alla cieca in quanto non aveva lettere del duca Spinelli dal quale egli aveva riferito di essere inviato, il quale in ogni caso non era tenuto in molta considerazione in quanto era conosciuta la causa della espulsione da Napoli del padre!

Ma, poiché le cose riferite erano di estrema importanza, si decise di trattenerlo a Vienna e inviare qualcuno a Roma  per averne conferma; l’incarico fu dato a Francesco di Chassignet, di origine borgognona, il quale era stato segretario del principe Lichtenstein quando era ambasciatore a Roma presso Innocenzo XI, ed anche a Napoli,

Allo Chassignet furono date doppie istruzioni, le prime per il cardinal Grimani e Lamberg in cui si diceva di considerare ufficialmente Chassignet come loro coadiutore; nelle seconde erano contenute istruzioni per lui, che doveva cercare di ottenere segretamente dal papa il permesso per il passaggio delle truppe dirette nel regno; erano indicate le persone di cui non fidarsi in quanto ritenute sospette e il modo di comportarsi con i napoletani; le lettere erano firmate personalmente dall’imperatore e portavano il piccolo sigillo dei dispacci segreti; gli furono date anche lettere del Lichtenstein per Carlo di Sangro e quindicimila scudi per l’ambasciatore Lamberg.

Giunto a Roma, Chassignet dopo aver incontrato Grimani e Lambert, incontro a casa di quest’ultimo, di notte, Capece, di Sangro, Angelo Ceva-Grimaldi i quali assicurarono che a Napoli tutto era pronto e tutti i nobili, eccetto pochissimi, a favore dell’Austria, ma tutti attendevano assolutamente la conferma dei privilegi richiesti: a tal fine chiedevano ...che fossero inviati da Vienna fogli in bianco firmati dall’imperatore...per scrivere ciò che desideravano; chiedevano inoltre che compiuto il colpo, il principe Eugenio di Savoia che già si trovava in Italia), inviasse in loro aiuto quindicimila soldati.

Rimasero però turbati quando gli fu subito detto che i soldati il principe non poteva mandarli; Chassignet cercò di convincerli che non ne avevano bisogno dal momento che il regno era senza difesa e potevano bastare le bande raccolte dal marchese del Vasto e dei principi di Caserta e della Riccia su cui contavano gli imperiali (!)...e affinché i napoletani non si sottraessero all’impegno ...sollecitarono l’assassinio del viceré!

I congiurati si convinsero di fare a meno dei soldati austriaci, ma cominciarono i distinguo tra gli stessi nobili: il principe di Caserta si rifiutava di marciare alla testa dei suoi se non vi fossero suoi pari che facessero altrettanto, ma quando seppe che partecipavano il marchese del Vasto e il principe della Riccia ne fu contento e si mise ad assoldare masnadieri nel suo feudo.

Ripresero le discussioni sui privilegi richiesti e sui fogli in bianco; Chassignet  fece presente che l’imperatore non poteva farlo, ma potevano mettere per iscritto  ciò che desideravano e se le richieste fossero state ritenute ragionevoli, sarebbero state accordate; egli peraltro, aveva una minuta di Lichtenstein ma pensò di non mostrarla, anche per prendere tempo.

 

 

IL VICERE’

PREPARA 

I PRIMI

PROVVEDIMENTI

 

 

T

utto il  movimento di personaggi tra Napoli e Roma non poteva non destare sospetti; i primi a insospettirsi furono l’ambasciatore duca di Uzeda e il cardinale Janson del fatto che tra il principe di Caserta, il marchese del Vasto e il principe della Riccia si stesse tramando qualcosa contro il regno; essi avvertirono il viceré di richiedere al pontefice di trattenere a Roma, dove si trovava, il principe di Caserta al quale fu presto intimato di non uscire dalla città, sotto pena del pagamento di cinquantamila scudi; fu fatto arrestare anche un prete di nome Diaz che aveva pensato di rinchiudersi in una cella sulla cui porta aveva scritto “Archivium imperiale”.

Essi fecero presente a Medina-Coeli che non potevano far da guardia al regno avvertendolo di ciò che si stava tramando; il viceré rispose orgogliosamente che fino a quando governava Napoli non c’era nulla da temere in quanto il marchese del Vasto con tutte le sue ricchezze e la sua boria valeva assai poco, il principe della Riccia era uno di quei volgari scellerati che non hanno altro pensiero che sfogare solo le loro libidini ed era di animo troppo vile per affrontare grandi imprese! Quanto al principe di Caserta, toccava a loro preoccuparsene, visto che essi lo avevamo sotto sorveglianza. 

Ma Medina-Coeli per suo conto, era a conoscenza della assunzione di uomini d’arme che stava facendo a migliaia il marchese del Vasto; egli aveva pensato già di mandare in Abruzzo, in occasione di alcuni torbidi, quattro compagnie di spagnoli per prevenire sbarchi di austriaci da quelle coste, con ordine di rinforzare il presidio della fortezza di Pescara, per il quale si era reso necessario tagliare per lungo tratto gli oliveti di cui il marchese d’Avalos si era grandemente dispiaciuto.

Antonio Buoncompagno, fratello del duca di Sora aveva riferito al viceré che aveva visto parecchia gente armata introdursi nel regno

Il viceré aveva subito nominato vicario degli Abruzzi Giovan Girolamo Acquaviva  duca d’Atri e aveva ordinato al Preside della provincia dell’Aquila, Marco Garofalo, di assoldare gente e tenere sotto controllo la frontiera fino a Fondi; dispose che venissero aperte tutte le lettere della posta, ad eccezione di quella indirizzata all’arcivescovo e al nunzio apostolico e incaricò il principe di Ottajano, Reggente della Vicaria, di vigilare su tutti i forestieri e su coloro che provenivano da Roma e  che avessero contatti con Roma; con questo sistema, furono arrestate persone che avevano contatti con imperiali, ma di poco conto.

Quanto ai congiurati, Medina-Coeli pur avendo qualche lontano indizio nei confronti di Bartolomeo Telese, non aveva motivi di preoccupazione avendolo abbondantemente beneficato; il duca Spinelli gli pareva interessato ad altro; quanto ai Carafa, il prestigio della famiglia e le virtù di Tiberio gli facevano allontanare qualsiasi sospetto, e non sarebbe stato onorevole per lui tacciare di fellonia, senza indizi, i primi esponenti della nobiltà. 

 

 

ARRIVA IL PRINCIPE

DI MACCHIA

SUOI DUBBI

SULLA CONGIURA

 

D

urante tutto questo frangente, giunge a Napoli il principe di Macchia che per non destare sospetti annunciava di essere venuto in licenza per sistemare i propri affari ridotti a mal partito (in quanto, come detto, amava spendere con la massima disinvoltura!); egli aveva mostrato il suo carattere torbido e facinoroso sin dai tempi del viceré Francisco de Benavides, conte di Santo Stefano (1687-1696), in una rissa tra guardie di gentiluomini e soldati spagnoli, uccidendo uno o due di questi e ciò era stato attribuito a odio nei confronti della Spagna in quanto suo fratello, molti anni, prima era stato privato dei feudi per essere  promotore di sedizioni, accusa rivolta anche nei confronti di uno zio.

