Veduta di Napoli a metà del XVIIImo secolo

 

 

NOBILTA’ RIBELLE

NEL REGNO DI NAPOLI

SOTTO I VICERE’

TOLEDO E MEDINA-COELI

LA CONGIURA  DI MACCHIA

 

Michele E. Puglia

 

PARTE GENERALE

 

 

SOMMARIO: INTRODUZIONE; I PRIMI PARLAMENTI; NAPOLI CAPITALE DEL REGNO; SEGGI E SINDACI; I VICERE’ LOTTANO CONTRO LA PREPOTENZA DEI NOBILI; DON  PIETRO DI TOLEDO E LE SUE REALIZZAZIONI PER IL BENESSERE DEL REGNO; LA SEDE PER L’AMMINISTRAZIONE DELLA GIUSTIZIA; L’ORDINE PUBBLICO E IL BANDO DELLE SCALE; ERESIA E INQUISIZIONE: GLI ASTROLOGI PREVEDONO TURBAMNENTI E DISTRUZIONI; GIRO DI VITE DEL PAPA PAOLO IV CARAFA; LA RIVOLTA DELLA POPOLAZIONE; LA RIBELLIONE DEL PRINCIPE SANSEVERINO E DI ANTONIO GRISONE; CIRCA UN SECOLO E MEZZO DOPO: L’IMPERATORE D’AUSTRIA LEOPOLDO I; CARLO II RE DI SPAGNA E DELLE DUE  SICILIE .

 

PARTE SPECIALE PRIMA SOMMARIO: IL VICERE’ MEDINA COELI SEGUE LE ORME DEL VICERE’ DE HARO; ETICHETTA E ARROGANZA SPGNOLA PER L’AMANTE DEL VICERE’; RAMMARICO DELLA NOBILTA’ PER I PROVVEDIMENTI CONTRO IL DUCA E LA DUCHESSA DI AIROLA; LA NOBILTA’ SI DEGRADA ALLEANDOSI E PROTEGGENDO I MALFATTORI; I PRIMI DUE RIBELLI: GIUSEPPE CARAFA E BARTOLOMEO TELESE; SEGUITO DEI CONTATTI DEI CONGIURTATI CON VIENNA; MORTE DEL RE DI SPAGNA IL VICERE ’PREPARA I PRIMI PROVVEDIMENTI; TRATTATIVE DEI COSPIRATORI CON L’IMPERATORE LEOPOLDO I; I NOBILI MEDITANO LE LORO VENDETTE; I COSPIRATORI SCELGONO IL CAPO MILITARE E DECIDONO LE LORO RICOMPENSE; IL PAPA CONSIDERA IL REGNO DI NAPOLI FEUDO DELLA CHIESA (In nota: La questione del Regno di Napoli e Sicilia feudo della Chiesa); ARRIVA IL PRINCIPE DI MACCHIA SUOI DUBBI SULLA CONGIURA; ALTRO PARAGRAFO, LA MACCHINA DELLA CONGIURA COMINCIA A INCEPPARSI; IL TENTATIVO D’IMPADRONIRSI DI CASTELNUOVO FALLISCE; L’ASSALTO E IL SACCHEGGIO DI CASTEL CAPAUANO; I CONGIURATI OCCUPANO IL CAMPANILE DI SAN LORENZO; LO SFOGO DEL MARINAIO CON IL PRINCIPE DI MONTESARCHIO;  L’OCCUPAZIONE DELLA CHIESA DI S. CHIARA; L’ASSEDIO A SANTA CHIARA DELLE FORZE DEL VICERE’.

 

 

PARTE SPECIALE SECONDA SOMMARIO: LA FUGA DEL PRINCIPE DI MACCHIA E DI TIDERIO CARAFA; FINALMENTE A VENEZIA E POI ALL’ACCAMPAMENTO DEL PRINCIPE EUGENIO; AL CAMPO GIUNGE UN CAVALIERE DEL MARCHESE DEL VASTO; A VIENNA GLI ESULI VIVONO TRA FESTE E INTRIGHI - IL DUELLO TRA TELESE E CARAFA E LA MORTE DI MACCHIA; FALLITA LA CONGIURA DEI NOBILI SE NE SCOPRE UNA POPOLARE; ... E ANCORA UNA BORGHESE (In nota: Polemica delle immunità per gli arrestati nelle chiese); LA SOSTITUZIONE DEL VICERE’ MEDINA-COELI E LA VISITA A NAPOLI DI FILIPPO V; FILIPPO V DISPENSA CARICHE ONORIFICENZE E CONDONI; LA GRANDE CAVALCATA “NON SE NE VIDE MAI DI PIU’ BELLA” E LA PARTENZA DEL RE; IL CAMBIO DELLA GUARDIA: ARRIVANO GLI AUSTRIACI; NAPOLI RIDIVENTA CAPITALE DEL REGNO CON CARLO III DI BORBONE; REALIZZAZIONI DI CARLO III.

 

INTRODUZIONE

 

Q

uando Carlo V (1500-1558) aveva abdicato in favore del figlio Filippo I, aveva diviso tutto il suo esteso impero lasciando a Filippo il regno di Spagna, di Napoli e di Sicilia, il ducato di Milano e tutte le Indie Occidentali, e al fratello Ferdinando I il regno d’Austria e tutti i territori ad esso collegati unitamente al titolo imperiale (del SRI.).

Erano così stati creati i due rami degli Asburgo, di Spagna (che nominava i vicerè per Milano, Napoli, e Sicilia) e d’Austria, intimamente legati in quanto a ogni generazione si intrecciavano anche con matrimoni incestuosi (in ogni caso superati con facili dispense della Chiesa!) o al limite della pedofilia (quando gli zii maturi sposavano le adolescenti nipotine in fiore ... ma ciò, per l’epoca, non costituiva una novità (si veda in Specchio dell’Epoca: Casa Savoia, vivaio di pulzelle per l’Europa); ma queste unioni non impedivano allo stesso tempo di combattersi, per genetica avidità, per appropriarsi dei territori altrui; in particolare era sempre il ramo austriaco che aveva da avanzare pretese sui regni dei propri parenti; nel caso in esame le pretese erano avanzate sul regno di Spagna e suoi viceregni, e senza tanti scrupoli, come vedremo, si faceva ricorso alle guerre!

Giungendo all’epoca che ci interessa (fine ’600 inizi ’700) troviamo in Austria regnante l’imperatore Leopoldo I, di quel ramo, mentre in Spagna troviamo Carlo II, di questo ramo. 

Ma prima di giungere all’epoca di Carlo II e del viceré di Napoli duca Medina-Coeli, volendo dare un quadro più generale del contesto storico del Regno di Napoli di quel periodo, riteniamo opportuno fare un salto indietro e risalire all’epoca del viceré don Pedro di Toledo (1532-1553) durante il quale regnava l’imperatore Carlo V.

E’ da dire che questo periodo è stato il più carico di avvenimenti che avesse potuto avere l’Europa (a parte tutte le guerre volute dall’imperatore) quali il Rinascimento (**), la Riforma della Chiesa cattolica e la Controriforma protestante introdotta da Lutero, avvenimenti maturati senza alcun diretto contributo da parte del fortunatissimo imperatore (che a ogni morte di un parente ereditava regni!), come avremo modo di vedere in una serie di articoli in preparazione (Carlo V tra Rinascimento, Riforma e Controriforma).

Di questi avvenimenti, quello più controverso e più cruento era stato il movimento della Controriforma, così erroneamente definita (rispetto alla Riforma protestante), che aveva dato uno stretto giro di vite, finalizzata a una più rigida osservanza della fede e della religione “ccattolica (in quanto ritenuta universale), che emergerà dal fanatismo del Tribunale della Inquisizione, definita Santissima, ma in effetti “criminale” in quanto, messa nelle mani di giudici criminali, perversi e psicopatici  aveva aperto la strada a veri e propri crimini contro l’umanità (v. in Articoli: L’Inquisizione ecc.).

Quei giudici infatti, in una atmosfera di psicosi collettiva, pescavano le loro vittime in un mondo di ignoranza, di false credenze e di menti malate, dominato da un onnipresente Demonio, che nelle azioni umane e tentatrici si riteneva agisse addirittura “con il permesso (del più potente) Dio... per i suoi imprescrutabili e oscuri disegni” (Kramer-Sprenger: Il martello delle Streghe), ispirate invece da fantasie oniriche fatte di voli e incontri notturni, di adorazioni e accoppiamenti con i Diavoli, ottenute con sostanze allucinogene e ritenute reali, che nel corso dei processi trovavano facili conferme nelle “confessioni” estorte con il ricorso alla tortura.

Lo scopo principale di questi processi era dato dalla lotta del fondamentalismo religioso il quale, mirando, come detto, alla integrità della fede, riteneva di eliminare fisicamente chi se ne discostasse.

L’accusa era in ogni caso quella di eresia, combattuta con il genocidio di massa di donne (nella maggioranza) considerate streghe, e (nella minoranza) di stregoni, ricorrendo alla tortura con cui si infliggevano indicibili sofferenze per ottenere la “verità”; questa, dava luogo a racconti fantastici, dai giudici ritenuti reali, con accuse che si estendevano a macchia d’olio e coinvolgevano altre persone altrettanto innocenti che trovavano la fine liberatoria dai tormenti o con il suicido (del quale era ritenuto responsabile il Diavolo!), o sul rogo dove andavano incontro a una morte brutale e altrettanto spietata.

Queste ignominie, col passar dei secoli erano cessate, ma, ancora oggi vi è chi giustifica il comportamento di quei giudici criminali, ritenendo (come aveva sostenuto a suo tempo Bodin, v. in cit. art. Inquisizione) che .... era scritto nelle Sacre Scritture  che  le streghe dovevano essere uccise”!

Napoli in questo contesto europeo (ma anche americano: basti il ricordo del processo di Salem, 1692), è da considerare un’isola felice in quanto, stranamente (pur trovandosi, come viceregno, in uno stato di sudditanza coloniale) si era ripetutamente opposta alla istituzione del Tribunale, ricorrendo - come vedremo - anche alla rivolta, a causa dei terribili echi che giungevano dalla Spagna (ma vi era l’interessato e contraddittorio appoggio del papa Paolo III, il quale incoraggiava la resistenza dei napoletani a causa del braccio di ferro con i monarchi spagnoli che nei loro processi non volevano le interferenze della Santa Sede (v. in Articoli cit.: L’inquisizione ecc. Parte prima, L’inquisizione spagnola).

Questo “excursus” si conclude con la Congiura di Macchia, che si svolge tra la fine del 1600 e l’inizio del 1700, durante il regno, in Austria, di tre imperatori (Leopoldo I, suo figlio Giuseppe I e il nipote secondogenito Carlo III) i quali, vantando diritti sul regno di Napoli, miravano a impadronirsene, riuscendo anche ad appropriarsene per un breve periodo di tempo (1701-1734), dopo il quale il viceregno assurge finalmente a regno.    

   

  

*) Ci piace ricordare la frase profonda di Orson Welles nel film “Il terzo Uomo”, l’Italia aveva avuto guerre, assassini e rivolte e aveva prodotto Leonardo, Michelangelo e Raffaello mentre la pacifica Svizzera non aveva prodotto che l’orologio!

 

                                           

I PRIMI

PARLAMENTI

NEL REGNO

DI NAPOLI

 

 

F

ederico II (1194-1250), volendo porre un freno al potere dei baroni, per favorire le libertà dei Municipi aveva stabilito che ogni città, sia regia sia feudale, fosse rappresentata da quattro deputati oltre a due deputati per ciascun feudo o castello; oltre a costoro nelle assemblee denominate Parlamenti, partecipavano anche gli ufficiali maggiori del regno, i Giustizieri, i Camerari e  i Baglivi delle province; in tali assemblee era consentito a chiunque di denunciare i torti ricevuti, di far ricorso contro qualsiasi ministro regio o esporre pubbliche necessità.

I Parlamenti si riunivano due volte all'anno a maggio e novembre (l’origine era da collegare ai Campi di Maggio carolingi, v. in Carlomagno e l’idea dell’Europa).

 

NAPOLI

CAPITALE DEL REGNO

 

C

on gli angioini, a causa delle restrizioni delle libertà, i Parlamenti divennero più rari e meno liberi.

Carlo I d'Angiò (1226-1285) fu il primo monarca a fissare la sua sede a Napoli e introdusse la massima secondo cui i baroni, come primi cittadini dei feudi, rappresentassero le popolazioni ad essi soggette, ciò che comportò la abolizione della convocazione dei  rappresentanti dei Comuni, eccetto quelli delle città regie, come sarà successivamente confermato dagli aragonesi (v. in Articoli, L’Europa verso la fine del medioevo, P.IV).

I Comuni del regno erano governati da nobili e popolani i quali si riunivano nei paesi feudali al suono delle campane, per eleggere i magistrati; gli elettori erano distinti in quartieri o rioni e denominati  Piazze o Seggi.

Napoli divenuta capoluogo del regno fu divisa in Sei Seggi (maggiori) e i popolani divisi in ventitre Curie, denominate Ottìne (si tenga presente che in pratica i popolani corrispondevano ai  borghesi di Francia; da costoro si distingueva la  plebe che non aveva diritti ed era considerata come “i fuori casta” in India.

Tutti i nobili che abitavano nei rioni dei Seggi vi facevano parte, come anche i grandi ufficiali della corona, i capi della milizia, i magistrati, e i gentiluomini venuti al seguito di Carlo VIII, nonché i patrizi che da altre città si stabilivano nel capoluogo, rendendo i Seggi ancora più cospicui.