Il viceré Benavides aveva pensato di allontanarlo, affidandogli il comando di un reggimento di fanteria napoletano di stanza in Catalogna; Medina-Coeli, conoscendo la sua pericolosità si era premurato di fargli avere tutte le possibili agevolazioni per farlo tornare in Catalogna, dove, gli aveva fatto riferire, la sua presenza era più necessaria e di non darsi pensiero per gli affari in quanto sarebbe stata sua preoccupazione sistemarli.

Egli però rimandava, ora per un motivo, ora per un altro, ed era andato ad abitare in una casa nella zona di Donna Regina nelle cui vicinanze avevano dimora i capi congiurati; Macchia era un uomo perspicace e aveva subito intuito quali fossero le difficoltà presentate dalla congiura che erano rappresentate: dalla lentezza e mancanza di risolutezza della corte imperiale e dalla incapacità dei suoi ministri in Roma, dalla potenza della Francia, dalla instabilità del popolo e dalla dubbia fede dei nobili e ciò che era più da tenersi in considerazione, della poca concordia dei napoletani e la loro vicendevole invidia.

In ogni caso il principe promise ai congiurati di essere con loro fino alla fine, comunque fossero andate le cose; era legato da amicizia e parentela con Tiberio Carafa con il quale strinse maggiormente i rapporti stando continuamente in sua compagnia e frequentando le stesse amicizie.

Nel frattempo cadeva la ricorrenza (1° Maggio) dell’onomastico del re e Medina-Coeli la festeggiò con un magnifico carosello davanti alla reggia, con otto squadriglie a cui presero parte i nobili napoletani con abiti superbi e bellissimi finimenti dei cavalli, che non faceva pensare alle prossime turbolenze.

Nelle provincie però cresceva il malcontento contro il governo, fomentato dai congiurati che cercavano di aumentare il numero dei loro sostenitori, mentre a Roma il cardinal Grimani e l’ambasciatore Lamberg, agivano per proprio conto, senza alcun collegamento con i congiurati di Napoli; la continua frequenza di personaggi nella casa dall’ambasciatore della corte imperiale, avevano insospettito i rappresentanti spagnoli cardinale Janson e  l’ambasciatore Uzeda che spiandone i movimenti avevano avvertito il viceré.

Quest’ultimo era venuto a sapere di una congiura a Cosenza tramata da due gentiluomini, Tarsia e Rota e un certo Del Prete, i quali dopo aver pubblicizzato che il vero successore del re di Spagna era l’imperatore, il quale avrebbe inviato i suoi eserciti a occupare Napoli e la Sicilia e avrebbe sgravato la popolazione dalle gabelle che l’opprimevano, avevano programmato di approfittare di una rappresentazione teatrale durante una festività, per far saltare il teatro e uccidere governatore e ministri.

I tre si stavano recando a Roma per conferire con il conte Lamberg e Medina-Coeli mandò i giudici Resta e Affitto con due feluche e cinquanta sbirri a incrociarli presso le isole di Ischia e Procida i quali arrestarono tutti e tre travestiti da religiosi, e fatti scomparire per evitare che la notizia fosse divulgata.

Ne era stata scoperta un’altra in Napoli ordita da un certo abate (*) Aiccardi, della diocesi di Montecassino,  uomo facinoroso, spinto da odio per una ingiustizia subita in una lite, il quale aveva trenta seguaci e si era prefissato di assassinare il viceré e  far trascinare per la città il Vicario Ottajano e il Presidente del Sacro Consiglio.

Aiccardi aveva due compagni uno dei quali era pittore, il quale, nella speranza di avere un premio, lo denunciò al viceré che stentava a credergli, pensando a un tranello, per cui nella  casa del pittore si nascose il commissario Torreson con degli sbirri e giunto l’Aiccardi dopo aver lungamente parlato dei suoi piani, vennero fuori Torreson e gli sbirri e lo arrestarono; portato nel castello di Baia, Aiccardi fu fatto morire tra atroci tormenti.

 

 

*) Abati erano definiti coloro che erano stati chierici e continuavano a vestire da preti per poter usufruire del foro ecclesiastico, ma era gente facinorosa e scellerata dei quali la nobiltà se ne serviva utilizzandoli come bravi.

 

 

 

LE ISTRUZIONI

PER I CONGIURATI

DA

VIENNA

 RITARDANO

 

T

utti questi avvenimenti, avevano suscitato vive preoccupazioni nel viceré che aveva pensato di chiamare a Napoli il marchese del Vasto per arrestarlo, ma si oppose il Collaterale, facendogli notare che non obbedendo all’invito - come era da aspettarsi - sarebbe stato peggio che obbligarlo con la forza, mentre sarebbe stato più opportuno invitarlo a venire a Napoli per dileguare i sospetti che si stavano addensando sulla sua persona, assicurandolo che sarebbe stato accolto con ogni riguardo. 

Poiché non rientrava nei poteri del viceré arrestare un grande si Spagna, egli, segretamente richiese l’autorizzazione alla corte e col pretesto di un controllo dei contrabbandieri, mandò Emanuele de Lossada con cento uomini armati; il viceré voleva far arrestare anche il principe di Montesarchio, denunciato da un suo domestico in quanto aveva detto “che sarebbe stato desiderabile che Napoli fosse governata da un proprio sovrano”, ma fu sconsigliato dal Presidente del Sacro Collegio in quanto una frase del genere non poteva costituire un reato.

Giunti al mese di settembre i congiurati erano preoccupati per tutti gli arresti che avvenivano sotto i loro occhi, sebbene non rientrassero tra  congiurati e delle indagini svolte dal principe Vicario, e fremevano anche perché non vedevano arrivare le concessioni promesse e neanche arrivavano notizie da parte di Capece e Torres; si videro però pervenire un diploma redatto da Lamberg, a nome dell’imperatore, con parte delle concessioni richieste.

Tiberio, pieno di sdegno scrisse a Capece a nome di tutti, tacciando i ministri imperiali di mala fede, rappresentando il pericolo di essere arrestati, che avrebbe costretto alcuni di loro ad andare a trovare rifugio a Costantinopoli, ma che tutti avevano giurato vendetta per chi li avrebbe traditi.

Il duca Spinelli aveva fatto scrivere da padre Torres al fratello per sollecitare da Vienna l’invio del diploma, senza il quale sarebbe andato tutto a monte; il diploma finalmente fu ricevuto (11.ix) accompagnato da istruzioni che raccomandavano:- Di custodire il viceré in Castelnuovo (che i congiurati avevano fatto sapere sarebbe stato da loro occupato), usandogli ogni riguardo conveniente al suo grado, mentre la viceregina doveva essere portata in uno dei monasteri di dame, tra i più cospicui della città; si dovevano rispettare tutti i luoghi sacri; si doveva impedire il saccheggio sia di uffici pubblici sia di case private e non si dovesse usare oltraggio nei confronti di chicchessia.