Carlo I per meglio assoggettarli, concedeva ai patrizi napoletani prerogative sul pagamento delle tasse e onorificenze come i cingoli di cavalieri; ma mentre i patrizi (cittadini) ambivano a tutti questi onori e miravano ad acquisire feudi per poter poi entrare nella casta baronale, i baroni titolari dei feudi disdegnavano di trasferirsi nella capitale in quanto non  consideravano il trasferimento in città all'altezza del loro grado.

 

SEGGI E SINDACI

 

 

L

e famiglie nobili che possedevano feudi e castelli al tempo di Carlo I d’Angiò erano diciassette e furono portate a quaranta dal re Ladislao, gratificate con terre e feudi donati o venduti o  tolti a  baroni da lui debellati.

Mentre i re angioini avevano cercato di abbassare la potenza dei feudatari domando le loro ribellioni e la loro ritrosia all'obbedienza con le armi, Alfonso I d'Aragona (1396-1458) fu altrettanto largo di concessioni a causa del suo  interesse a far riconoscere il figlio naturale e proprio successore, Ferdinando (poi Ferdinando I o Ferrante).

Si costituirono così i Seggi (o Sedili o Piazze) c.d. maggiori, costituiti da nobili, che inizialmente erano ventinove (quanto i Rioni della città), ridotti a cinque per i nobili  e uno per il popolo (Capuano, Nido (*), Porto, Portanova, S. Arcangelo (Montagna) e Forcella), che nominavano un Sindaco (o Eletto), mentre le ventinove Ottìne (Rioni) di popolani ne nominavano un altro (si era continuato fino a Carlo II, ma a seconda dei periodi se ne nominavano anche di più).

Con Ladislao che come detto, tendeva a innalzare il patriziato della capitale  il numero degli Eletti nobili era di cinque e uno delle ventinove Ottìne (ogni Ottìna aveva un capitano che veniva scelto dal viceré da una rosa di Eletti); l’elezione era annuale.  

Con Alfonso I i popolani si rivoltarono contro i patrizi e per punizione il loro portico alla “Sellaria”, dove si riunivano, fu abbattuto e il loro rappresentante escluso.

Ferdinando I continuò a tener lontani dal governo della città i popolani favorendo il patriziato mentre cercava di indebolire i feudatari che alla fine si rivoltarono (v. in Articoli: La congiura dei Baroni).

Quando giunse a Napoli il francese Carlo VIII (1494) si erano presentati solo i rappresentanti dei nobili per prestare il giuramento di fedeltà e il re si era meravigliato che non vi fossero rappresentanti della borghesia; gli fu fatto presente che i cittadini  ne erano stati privati; il monarca diede quindi il permesso di riunirsi in assemblea e i rappresentanti del popolo riuniti nella chiesa di s. Agostino, nonostante la opposizione della nobiltà, nominarono  il Sindaco o Eletto e il re concesse al popolo (1495) molte prerogative per il governo stesso della città.

Tornato il governo di Ferdinando il Cattolico (1507)  le ulteriori richieste della borghesia, di parità dei diritti con la nobiltà furono respinte; i Sedili saranno aboliti da Ferdinando IV nel 1800.

 

*) I primi titolati del Seggio del Nido furono i fratelli di Lucrezia Alagno, amante di Alfonso I, che dal re erano stati creati conti.

 

I VICERE’

LOTTANO CONTRO

LA  PREPOTENZA

DELLA NOBILTA’

 

 

Q

uando il regno di Napoli era finito sotto il potere degli spagnoli e da regno era stato degradato a viceregno (1503-1734), lo spirito che lo reggeva era quello della colonia da spremere e sfruttare; i monarchi che si avvicendavano designavano i viceré il cui compito era quello di governare per loro conto e questo compito era costituito principalmente dalla raccolta di danaro attraverso imposte, gabelle e donativi (che superavano di misura le stesse imposte*) che essi provvedevano a mandare a Madrid.

Tra i tanti viceré (come detto, erano due, uno per il Regno di Napoli e uno per il Regno di Sicilia) a Napoli ve n’erano stati di illuminati come quelli di cui parliamo in questo articolo che, indipendentemente dal carattere personale di ciascuno, avevano realizzato opere architettoniche che avevano migliorato e abbellito la città e le altre parti del Regno.

Compito diciamo morale dei viceré, fu quello di abbattere la potenza e prepotenza dei feudatari che approfittavano della lontananza del potere centrale per spadroneggiare i quali reagivano alle imposizioni  passando a sostenere i monarchi concorrenti, fossero essi monarchi francesi o austriaci.

Ma quando giunse a Napoli Carlo VIII ebbero l’amara sorpresa di essere stati umiliati (v. in Articoli: cit. L’Europa verso la fine del medioevo P. IV: La discesa di Carlo VIII), per cui il loro spirito di vendetta rimaneva senza costrutto; né la elezione di un monarca all’interno del loro gruppo, come desideravano e proclamavano, riusciva mai possibile, perché tra di loro non solo non vi era nessuna coesione, ma si invidiavano e detestavano reciprocamente a tal punto che la elezione di un monarca tra le loro file rimaneva solo la esternazione di un desiderio irrealizzabile!  

Alla fine i grandi feudi, poco per volta furono  incorporati nella corona e non furono più ricostituiti se non con la concessione di piccole signorie, pur necessarie per  governarne gli abitanti del luogo, non concedendo però loro la possibilità di diventare potenti per non dare ombra alla autorità vicereale.

Finirono con il decadere anche i Parlamenti limitati all’intervento dei soli feudatari e  deputati delle città regie le cui funzioni erano limitate soltanto al voto per i donativi al sovrano e a richiedere in cambio compensi a beneficio della capitale e del ceto di quei patrizi.

 

*) Per avere una idea dei donativi, mentre per imposte veniva inviato l’importo di 400mila ducati, i donativi spesso superavano questo importo, come  quello del 1539 a Carlo V di un milione e cinquecentomila ducati...nel mese di gennaio e un altro di sessantamila ducati nel successivo mese di marzo; nel 1541 per la guerra ai turchi il donativo fu di ottocentomila ducati; nel 1545, di seicentomila ducati; nel 1548 per la figlia Maria, di duecentocinquantamila ducati; nel 1552, di ottocentomila ducati; con il figlio Filippo II, gli importi aumentarono a un milione (ed era oro sonante!) nel 1556 e nel 1560 la cifra aumentò a unmilione e duecentomila e due anni dopo, 1562, un altro milione d’oro...e come è noto sia Carlo V che Filippo II erano sempre a corto di danaro nonostante dalle Americhe arrivassero galeoni carichi d’oro (durante il regno di Carlo V) e d’argento (durante il regno di Filippo II). 

 

 

 

 

Pedro di Toledo duca d’Alba

 

DON PEDRO DI TOLEDO

E LE SUE REALIZZAZIONI

PER IL BENENESSERE

DEL REGNO

 

P

edro Alvarez de Toledo y Zuñiga (1484-1553), marchese di Villafranca, era stato nominato  viceré di Napoli (1532-1553), da Carlo V e ben determinato a instaurare una buona amministrazione della giustizia, dopo il suo ingresso in città con grande cavalcata, convocò tutti i magistrati e ufficiali  e disse loro che la giustizia doveva essere amministrata proprio come era rappresentata, con la bilancia nella sinistra e la spada nella destra; poiché vi erano molti ufficiali che lasciavano a desiderare per la vita che conducevano e per la loro corruzione, una parte li mandò via, alcuni li fece sposare, per altri si assicurò che conducessero una vita integerrima.

A Napoli proliferavano i delinquenti e una lotta nei loro confronti era impossibile  in quanto per la loro punizione vi si frapponevano i nobili che (“da sempre” ci dice uno storico), si abbassavano al loro livello, servendosi  di loro per la commissione di delitti e quando venivano acciuffati i nobili usavano tutta la loro potenza per farli graziare dai giudici: don Pedro li avvertì che da quel momento non sarebbero serviti più né favori né minacce.

Ne diede subito l’esempio con Giovan Francesco Pignatelli, della casata imparentata con famiglie principesche, incolpato di molti  delitti, che impediva alla giustizia di fare il suo corso e ai querelanti di ottenere giustizia tenendoli sotto minaccia; il viceré  fece dar corso alla giustizia e Pignatelli fu giustiziato nel largo del Castello  di fronte alla piazza dell’Olmo; nello stesso tempo, don Pedro diede un esempio della sua imparzialità facendo processare un  popolano molto ricco, che con il suo danaro intendeva coprire un suo delitto (vantandosi che lo avrebbe composto con ventimila ducati).

Per evitare che si commettessero reati, il viceré emanò un editto col quale vietava che nessuno potesse tenere nelle case armi bianche e da fuoco e nessuno potesse portarle per la città, all’infuori della spada portata dai nobili (questo editto era stato emanato dopo la rivolta in cui era stato arrestato Tommaso Aniello nel 1547, v. sotto).

La città era piena di portici, che erano quasi delle grotte, utilizzati dai malviventi per assaltare i passanti; fra questi vi era la grotta di s. Martino a Capuana e la grotta di s. Agata che il viceré fece abbattere con altri antichi edifici “che davano spavento a passarvi di giorno”; per la stessa ragione fece abbattere le tavolate e i banconi che i venditori tenevano, per la vendita delle merci nelle pubbliche piazze, utilizzati di notte da malfattori che vi dormivano e si nascondevano; per i molti vagabondi (chiamati “compagnoni” che circolavano (in gruppetti di quattro) per la città, emise un bando con cui vietava le “quadriglie”, e finì con estirparli dalla città.

Don Pedro in meno di due anni  provvide a far circondare la città di una muraglia con baluardi e torrioni e con  terrapieno all’interno e fossato fuori, ampliando la città del doppio di com’era prima, facendo rinchiudere all’interno il monte di Sant’Eramo (e ricostruendo il castello); durante questi lavori era stata ampliata la bellissima via Toledo che porta il suo nome e si ammira tutt’oggi a suo perenne ricordo.

Nel 1538 vi fu un terribile terremoto  dove in prossimità del lago presso Pozzuoli si aprì un’ampia voragine da cui fuoriuscirono per due giorni pietre, fango, fumo e cenere, che cosparsero tutta la città di Napoli.

Gli abitanti decisero di abbandonare la città,  ma don Pedro li convinse a rimanere esentandoli per alcuni anni dal pagamento delle tasse e la ricostruì facendo costruire un palazzo con una bella torre, con fontane e giardini, facendo rifare la strada che la collegava con Napoli e molti signori costruirono i propri palazzi, fece restaurare i bagni,  fece rifare le mura esterne ed egli stesso  vi andava a passare la primavera; nonostante ciò Pozzuoli fu incapace (commenta lo storico), di sollevarsi economicamente da sola.

La ricostruzione di Napoli (che gli attuali amministratori del tutto incapaci lasciano tra il caos del traffico, l’immondizia e le condizioni delle strade che rendono indecorosa la città e Roma si trova nelle stesse condizioni ...e il polemico Sindaco in una situazione di tal degrado .... ha annunciato le multe a chi butta le cicche delle sigarette per terra!), era stata  operata da don Pedro con una visione d’insieme straordinaria che aveva toccato da una parte quella architettonica, dall’altra il settore sociale e, come abbiamo visto, le carceri, nelle quali vi organizzò un Ospedale per i poveri esenti da spese; inoltre restaurava l''Ospedale degli incurabili, costruiva l'Ospedale di Santa Maria di Loreto per i fanciulli orfani e quello di Santa Caterina per le donne, restaurando l'Ospedale di San Eligio ugualmente riservato alle donne.

Don Pedro aveva avuto la cattiva idea (1540) di cacciare gli ebrei dal regno “che divoravano con le usure le sostanze dei poveri” giustifica lo storico, in compenso, fondò il Sacro Monte di Pietà che concedeva prestiti su pegno, e, fino alla somma di dieci scudi, senza interesse.

Anche nel resto del regno il viceré, per difenderlo dai continui attacchi dei turchi, visitandolo con architetti e ufficiali, aveva dato ordine di rifare i castelli di Baja, di Capua e dell’Aquila e di costruire il castello di Reggio, di Castro, di Otranto, di Lecce e di Gallipoli.

 

LA SEDE

PER L’AMMINISTRAZIONE

DELLA GIUSTIZIA

 

 

D

on Pedro pensò a una sede unica per l’amministrazione della giustizia e fece ricostruire completamente castel Capuano, risalente al XIImo sec. (la lapide che ricorda “l’imperatore Carlo V e il viceré Toledo marchese di Villafranca porta la data A partu Virginis 1540”) e vi riunì tutti gli uffici distribuiti per la città (Sacro Regio Consiglio, la Regia Camera Summaria, la Gran Corte della Vicaria, del Baglivo e della Zecca) nonché tutte le carceri sparse in vari luoghi.

Dispose anche che vi alloggiassero il Presidente del Sacro Consiglio, il Luogotenente della Sommaria e il Reggente della Vicaria con un giudice criminale; in questa occasione aggiunse altri giudici criminali, disponendo che ogni sabato il Tribunale fosse visitato da uno dei Reggenti  e limitando le feste per le vacanze dei magistrati,  riducendole al minimo possibile (*) .

Poiché i quattro giudici del Tribunale della Vicaria che giudicavano sia i reati sia le cause civili, non ce la facevano ad amministrare la giustizia, ne aggiunse altri due in modo che quattro giudici giudicavano i reati e due trattavano le cause civili: dispose inoltre che sia il Reggente sia i magistrati e gli ufficiali si ritrovassero ad amministrare la giustizia nelle stesse ore (cosa che non avviene oggi in Italia le cui udienze hanno inizio secondo le abitudini di ciascun giudice!) stabilendo anche gli stipendi per tutti; lo stesso fece per gli altri Tribunali del regno.