Da parte del principe Eugenio di Savoia si faceva sapere di non poter mandare nemmeno un uomo in loro aiuto; questa notizia si preferì tenerla nascosta, annunciando invece che sarebbero arrivati seimila fanti e quattromila cavalli al comando del principe di Commercy.

Il principe della Riccia, Giambattista di Capua che si trovava a Benevento, fece sapere (15.ix) che si preparavano a partire mentre i congiurati si stavano riunendo a Napoli.

Giunse per primo da Ischia, partito segretamente, Telese, poi Malizia Carafa che si mostrò risentito con Capece e di Sangro per la lettera che gli avevano mandato a Roma; sopraggiunto Tiberio e accortosi del malumore, avendo capito il motivo, si attribuì la colpa della lettera, scritta, si giustificò, nell’agitazione del pericolo incombente e allentò la tensione riferendo del numero e condizione degli ultimi aderenti al partito, della buona disposizione della popolazione e della preparazione per impossessarsi di Castelnuovo.

Il suo dispiacere invece era sui termini del diploma, troppo generici, che gli lasciavano sospettare che le soldatesche non sarebbero arrivate; ma, per rassicurarlo, da Chassignet furono mostrate le false promesse scritte da Lamberg.

Si decise quindi che il miglior modo per assassinare il viceré sarebbe stato il giorno di san Gennaro, quando sarebbe andato, come di consueto, a vedere (alle 18) le luminarie di piazza Duomo, dove nella calca era facile assalirlo; percorrendo poi la città al grido di Viva casa d’Austria, Viva re Carlo, uccidendo gli avversari e aizzando il popolo contro i magistrati e i nobili più odiosi e nella confusione impossessarsi di Castelnuovo.

Tra i congiurati, chi si mostrava più desideroso di vendicarsi era Giambattista di Capua della Riccia, che sarebbe stato pronto con i suoi masnadieri già dal mattino seguente.

Tiberio Carafa che era il meno animoso e aborriva le nefandezze, pronunciò nobili parole con le quali condannava “un vile assassinio con il quale sarebbe iniziata la conquista della libertà; noi patrizi”, disse “dovremmo essere esempio di onoratezza e virtù  e non fare ciò che persino Masaniello di umili origini, vietò con severi castighi; noi cattolici, nati in una città  che si è sempre contraddistinta per la pietà, contamineremmo la festività del nostro santo tutelare con stragi, rapine, incendi.... Coloro che disprezzano il viceré per i suoi vizi o lo odiano per esserne stati offesi, sono ben pochi di fronte alla massa dei vili adulatori e del popolo abituato al servaggio che si appaga della sua apparente generosità e magnificenza.... per incontrare minori difficoltà per abbatterlo ci conviene screditarlo togliendogli la maschera e scoprendo le sue disonestà”.

Tutti sappiamo, proseguì Tiberio, che la notte va in giro da solo per non farsi riconoscere, frequentando postriboli; questo è il momento per prenderlo e farlo a pezzi se vi aggrada, ma averlo vivo, se non per religione o onore, potrebbe servirci come ostaggio; considerate che molti di quelli che sono entrati nel nostro partito, non sono stati resi consapevoli di tutto, cosa diranno quando vedranno la città andare a ruba e a sangue, vedendosi così traditi? “Preferisco”, concluse Tiberio, “mille volte essere da voi sacrificato e che sfoghiate nella mia persona il vostro mal talento”.  

Tutti rimasero commossi e assentirono, escluso Telese che rivolto a Tiberio gli disse bruscamente di tacere; si stabilì che l’incontro con quelli provenienti da Roma era fissato all’alba del giorno (22 ix) e Tiberio avrebbe trovato il luogo per nasconderli fino alla uccisione del viceré e alla presa di Castelnuovo e il popolo sarebbe quindi stato sollevato e uccisi coloro che avrebbero opposto resistenza.   

 

 

LA MACCHINA

DELLA CONGIURA

INCOMINCIA

A  INCEPPARSI

 

 

S

embrava che tutto dovesse andare per il verso giusto...ma qualcosa si stava mettendo  di traverso!

Abbiamo visto che il viceré aveva dato disposizioni di controllare le lettere della posta; tra queste ne vennero intercettate alcune indirizzate al padre teatino Giovanni Vigliena, del monastero di santa Maria degli Angeli, fratello del marchese di Longano e familiare di Lamberg, tutte criptate, ma si riuscì a capire ugualmente che vi era una congiura in corso; arrestato e portato in Castelnuovo non rivelò nulla di importante, ma il consigliere Torreson trovò nella sua cella altre lettere che indicavano diversi nomi: furono tutti arrestati escluso un certo Avena, nel frattempo scomparso.

Il viceré scarseggiava di soldati e dovette assumere cinquecento briganti per servirsene in caso di tumulto; egli era stato avvertito della partenza da Roma del barone di Chassignet, del  quale l’ambasciatore Uzeda mandò il ritratto per facilitare il riconoscimento; il vicario Ottajano faceva la ronda con trecento sbirri, con perquisizioni in alberghi e ville circostanti isolate, arrestando parecchi napoletani e provinciali, anche ecclesiastici; il vicario era riuscito a prendere Avena il quale dopo essere stato messo sotto tortura e aver confessato tutto, fu segretamente strangolato.

Anche il  Vigliena, non riuscendo a resistere alla tortura confessò di essere a conoscenza che alcuni gentiluomini congiuravano a favore dell’Austria, ma non sapeva chi fossero; sapeva però che il gesuita Torres era al corrente di tutto; padre Torres era andato a vedere le luminarie in piazza Duomo con due compagni e gli sbirri, non conoscendolo, presero gli altri due e lui riuscì a dileguarsi tra la folla; il suo superiore dopo averlo sciolto dai voti lo inviò nello stato pontificio e quando giunse il fiscale della Guardia, gli fu detto che Torres era stato espulso dalla Compagnia in quanto erano venuti a sapere che si interessava di cose politiche.  

Castelnuovo era pieno di arrestati e il tentato arresto di padre Torres diffuse il panico tra i congiurati che pensavano che la congiura fosse stata scoperta; il duca Spinelli che aveva da temere più degli altri, era atterrito e si rivolse a Malizia Carafa perché gli trovasse un rifugio e Malizia lo fece nascondere fuori città, nei pressi del Cavone di s. Gennaro, nella casa del sarto Domenico Chiariello che gli faceva da guardia.

La sera Malzia ritorna con Tiberio e il principe di Macchia e trovano Spinelli sopraffatto dallo spavento che sembrava uscito di senno, dicendo che era stato tradito e di voler fuggire in Turchia; rimproverato per la sua debolezza e pusillanimità, si calmò prendendosela con Capece e di Sangro, imponendo la condizione che si doveva fare a meno di loro, anche per la uccisione del viceré e l’occupazione di Castelnuovo.

 

 

IL TENTATIVO

D’IMPADRONIRSI

DI CASTELNUOVO

FALLISCE

 

 

I

l duca Spinelli quando in tempi passati era stato detenuto in Castelnuovo, aveva conosciuto un soldato di nome Gioacchino del Rio, figlio del sergente maggiore del castello; messosi in contatto con del Rio, il duca era riuscito a corrompere, distribuendo diecimila ducati, due terzi del presidio, tutto di spagnoli, promettendo loro il saccheggio del palazzo reale e l’aumento dello stipendio.