Infine, per l'assistenza legale dei poveri fece aumentare lo stipendio all'Avvocato e Procuratore dei Poveri (istituiti da Federico II); costruì anche il nuovo Ospedale di San Giacomo, esclusivo per gli spagnoli e quando era iniziata la costruzione era  sceso personalmente nel fossato delle fondamenta per porre la prima pietra.

Il viceré cercò di estirpare la piaga delle false testimonianze in tutto il regno (nelle grandi città vi erano dei centri di riunione dei testimoni, detti “scuole”!) con una prammatica (1536), riconfermata anche dal viceré duca d’Alba (1561), che stabiliva la pena di morte per chi, per la seconda volta, testimoniava il falso nelle cause penali, mentre per quelle civili fu disposto il taglio della mano e l’esilio perpetuo dal Regno.

 

 

*) I giudici italiani, la cui produttività lascia a desiderare, stanno strepitando per la riduzione delle loro ferie da un mese e mezzo a un mese, non tenendo conto delle numerose feste religiose (e vigilie!) che Italia  superano ogni limite!

 

L’ORDINE PUBBLICO

 E IL BANDO

DELLE SCALE

 

 

M

alfattori e fuoriusciti trovavano ospitalità in molte case, spesati dai nobili che se ne servivano per commettere ogni genere di reati; il viceré istituì una tal forma di controlli che nessuno ebbe più l’ardire di ospitarli ...“e neanche di guardarli in faccia, per non creare sospetti”, e ciò fece anche in tutto il regno; furono inoltre vietate le “ciambellarie” organizzate di notte per festeggiare le vedove che si risposavano; vietò che si uscisse di casa armati dopo le due di notte fino al mattino e per evitare che qualcuno si giustificasse sostenendo di ignorare l’ora, dispose che la campana di s. Lorenzo che si sentiva per tutta la città, suonasse a martello alle due di notte!

Oltre ai capitani di guardia che in città assicuravano  l’alloggio “ai dispersi”, creò dei nuovi bargelli (guardie) di campagna che circolavano per le campagne in modo che i banditi non si ritenessero più  sicuri che in città.

Tra i tanti provvedimenti per riportare l’ordine pubblico nella città, don Pedro pubblico il Bando delle Scale: Ladroni, malavitosi  e innamorati, di notte  usavano scale di corda o di legno per entrare nelle case, i primi per rubare e compiere le loro sceller4atezze, gliinnamorati  per i loro incontri amorosi.

La faccenda rendeva la città “inquieta” e suscitava le lamentele dei cittadini, per cui il viceré pensò di porvi rimedio con un bando con cui vietava di notte l’uso delle scale, comminando la pena di morte; ma nonostante il divieto... furono molti a perdere la vita; vi incappò anche un giovane nobile, Col’Antonio Brancaccio che dal Capitano di guardia fu trovato di notte, con una scala di corda, sopra una finestra  con la quale era salito “per conto d’amore”.

Brancaccio fu preso e portato alla  Gran Corte della Vicaria e la stessa mattina fu decisa ed eseguita la decapitazione, nonostante si fosse mossa tutta la città per chiedere la grazia; ma il viceré fu inflessibile e disse che non vi potevano essere eccezioni perché “ciò sarebbe servito ad aprire la porta agli altri”, aggiungendo che “si meravigliava della instabilità di chi prima gli aveva chiesto di rimediare alla faccenda delle scale, perché nessuno si sentiva più sicuro in casa e ora chiedeva di impedire il rimedio”.

Per tutte queste novità vi furono accordi, specie da parte di nobili superbi, i quali  in stretto segreto (ma non tanto che il viceré non ne venisse a conoscenza!), di chiedere direttamente, durante la permanenza dell’imperatore a Napoli, la sua sostituzione; essi non lo accettavano, perché  danneggiati dal buon funzionamento della giustizia, e l’accusa che gli muovevano era che lo faceva  non per giustizia ma per crudeltà”.

La questione fu anche discussa in tutta la città, ma risultò che la maggior parte era favorevole al viceré e quelli che gli erano contrari lo erano piuttosto per risentimenti personali o perché gelosi del suo buon governo; tra costoro vi erano il “ribelle” principe di Salerno, il marchese del Vasto e Andrea Doria; tra i sostenitori, il duca di Castrovillari Ferrante Spinello (il figlio Giovan Battista sposerà la quarta delle figlie di don Pedro, Isabella*).

Il marchese del Vasto aveva avuto modo di parlare direttamente con l'imperatore e resosi conto  della stima che egli aveva nei confronti di don Pedro, prese subito le distanze dagli oppositori; vi fu anche un Eletto del popolo, Gregorio Russo, che aveva accusato il viceré di essere dispotico e violento con il popolo, ma fu subito privato dell'incarico, sostituito da un certo Stinca; i nobili oppositori del viceré dovettero rendersi conto che  l'imperatore prima di partire gli aveva fatto tutte le concessioni  e tutti i favori possibili ..."da renderlo più forte di prima"!    

 

 

*) Don Pedro dalla prima moglie Maria Ossorio Pimentel aveva auto tre maschi Federico, Garzia e Luigi e quattro femmine,  Anna, moglie del duca Altamira, Giovanna, moglie del conte d’Aranda, Eleonora moglie di Cosimo de’ Medici e madre di Maria, moglie di Enrico IV di Francia, e infine  Isabella.

Rimasto vedovo della moglie, don Pedro ebbe come amante Vincenza, figlia del duca  Ferrante Spinello di Castrovillari, deceduto, vedova di Antonio Caracciolo; il fratello di lei Giovan Battista Spinello, duca di Castrovillari sposerà la figlia di don Pedro, Isabella, dopo la sua  morte (1553); Giovan Battista quando l’imperatore si trovava a Napoli, si era lamentato della situazione della disdicevole situazione della sorella; l’imperatore lo rassicurò che don Pedro l’aveva sposata segretamente, ma chiese ugualmente a don Pedro di  regolarizzare la situazione e don Pedro aderì e la sposò pubblicamente.

 

 

 ERESIA E INQUISIZIONE:

GLI ASTROLOGI PREVEDONO

TURBAMENTI E DISTRUZIONI

 

 

M

entre il Tribunale della Inquisizione era stato istituito in tutti i paesi cattolici, l’unico regno (meglio “viceregno”) che si era opposto, era stato quello di Napoli e lo aveva fatto anche ferocemente; ciò era avvenuto, fin dai tempi del viceré Toledo, il quale si era trovato a gestire dall’inizio, la propagazione  dell’ “eresia luterana” vale a dire delle nuove idee luterane provenienti dalla Germania, che fu combattuta in modo diverso da tutti gli altri regni dove erano stati istituiti i Tribunali.

Secondo le previsioni degli astrologi "il crudele aspetto di Saturno in Capricorno e Sagittario e di Marte con la Coda del Dragone in Gemelli e della Luna eclissata nello Scorpione" preannunciava turbamenti e distruzioni nella città: si trattava dei tumulti per l'eresia luterana diffusa (a far tempo dalla celebre data del “1522”) in Germania, Boemia, Frisia, parte della Francia e Inghilterra e segretamente in Italia e a Napoli.