Il duca, tra le sue guardie, aveva un certo Giovanni  Bosco,  detto abate Cazzillo,  incaricato di arruolare ottanta suoi camerati da introdurre, verso sera e alla spicciolata, nel castello; essi sarebbero stati riforniti di armi da un aiutante della armeria di Giuseppe Massa, anch’egli entrato nella  cospirazione; con il padre di Gioacchino del Rio era stato anche concordato di tenere occupato il comandante del castello, perché non si insospettisse nel vedere gente insolita aggirarsi in quel luogo; quando essi sarebbero stati avvertiti che il viceré era stato ucciso, si sarebbero dovuti impossessare del castello e quindi si sarebbero impadroniti del porto e delle galee, segnalando la buona riuscita con alcuni colpi di cannone; dopo di che i congiurati a cavallo sarebbero andati in giro per la città, acclamando Carlo re di Napoli.

Quanto all’assassinio del viceré, non vi sarebbero state difficoltà in quanto egli all’inizio della serata, dopo la passeggiata, era solito recarsi accompagnato da un solo domestico in casa di una cortigiana; i congiurati sarebbero stati guidati da Nicola Anastasio che dopo essere stato cocchiere di Spinelli era passato alle dipendenze del viceré che lo aveva licenziato alcuni giorni prima; l’accompagnatore del viceré era stato corrotto dall’Anastasio perché aprisse la porta; dell’assassinio era stato incaricato Nicola Rispolo, maestro di scherma, soprannominato Alimento, che avrebbe portato con sé altri sei schermidori, che si sarebbero incontrati andando a cenare prima nell'osteria di Castelnuovo (considerata una delle migliori della città).   

Nelle vicinanze di questa osteria vi era la bottega di un armaiolo di nome Ottavio Nicodemo al quale Giuseppe Massa aveva chiesto se poteva tenere per l’indomani, ottanta fucili e altrettante pistole, col pretesto di doverle pulire, raccomandando il massimo silenzio; Nicodemo, che prima aveva acconsentito, quando Massa la mattina seguente si presentò con le armi, si rifiutò dicendogli che non voleva  impicciarsi di una simile faccenda; alla fine, dopo molte insistenze, Nicodemo accettò e dopo averle caricate, il Massa andando via, gli indicò a chi dovessero essere consegnate.

Nicodemo, spaventato, andò a raccontare il fatto al fratello avvocato di nome Nicolò, il quale, allettato dalla speranza di ottenere come ricompensa qualche magistratura, si precipitò a palazzo dove conosceva il bibliotecario, il prete Nicolò Sersale, dicendogli che aveva cose urgenti da comunicare al viceré; il bibliotecario disse che non poteva disturbarlo a quell’ora, durante il riposo pomeridiano, ma dopo insistenze sulla gravità di ciò che doveva riferire, fu introdotto alla presenza del viceré, raccontando l’accaduto.

Il viceré rimase sbalordito per trovarsi sull'orlo del precipizio senza essersene reso conto, e si precipitò a prendere provvedimenti prima che i cospiratori si accorgessero di essere stati scoperti; mentre chiese a Nicolò di avvertire il fratello di tenere sotto controllo l’armeria, mandò a chiamare il generale Restaino Cantelmo duca di Popoli, che con il fratello cardinale si trovava in gita a Pozzuoli e lui si recò a fare la sua solita passeggiata in carrozza con il vicario Ottajano, per non destare sospetti.

Passando dalla casa del presidente Ulloa, dove la Giunta di Stato  stava tenendo una  riunione, convocò tutti immediatamente a palazzo, dove convennero separatamente, consiglieri di Stato, di guerra e capi dei tribunali.

Contemporaneamente Castelnuovo fu fatto sgomberare da tutte le persone estranee e furono chiuse le porte, facendo passare dal ponte che comunicava con la reggia la compagnia di spagnoli che custodiva il palazzo, che occuparono la piazza d’armi, e furono sostituite le sentinelle, mentre ai soldati del presidio fu ordinato di uscire  dalla porta della marina; la sera, Massa fu arrestato e dopo che il viceré gli aveva assicurata la impunità, egli riferì ogni cosa e la trama della congiura fu così scoperta.

Nella piazza davanti al castello si erano incontrati Gioacchino del Rio, lo schermidore Rispoli, l’abate Bosco e  il duca Spinelli, come d’accordo, ignari di ciò che stava accadendo alle loro spalle; peraltro  degli ottanta uomini assoldati dal Bosco all’osteria, se ne erano presentati solo tre, che erano stati mandati via quando era stata chiusa la porta del castello; giunsero quindi Macchia e i due Carafa in carrozza seguita da altre tre piene di armati e da molti altri a piedi che seguivano alla spicciolata,   

Del Rio avvicinatosi alla porta del castello per fare alle sentinelle il segnale convenuto, la trovò chiusa e ne fu turbato; ritenendolo comunque un contrattempo, rassicurò gli altri dicendo che all’alba la porta sarebbe stata aperta per fare entrare la carne proveniente dal macello e loro si sarebbero potuti introdurre.

Spinelli lo prese per un braccio e lo tacciò di essere un traditore e rivoltosi contro Bosco, a causa degli abati che non si erano presentati, lo maltrattò dicendogli che gli aveva solo rubato del denaro.

A questo punto tutti convennero che occorreva a ogni costo ammazzare il viceré, al che Spinelli commentò: “dove poi ci salveremo?” e Tiberio, di rimando, “dove ci salveremmo al presente, così faremo all0ra”.

Mentre i congiurati  all’esterno del castello discutevano con i tre abati che riferivano che quando erano nel castello, all’improvviso erano stati fatti uscire, Gioacchino del Rio  era rientrato nel castello attraverso la porta del parco che per comodità dei ritardatari, veniva fatta chiudere più tardi, ma appena entrato fu arrestato; i congiurati che erano fuori a discutere, notarono che dai torrioni con i fuochi venivano fatti segnali che avvertivano gli altri forti e venuti a conoscenza che il viceré aveva convocato  la Giunta di Stato e il Consiglio di guerra, si resero conto di essere stati scoperti.

 

L’ASSALTO

E IL SACCHEGGIO

DI CASTEL CAPUANO

 

I

 congiurati si erano recati  al Cavone di S. Gennaro riunendosi in casa di Chiarello, dove una parte rinfacciava all’altra il fallimento e si formarono due partiti, uno con Carlo di Sangro e Chassignet che ritenevano opportuno attendere gli aiuti  dell’Austria, e l’altro, in maggioranza, di chi riteneva che fosse opportuno dileguarsi, redarguito da Tiberio Carafa, appoggiato da  Macchia e Capece, il quale sosteneva che ciò significava darsi vilmente alla fuga lasciandosi dominare dalla tirannide.