Fra' Bernardino Occhino, fra’ Pietro Martire Vermiglio e il catalano Giovanni Valdes (*) avevano raccolto molti "segreti eretici";  fra’ Bernardino con le sue prediche suscitava ammirazione (anche da parte dell’imperatore che trovandosi a Napoli (1536), andava ad ascoltarlo in s. Giovanni Maggiore).

Partito l’imperatore, fra’ Bernardino continuava nelle sue prediche seminando sottilmente i semi del luteranesimo (si diceva che “le sottigliezze” le potevano notare solo  i dotti) e questo nuovo modo di predicare piaceva molto anche al viceré Toledo, che per fugare ogni dubbio gli aveva chiesto di dichiarare esplicitamente di essere contrario alla nuova dottrina; fra’ Bernardino si difese negando ed essendo finito il ciclo delle sue prediche, se ne partì lasciando che altri facessero il suo lavoro.

Tre anni dopo, avendo lasciato un buon ricordo, i napoletani richiesero la sua presenza ed egli predicando questa volta nel Duomo, usava parole ambigue per potersi difendere da possibili accuse; le sue predicazioni in ogni caso suscitavano dibattiti e approfondimenti anche da parte di laici.

In quel periodo soggiornava a Napoli Giovanni Valdés, gentiluomo spagnolo e giureconsulto; era stato in Germania dove si era invaghito delle  novità luterane e al suo ritorno le aveva portate a Napoli con molti libri, e così incominciò a diffondere la dottrina luterana, trovando vasto consenso; nelle sue prediche diceva di essere ispirato dallo Spirito Santo; era molto apprezzato e riusciva a convertire non solo i nobili, ma anche, e particolarmente, le donne, tra le quali vi erano (le celebri rinascimentali) Vittoria Colonna e Giulia Gonzaga; con Pietro Martire Vermiglio aveva formato una compagnia che si riuniva per pregare e seguire le pratiche dei riformati; Valdés in spagnolo scrisse il libro “Cento e dieci Considerazioni” che ricalcava le (novantanove) “proposizioni” di Lutero, poi tradotto in italiano (stampato a Basilea nel 1550) e francese; morì a Napoli (1540).

Tra il 1541 e 1542 fra’ Bartolomeo Occhino dichiarò apertamente di essere luterano e fuggì a Ginevra.

In questo periodo erano apparsi due libri,  il Seminario della Scrittura e il Beneficio di Cristo, senza indicazione degli autori, ai quali si aggiunsero gli scritti di Erasmo e di Filippo Melantone; avvertito, il viceré dispose che quei libri fossero bruciati e vi provvide Ambrogio da Bagnol che fece un gran fuoco davanti al palazzo dell’Arcivescovado; nello stesso tempo furono previste severe sanzioni per coloro che detenevano o leggevano tali opere,

A questo proposito, don Pedro dispose (1544) che le opere pubblicate venticinque anni prima non dovessero essere ristampate e i libri che venivano stampati o venduti dovessero essere esaminati dal Cappellano maggiore; furono proibiti i libri pubblicati senza nome dell’autore e quelli non approvati.

L’imperatore aveva richiesto al viceré di istituire il Tribunale dell’Inquisizione agendo con la massima discrezione per evitare ciò che si era verificato nelle Fiandre, dove gli abitanti preferirono fuggire per non essere sottoposti a giudizio, lasciando il paese disabitato, e l’imperatore aveva dovuto disporre la sua eliminazione.

Vi era stato anche l’intervento del papa Paolo III (Alessandro Farnese 1534-49) il quale aveva emesso l’editto che istituiva il Tribunale (ricordiamo che per i Tribunali dell’Inquisizione agivano da una parte l’imperatore con il Tribunale secolare o civile e dall’altra il papa con quello ecclesiastico e come abbiamo detto. per la polemica con i monarchi spagnoli il papa incoraggiava segretamente la resistenza dei napoletani!), su suggerimento del cardinale di Burgos, fratello del viceré, il quale aveva mostrato l’editto agli Eletti e agli Avvocati della città i quali rifiutarono quello ecclesiastico, e il viceré concesse quello secolare; non volle però che se ne facesse pubblicità, all’infuori di un cartello affisso al portone dell’Arcivescovado, temendo un sollevamento popolare.

Nel frattempo il viceré ordinava a Domenico Terracina, Eletto del popolo, di convincere gli altri rappresentanti delle Piazze a mantenere la calma in quanto la Inquisizione non era fatta alla maniera spagnola (dove si seguiva il Tribunale ecclesiastico e non quello secolare).

Ma nonostante tutti questi accorgimenti, la notizia si propagò per tutta la città e ne venne fuori un tumulto di popolo che malediceva il viceré e i propri rappresentanti, chiamandoli traditori della patria; insorsero anche i nobili che ne approfittarono per vendicarsi di Toledo che odiavano in segreto, unendosi anche ai popolani che  (inaudito!) chiamavano fratelli (!) sollecitandoli a stare in guardia e non fidarsi del viceré che voleva la Inquisizione e bisognava dirgli chiaramente che non si voleva né l’Inquisizione di Spagna né quella di Roma.

Il Terracina sospettato di non fare i loro interessi, fu sostituito con Giovanni Pascale  e furono nominati Deputati ai quali fu ordinato di non occuparsi d’altro che l’Inquisizione fosse allontanata dalla città e facessero attenzione che non trasparissero dai loro comportamenti atti di ribellione; essi, con ogni sottomissione si recarono dal viceré pregandolo di non fare introdurre l’Inquisizione che avrebbe annullato tutti i benefici che egli aveva apportato alla città”.

Nel frattempo il Tribunale della Vicaria (su disposizione del viceré)  procedeva all’ arresto di Tommaso Aniello (*), un “compagnone” che aveva gran seguito, ritenuto uno dei fautori della sommossa, il quale aveva tolto dal portone dell’Arcivescovado l’editto e lo aveva strappato; mentre Aniello era portato alla Vicaria un’intera folla lo aveva accompagnato e si era fermata sotto il castello, rimanendo in attesa; il Reggente Girolamo Fonseca, nel vedere tanta moltitudine, giudicò opportuno rilasciarlo e preso dal marchese di S. Lucido Ferrante Carafa sul proprio cavallo, fu portato in giro per le piazze della città per acquietare la popolazione.

La stessa sorte era toccata a Cesare Mormile nobile del Seggio di Porta Nuova, amato dal popolo, che il Reggente giudicò opportuno rilasciare.

Tutto ciò indispose il viceré che dissimulando il dispiacere, decise di aspettare il momento opportuno  per il castigo!