Si decise quindi di sentire il parere dei capi popolani dai quali fu inviato il prete De Filippis e il fratello di Chiarello, mentre essi sarebbero andati ad attendere la risposta nella chiesa di san Gennaro; Tiberio poi rimproverava al duca della Castelluccia di aver mal disposto la presa di Castelnuovo, mentre quest’ultimo gli rinfacciava di essersi opposto assieme a Malizia, alla uccisione del viceré la sera del diciotto (settembre), quando avevano avuto tutto l’agio di farlo.

Nel frattempo giunge il prete con la risposta che tutti erano pronti a seguire la loro sorte, si diressero verso la contrada dei Vergini al largo delle Pigne dove ad essi si unì Saverio Rocca, fratello del marchese di Vatolla e con cento armati, preceduti da Chassignet a cavallo, che portava il ritratto dell’arciduca, seguito da Macchia, i due Carafa, Castelluccia e Capece si recano a Porta san Gennaro gridando Viva la casa d’Austria, Viva re Carlo, Non più gabelle per dieci anni;  Carlo di Sangro, per la infermità  da cui era travagliato li seguiva in carrozza con un armigero.

Al loro apparire, la ronda che si trovava in quel luogo, si dà alla fuga; ad essi si uniscono tutti i macellai e popolani del posto; i congiurati gettano monete nelle botteghe e nelle abitazioni che trovano aperte, chiamandosi a vicenda per far sapere che erano presenti (marchese del Vasto, principe di Caserta, principe della Riccia); scendendo per san Lorenzo verso la Selleria ad essi si uniscono gli operai della seta e della lana (che vanno a forzare le carceri di queste arti), si aggiungono molti popolani giunti con coltelli, bastoni e spiedi, chiedendo armi.

Furono scassinate molte botteghe di archibugieri in san Pietro Martire e nella contrada degli Spadari; giunti al Mercato, dalla parte di san Eligio, per non essere colpiti dalle artiglierie del torrione del Carmine, essendosi fatto giorno, con la piazza piena di contadini venuti a vendere le loro derrate, l’avvocato Saverio Panzuto (letterato e poeta che qualche mese prima il viceré aveva ascritto all’accademia costituita nel palazzo reale) entrato nella congiura, salito su una botte li arringa sparlando del governo spagnolo e dicendo che ai confini si trovano diecimila tedeschi e stava per giungere l’arciduca Carlo e i principi di Caserta, della Riccia e il marchese del Vasto con schiere di armati; lo stesso fece il principe di Macchia recandosi alla Conceria e alla Pietra del pesce, dove spargendo denaro  decantava i benefici del prossimo governo austriaco, promettendo l’abolizione della gabelle e  ogni specie di franchigie.

Tutto ciò avveniva sotto gli occhi del castellano del Carmine che ritenne non prendere iniziative mentre i rivoltosi non seppero approfittare per farlo arrendere; non solo, ma ignoravano che in quelle vicinanze vi era una cloaca che conduceva direttamente al castello che avrebbero potuto occupare semplicemente attraversandola; infine  non seppero far sollevare i marinai (v. sotto Lo sfogo del marinaio,,,), i quali erano passati dalla parte degli spagnoli, decidendone la vittoria.

I rivoltosi erano circa seimila (comprese donne e bambini!) che si erano diretti a Castel Capuano, sede dei tre supremi Tribunali, del Sacro Collegio, della Regia Camera e della Gran Corte della Vicaria sotto la sorveglianza di otto custodi dove, al pianoterra si trovavano le carceri.

Ivi giunta verso mezzogiorno, la torma di popolo, atterrate con furia le porte e schiantando i cancelli di ferro delle carceri e le cancellate delle finestre, liberano i duecento prigionieri dei quali alcuni se ne andarono, altri, ritenendo che sarebbero stati riacciuffati, si recano a consegnarsi dai magistrati.

I rivoltosi si diressero verso le cancellerie e gli archivi e dispersero tutti i documenti, poi raggiunsero le cappelle e si appropriarono di ciò che vi era all’interno prendendo anche il batacchio della campana del Sacro Consiglio; è saccheggiato  il Tribunale detto della Bagliva di san Paolo e quello della trombetta della Gran Corte della Vicaria dove erano depositati tutti i beni pignorati; poi si diedero a saccheggiare gli appartamenti degli ufficiali,  incominciando da quello di Plastena, odiato dalla plebe e dai nobili per aver mal governato nel periodo in cui aveva ricoperto la carica di Eletto del popolo; egli si rivolge a Telese il quale gli risponde che non si facevano eccezioni, ma sopraggiunto Tiberio, ordinò che fosse lasciato andare e, preso da compassione per la famiglia del capo carceriere  Avossa, in quanto la figlia si era gettata ai suoi piedi implorandolo, impose la restituzione  di ciò che era stato depredato.

Tra le case prese d’assalto vi fu quella del fiscale criminale (Procuratore) Filippo Vignapiana di fronte alla chiesa dei Gerolomini, odiato per la sua eccessiva severità; non avendolo trovato di persona, i rivoltosi sfogano la loro rabbia buttando masserizie, processi e libri dalle finestre e alla moglie che si era data alla fuga  strappano i pendenti dalle orecchie.

Il danno maggiore provocato da questa rivolta fu data dalla perdita dei registri fiscali riguardanti le proprietà e le liti dei feudatari, a ciò erano stati particolarmente istigati i popolani in quanto ai proprietari interessava far disperdere le tracce dei loro processi e i titoli delle loro proprietà; furono così distrutti, buttandoli  dalle finestre e accendendo roghi, tutto l’archivio aragonese, parte dei registri della cancelleria angioina, molti dei Quinternoni e cedolari che contenevano le investiture dei feudi, gran quantità di scritture riguardanti le finanze del regno e quelle della segreteria del Sacro Consiglio oltre alla sterminata mole dei processi; al che, avendo Chassignet meravigliato, chiesto la ragione di questa distruzione, Macchia gli risponde che  doveva sentirsi più interessato degli altri e da Castelluccia e Telese che la distruzione degli archivi giovava alla nobiltà; quanto al fiscale,  se l’era meritato per la sua  durezza e crudeltà!

 

 

I CONGIURATI

OCCUPANO

IL MONASTERO

DI SAN LORENZO

 

 

I

 congiurati contenti di essere seguiti da un tal numero di popolo, si recano al monastero di san Lorenzo, sede del Corpo della Città e dei magistrati del Comune, con un robustissimo campanile e sulla porta accanto alla chiesa vi mettono un ritratto dell’arciduca Carlo, acclamandolo a suon di trombe e della campana grande,  con applausi della moltitudine che vi si era riunita.

Sono convocate le Piazze e gli Ordini dei cittadini, mentre l’avvocato Panzuto legge nuovamente l’Editto (firmato da sette dei nove capi della congiura: Macchia, Spnelli, due Carafa, Telese, Capece e di Sangro; aggiunte quelle del marchese di Vasto e del principe di Caserta), mentre il principe di Macchia interveniva per spiegarne il contenuto alla plebe; è emanato anche un bando in nome del nuovo re per obbligare i fornai a panificare normalmente senza aumentarne il prezzo.

La folla riunita era composta soltanto da popolani armati di coltelli, bastoni,  spade rotte e anche spiedi che confusamente inneggiavano all’imperatore, all’arciduca e anche al re di Spagna, senza aver cognizione di chi fossero;  tra di essi vi erano solo pochi civili; gli artigiani avevano chiuso le loro botteghe per mettere in salvo i loro beni; regnava la costernazione perché non si vedeva nessun arrivo di austriaci, assicurato come imminente dai congiurati,  in quanto la notizia era completamente falsa. 

Era la notte del 23 settembre; sebbene una parte della nobiltà avesse promesso di congiungersi ai congiurati non appena sarebbe iniziata la sollevazione,  essa era andata invece a riunirsi attorno al viceré,

Si erano radunati a palazzo i Reggenti, i vari Giudici e tra gli esponenti della nobiltà,  il principe di Ottajano, il duca di Popoli, don Emmanuele de Sylva, fratello del conte di Sifuentes generale delle galee di Sicilia, appena giunto con le galee.

Fu mandato a chiamare l’Eletto del popolo il quale era giunto nel frattempo con alcuni capitani delle Ottìne con altri civili; giungono anche il duca d’Atri, i principi di Ferolito e Belvedere, i Carafa di Maddaloni, i Giovinazzo e molti altri della nobiltà che erano a conoscenza della congiura, ma visto l’esito infelice che si prospettava,  avevano ritenuto più sicuro parteggiare per il governo, sia per farsene un merito con il re e sia per invidia nei confronti dei congiurati che dalla rivolta avrebbero acquistato maggior prestigio e maggiore autorità!

Tra costoro erano Paolo Carafa della Roccella, Giovan Battista Caracciolo di Martina, membri della casa di Canaviglia di San Marco, il principe di Sansevero e il marchese di San Lucido fratello di Carlo di Sango, Girolamo e Bernardino Acquaviva di Conversano; si presentarono anche quaranta francesi che avevano dimora a Napoli.

Tutta questa gente rincuorava il viceré il quale era preoccupato per le notizie contrastanti che gli giungevano; alcuni dicevano che si era sollevata l’intera città, altri, soltanto il popolo minuto e altri ancora che i rivoltosi erano sessantamila, per cui egli mandò alcuni capitani per avere notizie più precise.

Nel frattempo si verificava un fatto tragicomico: dalle carceri di san Giacomo degli Spagnoli dove erano stati forzati tutti i cancelli, era scappata una mucca ferita,  che legata con una corda, si era liberata ed era fuggita per via Toledo dirigendosi verso il palazzo, inseguita da una frotta di gente che urlando tentava di prenderla...dando l’impressione che si stesse tentando di assaltare il palazzo reale; i soldati di guardia  si schierarono nella piazza per difendere la porta d’ingresso; all’interno del palazzo, nel cortile, staffieri e servitori, allarmati, non avevndo via di fuga in quanto erano stati chiusi tutti i cancelli, ruppero la porta che comunicava con l’arsenale, con costernazione del viceré.

Carlo Carafa figlio del duca di Maddaloni e il generale de Sylva gli suggerirono di ritirarsi in Castelnuovo e dopo una prima resistenza, egli con la corte e tutte le dame che  i mariti per sicurezza avevano portato seco, si recarono a Castelnuovo da dove il viceré inviò un comunicato a tutte le autorità della provincia e a tutti i baroni del regno,  con cui avvertiva del tumulto ma che nessun castello era stato occupato e il tumulto sarebbe stato in breve tempo domato: che avvertissero i feudatari del loro debito (nei confronti della corona), preparassero viveri e inviassero a Napoli armati in quanto la guarnigione di stanza era stata assottigliata per essere stati inviati soccorsi a Milano.

Poiché la custodia del forte dell’isola d’Ischia era stata affidato ai del Vasto, attesa la sua importanza strategica per la sua vicinanza alla capitale, fu inviato un nuovo castellano che non ebbe nessuna difficoltà a subentrare.

Dall’altra parte dei rivoltosi, il popolino, col pretesto di cercare armi si introduceva nelle case dei privati approfittandone per estorcere danaro; il principe di Macchia emise quindi un bando con cui avvertiva che chiunque avesse saccheggiato o manomesso beni altrui, sarebbe stato passato per le armi, e gli abusi cessarono immediatamente.

In Castelnuovo il viceré era incerto sulla decisione da prendere anche perché mancavano i viveri per tutta la gente che vi si era trasferita, quando si presenta il principe di Montesarchio Andrea d’Avalos, novantenne, che aveva partecipato (stando dalla parte dei baroni) alla rivolta di Masaniello (1647), il quale avendo saputo che la plebe si stava poco a poco allontanando dai ribelli, chiedeva due compagnie delle guardie reali a cavallo; i presenti rincuorati dal coraggio del nobile novantenne, si offrono di accompagnarlo e da Castelnuovo escono il d’Avalos portato in seggetta, con ai lati i capitani delle strade, seguiti dalle compagnie delle guardie reali oltre a soldati delle galee venute dalla Sicilia; il viceré, perplesso, voleva richiamarlo, fermato dal Collaterale che gli suggeriva di tentare, appoggiato dal principe  di Castiglione Tommaso d’Aquino, che suggeriva che la plebe non appena avesse visto il drappello avrebbe acclamato il re Filippo.  

Il principe d’Avalos si fece portare prima al Molo piccolo dove risiedevano i marinai che avevano servito ai suoi ordini quando era stato generale delle galee di Sicilia e gli erano rimasti affezionati e li chiama per nome, uno ad uno; non appena lo vedono tutti gli vanno incontro baciandogli la mano; il principe li invita ad armarsi e seguirlo; di questi marinai solo uno gli ricorda come i nobili si erano comportati con loro durante la rivolta di Masaniello (v. sotto); nel frattempo giunge il drappello a cavallo dei gentiluomini che si erano offerti, armati e guidati dal principe di Valle, Giuseppe Piccolomini e Montesarchio si allontana con questi.

Man mano che procedevano sia dalle strade sia dalle finestre, tutti acclamavano il re Filippo; uno solo osò gridare Viva l’imperatore e fu ucciso all’istante da un soldato; percorsa tutta la marina  il marchese Nicolò Navarrete della Terza volle recarsi al Mercato; al loro avvicinarsi il castellano del Carmine non sapendo chi fossero, fece uscire dei soldati sulla piazza, ma chiarito chi fossero, diede il permesso di far venire in piazza anche gli altri.

I congiurati con il principe di Macchia erano arroccati in san Lorenzo e alcuni nobili suggeriscono di mandare i cannoni, ma Montesarchio ritenne che si era giunti alla fine del giorno e ciò che era stato fatto era abbastanza e tra le acclamazioni se ne torna in Castelnuovo.

Il viceré avendo saputo dell’accoglienza riservata a Montesarchio, su suggerimento del Collaterale, la sera stessa (23 settembre) bandisce l’indulto, concesso sia ai carcerati usciti dalle prigioni, sia a tutti coloro che entro dodici ore (prorogate per altre ventiquattro) avessero rinunciato alla ribellione, promettendo la taglia di seimila ducati per ognuno dei capi della ribellione e ottomila per chi li avesse presi vivi, nonché una dilazione di sei mesi per i debitori che avessero debiti sotto i mille ducati.