Quanto agli “eretici”, essi si riunivano liberamente, ma il Vicario generale, ottenuto il consenso del viceré (che evidentemente faceva un sottile doppio gioco!), gli prestava il braccio secolare e di propria iniziativa li faceva arrestare e li mandava a Roma ed esaminati “tutti si mettevano nelle braccia della Madre Chiesa” (vale a dire che ritrattavano) e fatta la penitenza venivano liberati: così si ritenne la città e il regno purgati dall’eresia!

*) Da non confondere con il Tommaso Aniello  detto “Masaniello” capo della rivolta di maggior portata del 1647.

 

 

GIRO DI VITE

 DEL PAPA

PAOLO IV CARAFA

 

Il papa Paolo IV (Gian Pietro Carafa)  poco prima di morire (1558), per rafforzare ulteriormente la posizione della Inquisizione, le assegnava il titolo di “Santissima”, per dare ai suoi giudicati il crisma della “santità” in modo che fossero considerati  giusti e inappellabili” e pubblicò una inaudita, allucinante e abominevole Costituzione in cui dichiarava che tutti i “prelati, principi, re e imperatori caduti in eresia dovevano ritenersi privati di Beni, Stati, Regni e Imperi, senza bisogno di specifica dichiarazione, e occupati dai cattolici fossero restituiti solo dalla Sede Apostolica”...aggiungendo che i Tribunali ecclesiastici non solo si sarebbero occupati di eresia, ma la loro competenza sarebbe stata estesa ai delitti ordinari (di competenza dei giudici secolari!).

Paolo IV Carafa (1555-1559) era stato così odiato che quando morì i romani distrussero la sua statua in Campidoglio, aprirono i cancelli delle carceri di Roma e diedero fuoco agli uffici della Inquisizione dove furono bruciati tutti gli archivi e poco mancò che fosse dato fuoco anche al vicino convento della Minerva, sede dei detestati domenicani, impedito da Giuliano Cesarini.

Dopo che Filippo II aveva in Spagna istituito (1558), con pompa teatrale, i Tribunali  che giudicavano con spietatezza non solo accusati di eresia, ma ebrei (conversos)  e mori (moriscos) e processavano perfino i morti che, condannati, venivano bruciati in effige (in Italia era giunta la fama del perverso Torquemada), aveva chiesto al papa Paolo IV la istituzione a Milano e Napoli, dei Tribunali come quelli di Spagna; a Milano stava per scoppiare una rivolta fugata dall’intervento di Consalvo da Cordova che diede assicurazioni che il Tribunale non sarebbe stato istituito.

A Napoli, erano stati giudicati per eresia e condannati a morte Giovan Francesco d’Alois di Caserta e Giovan Berardino Gargano di Aversa (1564), decapitati in piazza Mercato e i loro corpi bruciati, con la confisca dei loro beni; i napoletani, vedendo che non si teneva conto di quanto stabilito nella bolla emessa dal papa Giulio III (1550-55) e accordato dal’imperatore, che nel Regno non potessero essere confiscati i beni degli eretici, si ebbe il fondato sospetto che Tribunale ecclesiastico e quello secolare avessero concertato di dar luogo ugualmente al Tribunale dell’Inquisizione, molte famiglie, temendo una rivolta, come poi avvenne,  preferirono andar via dalla città; vi furono assemblee e furono mandati dei rappresentanti presso il viceré duca di Alcalà, il quale per prudenza, oppose il silenzio e la cittadinanza non soddisfatta, inviò un rappresentante dal re in Spagna; la scelta cadde sull’arcivescovo di Napoli, il cardinale Paolo d’Arezzo  il quale giunto a Madrid (1564), ben accolto dal re, ottenne ciò che i napoletani chiedevano (con tre lettere del 1565, due per la città e una per il viceré) che non sarebbe stata istituita la Inquisizione e che i giudizi in materia di religione sarebbero stati trattati dal Tribunale ordinario; non mancarono tentativi anche nel secolo successivo di istituire l’Inquisizione, ma le resistenze furono tali che nel regno di Napoli riuscirono vani.

I vari arcivescovi, sottilmente e segretamente erano riusciti a introdurre ugualmente una specie di Inquisizione avendo introdotto carceri proprie e personale proprio (consultori e notai), con sigillo proprio e la targa con la scritta Santo Uffizio per formare propri e segreti, e alla nomina come arcivescovo del cardinale Spinelli, regnante Carlo III, v. P.III)  si trovò di fronte a questo stato di cose.

L’Eletto del popolo fu incaricato di lamentarsene con il re il quale con un editto (1746) abolì tutto quell’apparato, bandì due canonici, e ordinò che la Curia ecclòesiastica potesse procedere solo per via ordinaria per i propri processi, ma dandone comunicazione al Tribunale secolare; ma poiché gli abusi continuavano, l’editto emesso da Carlo III, sarà rinnovato con Ferdinando IV (1761) e fu proibito alle autorità ecclesiastiche di emettere editti o provvedimenti che non fossero stati esaminati prima dalla Real Camera.

 

 

  RIVOLTA DELLA

POPOLAZIONE

CONTRO

L’INQUISIZIONE

 

 

D

urante il viceregno di don Pedro Toledo, dopo le assicurazioni che egli aveva dato relativamente alla non istituzione della Inquisizione a Napoli (1547), aveva fatto venire in città tremila soldati spagnoli alloggiati in Castelnuovo; alcuni di costoro erano usciti dal castello, superando il fossato e ciò aveva indispettito i popolani che prese le armi si diressero verso il castello; gli spagnoli cominciarono a sparare e i popolani si riversarono nella Rua Catalana (c.d. quartieri spagnoli) dove si diedero al saccheggio, uccidendo uomini, donne e bambini; fu suonata la campana di san Lorenzo; i castelli incominciarono a sparare cannonate sulla città; gli spagnoli che venivano trovati per strada erano trucidati e fatti a pezzi; giunta la sera le acque si calmarono, ma riprese nei giorni successivi e la rivolta durò diversi giorni (secondo Giannone durò quindici giorni, altri parlano di tre).

Il viceré sdegnato sosteneva che la città aveva commesso una ribellione; si riunirono i giureconsulti e tra costoro  Giovan Angelo Pisanello, che stabilirono che la città non poteva essere accusata di ribellione e occorreva conservarla al suo re e si decise di arruolare soldati per la sua difesa dando incarico a Giovan Francesco Caracciolo Priore di Bari, a Cesare Mormile e a Giovanni Marzano di Sessa, Eletto del Popolo.

A inasprire gli animi si verificava un nuovo avvenimento (maggio 1547): veniva condotto in prigione un individuo arrestato per debiti; un gruppo di giovani gli chiese come mai fosse stato arrestato e l’individuo rispose falsamente che “era stato arrestato per conto dell'Inquisizione”; al che i giovani lo liberarono e lo fecero fuggire; ma costoro furono subito fatti ricercare dal Reggente e su cinque arrestati ne furono trattenuti tre e portati in Castelnuovo; fu emessa una sentenza che doveva essere di esempio (alcuni consiglieri erano stati forzati a firmarla), che condannava a morte i tre giovani e l'esecuzione ebbe luogo nel largo di fronte a piazza dell’Olmo; ciò non fece che inasprire ulteriormente la popolazione già in armi.