Non appena venuto a conoscenza dell’indulto, il popolino si riversa a Castelnuovo e quelli che si erano appropriati di cose altrui vanno a depositarli nelle piazze per evitare che fossero trovate nelle loro case.

 

 

LO SFOGO

 DEL MARINAIO

CON IL PRINCIPE

DI MONTESARCHIO

 

 

I

l principe d’Avalos di Montesarchio si era recato al Molo piccolo per arruolare i marinai, tutti, come abbiamo visto, gli vanno incontro e gli baciano la mano,  ma uno di essi, alla sua richiesta, gli risponde altezzosamente, ricordandogli le crudeltà dei nobili nei loro confronti, quando avevano sostenuto  la rivolta (1647)  di Masaniello, dicendogli: ”Signor principe, quando noi ci sollevavamo, avendo a capo Masaniello cinquant’anni fa per sottrarci alla oppressione e rivendicare alla città i privilegi dati da Carlo V, voi cavalieri, invece di sostenerci, uniste le vostre forze a quelle degli spagnoli per debellarci; essi erano in quel periodo deboli ed esausti per le guerre e se tutti fossimo stati concordi, saremmo riusciti a liberare la patria dalla tirannide; voi allora per i vostri interessi e ambizioni ci abbandonaste e di noi per opera vostra  fu fatto scempio, con tanta crudeltà  che tra coloro che ora chiamate in vostro aiuto, non vi è quasi nessuno che non abbiate privato di genitori o di qualche congiunto, morto tra infami supplizi. Ora noi miseri plebei, invece di esporci per essere bombardati dal naviglio francese, ce ne staremo tranquilli a osservare i vostri nobili sforzi, e vi basti che non vi contraccambiamo come meritate; seguitate pure a combattere per ottenere ciò che sostenete di volere per la comune patria, che non vi faremo alcun male; aspetteremo, per plaudire alla fine chi avrà vinto”.

Queste amare parole punsero sul vivo il principe che preferì andar via senza profferir parola.

 

 

 L’OCCUPAZIONE

DELLA CHIESA

E DEL  CAMPANILE

DI SANTA CHIARA 

 

 

 

L

e promesse di Macchia e degli altri congiurati, circa l’arrivo degli austriaci, risultavano fatte al vento in quanto non era arrivato nessun esercito e nessun aiuto; il principe, uscito a cavallo in compagnia dei due Carafa e di Saverio Rocca si dirige verso la chiesa di Santa Chiara per occupare il possente campanile e anche le Fosse del grano, in quanto avevano saputo che gli occupanti di Castelnuovo ne erano privi e si erano dovuti sostenere con il biscotto delle galee siciliane.

Tiberio e Malizia, dopo aver forzato la porta del campanile, vi lasciano un presidio, e lasciano presidi anche alle porte Alba e Santo Spirito, alle Fosse del grano e alle Cisterne dell’olio; Malizia si dirige al Seggio del porto dove, per via dei Costanzi incominciò a urlare “Viva l’imperatore, Viva Carlo VI re di Napoli, Fuori gabelle per dieci anni” ...ma furono in pochi a rispondere e qualcuno gli disse pure: “pensate  voi ad avvantaggiarvi, che noi ci accontentiamo del nostro stato” ! 

Tutti i posti dove erano state lasciate delle guardie nel frattempo erano stati abbandonati e vi erano rimasti i soli fedeli dei propri padroni, per cui Chassignet, di Sangro, e Capece, sapendo che il principe Eugenio non avrebbe mandato soldatesche e si poteva contare poco sul principe di Caserta, erano del parere di approfittare della notte per porsi in salvo.

Il duca Telese si mostrò d’accordo, mentre Castelluccia e Macchia non credendo che il principe della Riccia avesse potuto tradirli (come gli aveva appena riferito Capece), illudendosi che i suoi uomini avessero potuto sostenerli fino all’arrivo del principe di Caserta e del marchese del Vasto (di cui ignoravano la partenza dal regno!), e di poter ancora arruolare gente dopo la (prossima!) sollevazione di Aversa, Capua e della provincia del Molise, come i rispettivi feudatari avevano promesso, si opposero decisamente alla fuga e prevalsero sugli altri.

Il principe della Riccia aveva ritardato l’intervento con i suoi uomini, in quanto  era in attesa di conoscere da uomini che aveva mandato in esplorazione a Napoli, i  risultati della cospirazione e aveva mandato un gruppo di sessanta uomini al comando di Domenico Oliva, detto il Lupo, che era stato capitano di giustizia ma si era macchiato di numerosi delitti e si era messo al suo servizio, era giunto a San Lorenzo durante la notte, ma erano pochi  rispetto alle necessità, da non essere in condizioni di poter mandare gli aiuti chiesti dai Carafa a Santa Chiara; essi fecero ancora scrivere da Chassignet al conte di Lamberg comunicandogli di aver occupati posti importanti, ma che avevano bisogno di soldati e di danaro.

Il silenzio della notte era stato così profondo che si era creduto che i congiurati si fossero dati alla fuga; le voci che correvano erano dell’arrivo dei corpi dei potenti baroni della Riccia, di Caserta e del Vasto e dei soldati imperiali che si stavano dirigendo verso Napoli che destavano le preoccupazioni del viceré e dei suoi ministri, non solo ma si sospettava che a palazzo e in Castelnuovo si fossero introdotti sostenitori dei congiurati, come si sospettava di Girolamo e Bernardino Acquaviva o di Domenico di Sangro fratello del principe di Sansevero, Carlo di Sangro, capitano di una delle due compagnie delle guardie a cavallo, il quale aveva promesso che alla prima occasione sarebbe passato dalla parte dei congiurati e nonostante egli avesse partecipato alla espugnazione di San Lorenzo, quando giunsero gli austriaci era stato da essi nominato principe di Castelfranco.

Si erano formate due opinioni: Mentre da parte dei Reggenti del Collaterale si sosteneva fosse mandata l’artiglieria ad espugnare San Lorenzo e Santa Chiara, il duca di Popoli, il principe di Ottajano  ed altri, erano del parere che ricorrendo alle armi si sarebbe rischiato di perdere la capitale se non il regno; ma l’intervento  del Reggente Gennaro d’Andrea fece prendere la decisione di stanare i ribelli il mattino seguente.

I Carafa si erano insediati in Santa Chiara e da costoro si era recato il duca della Casettluccia per avvertirli dell’ imminente arrivo di Oliva, il cui contingente era comunque  limitato; essi gli raccomandavano di riferire al principe di Macchia, che se fosse nuovamente uscito Montesarchio, sarebbe stato meglio andare ad affrontarlo anziché  essere assaliti.

Anche Carlo di Sangro era d’accordo ritenendo che sarebbe stato più vantaggioso attaccare gli avversari dall’alto delle case, lungo le anguste e tortuose strade della città (che sarebbe stata la soluzione migliore! ndr.); il principe di Macchia si mostrò contrario dicendo che con le barricate si sarebbero potuti difendere meglio (Macchia mostrava di non essere un buon stratega dal momento che questa decisione li faceva rimanere imbottigliati comportando, una inutile posizione di difesa non sostenibile, come avvenne! ndr.).

Macchia quindi sul far del giorno, rivedute le barricate e disposte le guardie nei diversi punti, dopo aver pagato lo stipendio a centosessanta uomini arruolati dal popolo, si recò in compagnia di Oliva a rinforzare il torrione di Porta Alba, le Fosse del grano e perlustrare i quartieri bassi della città, sollecitando il popolo a non abbandonarli, e a Castel Capuano, dove si  continuava nella devastazione di non lasciare pietra su pietra né un foglio di carta” (!).

Avendo chiesto a un pizzicagnolo dove fossero stati portati i cannoni che avevano sparato le salve per il re Filippo, egli rispose di non saperlo e dopo averlo minacciato di tagliargli la testa, rassicurato da Oliva che diceva il vero, essendo stato  informato che Montesarchio era nuovamente uscito da Castelnuovo, se ne tornò in San Lorenzo.

 

L’ASSEDIO

A SANTA CHIARA 

DELLE FORZE

DEL VICERE’

 

 

 

A

llo spuntar del giorno, in presenza del viceré, da Castelnuovo, con Montesarchio e il duca di Popoli escono le milizie che si erano potute raccogliere (ma l’intero corpo era consistente rispetto al numero degli assedianti! ndr.), costituite da duecento soldati di campagna e alcuni granatieri spagnoli, seguiti dalla compagnia a cavallo di Domenico di Sangro e molti nobili che si erano offerti di combattere, dei fanti spagnoli, due compagnie delle galee di Sicilia e un drappello di gentiluomini che non avevano potuto procurarsi i cavalli guidato da Giambattista Caracciolo di Martina, ai quali si erano uniti dei borghesi e cento francesi che si erano anch’essi offerti di combattere.

Giambattista Caracciolo inizialmente aveva fatto parte dei congiurati, ma resosi conto che la congiura non avrebbe avuto un esito felice, era tornato a palazzo, come avevano fatto molti altri.  

Montesarchio, portato in seggetta era  seguito dal maestro di campo Giambattista Recco, con duecento spagnoli e un’altra compagnia di guardie reali e disponeva anche di due cannoni.

Incamminatisi per via Toledo, giunti al palazzo Maddaloni, il duca di Popoli manda un distaccamento a occupare le Fosse del grano e Porta Alba, con l’ordine di discendere per San Sebastiano e attaccare il campanile di Santa Chiara da quella parte, mentre lui sarebbe arrivato dalla Piazza del Gesù Nuovo dove era una  barricata di botti che chiudeva la strada, fra la porta maggiore del cortile di s. Chiara e il monastero dei gesuiti;  contro di essa il duca di Popoli fece piazzare uno dei due cannoni; l'altro cannone lo fece puntare contro il campanile che però a causa della ristrettezza delle due strade ai due lati e l'altezza degli edifici che lo circondavano dagli altri due, non poteva essere colpito che dalla piazza di Gesù Nuovo e soltanto nella parte più alta dov'erano le campane.

 Malizia Carafa aveva messo di guardia un figlio bastardo di nome Giuseppe, di circa sedici anni per osservare il movimento degli assalitori, il quale vedendosi passare una palla di fucile sulla testa che andò a colpire il muro facendo cascare molte pietre, spaventato, corse dal padre al piano sottostante; qui si trovava anche Tiberio e altri che potevano far fuoco con i fucili su quelli che di sotto tentavano di avvicinarsi.

La moglie di Tiberio la sera precedente, per sicurezza, si era rifugiata nel monastero di san Francesco separato da quello di s. Chiara dalla strada dei Banchi Nuovi che portava ai santi Cosma e Damiano, da dove poteva osservare le mosse del marito.

La signora al mattino era salita sul terrazzo più elevato del monastero da dove poteva seguire l'attacco al campanile, nonostante le palle di cannone partite da piazza del Gesù Nuovo finissero nelle sue vicinanze.

Alle due dopo mezzogiorno gli assalitori non erano venuti a capo di niente; avendo notato che le finestre del monastero dei gesuiti, corrispondevano di fronte al livello del secondo piano dov'erano i Carafa, decisero di appostarvisi; appena vide i soldati che sforzavano la porta e trasportavano le scale che si trovavano nei pressi, la nobildonna avvertì subito il marito, che resosi conto che sarebbero stati colpiti dagli archibugi, avvertendo gli altri, se ne uscirono tutti da una porta laterale del cortile recandosi a San Lorenzo.

Il duca di Popoli, lasciato un presidio al campanile, si diresse verso san Lorenzo, e percorrendo vicoli angusti in quanto le strade principali erano disseminate di barricate, raggiunse il Vicolo dei Cinque Santi che sbucava di fronte alla porta del monastero, non sorvegliata.

Il duca di Popoli dopo aver fatto un giro di controllo di tutta la zona, era tornato in via dell'Anticaglia per piantare il cannone in capo al Vicolo dei Cinque Santi: il principe di Macchia e gli altri considerando che non era possibile difendersi, decisero di fuggire, ma irruppero i soldati; il principe di Macchia, era nel cortile e aveva trovato che l'unica via di fuga erano i terrazzi e raggiunto da Tiberio, Capece ed altri, si diedero alla fuga dai terrazzi delle case contigue, così giungendo alla contrada di San Biagio dei Librai, da dove, tutti riuniti si diressero vero Porta Nolana; quivi si incontrarono con gli altri, in tutto erano un centinaio di cui sono stati formati tre gruppi guidati, uno da Tiberio Carafa, il secondo da Macchia, il terzo da Capece (*).

Visti uscire dal torrione del Carmine, sono tirate delle cannonate che vanno a vuoto; essi approfittando della notte riescono a uscire dalla città: Malizia Carafa e Saverio Rocca erano già fuggiti da Porta San Gennaro, senza essere riconosciuti.

I soldati del viceré, abbatterono le porte e nessuno di quelli che erano rimasti all'interno aveva osato opporre resistenza e sono fatti prigionieri.

Non trovando tra costoro nessuno dei congiurati, li ricercano dappertutto, perfino nei sepolcri della chiesa e nella vicina chiesa di San Paolo, ritenendo che non erano potuti fuggire da quel luogo chiuso da tutti i lati e cinto da alte mura.

Il ritratto  dell'arciduca Carlo che si trovava esposto sul muro, fu tolto da Placido Dentice e Scipione di Capua e con i loro seguaci fu calpestato e i pezzi furono portati al viceré come trofeo.

Fu chiesto al duca di Popoli di inseguire i fuggiaschi con la cavalleria, ma egli rispose con l'adagio; “a nemico che fugge ponti d'oro” e si recò dal viceré a Castelnuovo.

*) Tra di essi vi erano Ferdinando Acquaviva,  Giuseppe Carafa, l'abate Cicchetto, Vincenzo di Gennaro, Domenico Oliva, un capitano calabrese di nome Domenico d'Arco, Domenico Paolo Calcagno, Leonardo Piccinno, dodici armigeri del principe della Riccia e alcuni del Telese.

FINE  

PARTE SPECIALE

PRIMA