Il viceré al fine di calmare il popolo pensò di fare una passeggiata per la città (nonostante i deputati gliel’avessero sconsigliata) con il suo seguito di nobili, ma anche di soldati; nessuno del popolo, contrariamente a come si era sempre comportato in precedenza, gli rivolse alcun cenno di saluto e la cavalcata fu considerata fatta per disprezzo.

 

 

SI MANDANO

AMBASCIATORI

DALL’IMPERATORE

 

 

D

opo aver tenuto un pubblico Consiglio, per opporsi alla Inquisizione, si decise di fare una “unione” tra nobili e popolo e di mandare degli ambasciatori dall’imperatore; fu eletto ambasciatore il principe di Salerno Ferrante Sanseverino, nemico di don Pedro (*), accompagnato da Placido di Sangro.

Il principe Sanseverino prima di partire  si recò in visita dal viceré il quale gli disse che non c’era bisogno di andare dall’imperatore in quanto era già stato concordato che l’Inquisizione non sarebbe stata istituita e comunque egli dava la sua parola di far pervenire un decreto dell’imperatore che avrebbe confermato che essa non sarebbe mai stata messa a Napoli; ma il principe rispose che non poteva non andare in quanto era stato incaricato dalla città, e andò via.

Il viceré da parte sua (era stato così stabilito) aveva nominato il marchese della Valle come ambasciatore al quale aveva dato lettere per Carlo V (che si trovava a Norimberga), in cui raccontava tutto ciò che nel frattempo era avvenuto a Napoli.

Mentre il principe Sanseverino si fermava a Roma, il marchese Della Valle aveva proseguito per Norimberga e aveva consegnato all’imperatore le lettere del viceré, sì che quando giunse Sanseverino, Carlo V era già informato di tutto ciò che era accaduto a Napoli: la sua risposta, mandata per iscritto a don Pedro, era che il viceré doveva essere considerato come la sua stessa persona.

Il principe Sanseverino alla corte dell’imperatore non aveva riscosso molto credito e si dubitava anche della sua legittimità di ambasciatore, per non essere stato eletto da tutte le Piazze e fu richiesto a Napoli che mandasse nuovi ambasciatori che confermassero le richieste del principe; furono mandati Giulio Cesare Caracciolo per i nobili e Giovan Battista Pino per il popolo.

Al suo ritorno a Napoli il principe Sanseverino riferì di aver parlato con l’imperatore della sostituzione del viceré e che l’imperatore gli aveva promesso la sostituzione (!), poi si recò con un gran seguito di nobili dal viceré che diede ordine di far entrare solo lui e lasciar fuori gli accompagnatori.

Il viceré lo ricevette assiso nella sala del trono; il principe cominciò a fargli il resoconto dell’ambasciata ma don Pedro che era già stato reso edotto di tutto, anche della richiesta fatta dal principe all’imperatore di sostituirlo con altro viceré, tagliò corto e gli disse: “principe, sono al corrente di tutto ciò che avete discusso con l’imperatore e anche quello che state trattando a Napoli, mettetevi la mente in quiete e attendete a servire sua maestà, perché delle cose passate tra me e voi non se ne parli più, come se non fossero mai avvenute”... dopo di che lo licenzio!

In questo periodo vi era stata una tregua e la città era desiderosa di conoscere la risposta dell’imperatore; don Pedro era in Castelnuovo (era il mese di agosto) e fece chiamare i delegati che entrati nel castello furono terrorizzati dal fatto che alle loro spalle era stato alzato il ponte levatoio, ma il viceré li rassicurò dicendo che perdonava la città e considerava non avvenuta alcuna ribellione e che se essi (Cesare Mormile, Caracciolo e Giovanni di Sessa) fossero andati da sua maestà (ricordiamo che questo titolo era stato usato per la prima volta da Carlo V dopo la sua incoronazione a Bologna, ne parleremo nei citati articoli in preparazione su Carlo V tra Rinascimento, Riforma e Controriforma) avrebbero avuto ugual giustizia.

I tre delegati andarono via felici per lo scampato pericolo e lieti di dare la buona novella alla città ....ma dopo alcune ore fu pubblicato un bando che annunciava che l’imperatore escludeva la grazia per trenta persone tra le quali erano compresi i tre delegati, che venuti a conoscenza del bando si diedero alla fuga e di loro fu preso solo Placido di Sangro.

Il viceré diede ordine che nessun altro di quelli che avevano commesso reati durante la rivolta fosse arrestato, neanche quelli che gli avevano saccheggiato il suo podere a Pozzuoli; e successivamente molti furono graziati, escluso Cesare Mormile e Giovan Vincenzo Brancaccio che fu subito preso e gli fu tagliata la testa.

Per i nobili che erano andati a servire il re di Francia come il principe di Salerno, fu disposta la confisca dei beni (il principe Sanseverino aveva a Napoli un magnifico palazzo con facciata bugnata a diamante che divenne Casa e Chiesa dei Gesuiti).

Nel frattempo giunse una lettera ufficiale dell’imperatore che dichiarando la città “fedelissima” e perdonando gli eccessi, irrogava una penale di centomila ducati e confermava che tutto ciò che il viceré aveva detto e fatto era da considerare come “sua volontà e per l’avvenire doveva essere considerato come la sua stessa persona.

 

*) I Sanseverino, principi di Salerno, erano sempre stati nemici degli aragonesi, Roberto, padre di Ferrante e l’avo  Antonello, avevano seguito il re di Francia con le armi; dichiarati dagli aragonesi ribelli, erano stati privati dei loro feudi.

Ferdinando il Cattolico in occasione della pace stipulata con il re di Francia, aveva restituito i feudi ai baroni che ne erano stati espropriati e tra costoro fu graziato anche Roberto Sanseverino al quale Ferdinando aveva dato in moglie la figlia del duca di Villaermosa, suo fratello naturale.

Da costoro nacque Ferrante educato in Spagna sotto le cure di Bernardo di Villamarino, conte di Capaccio (poi Luogotenente generale del Regno di Napoli) del quale Ferrante sposò l’unica figlia ereditando il feudo alla morte del padre; Ferrante aveva ereditato anche il ducato di Villaermosa (in Spagna), rendendo le sue ricchezze, immense; non avendo figli, aveva tentato di far apparire la moglie incinta, ma il viceré, per mezzo del Fisco al quale andavano i beni dei feudatari quando non vi erano eredi, inviò  dei commissari per assistere al parto, che non ebbe esito.

I rapporti tra Ferrante e don Pedro inizialmente erano stati di buona amicizia, ma per la lotta condotta da don Pedro contro le prepotenze dei nobili e le altre vicende (indicate nel capitolo che segue), i rapporti si rabbuiarono fino a diventare odio celato.

Il principe, di media statura, bel viso, biondo con occhi chiari, di animo magnanimo e liberale, di  vivace intelletto e di piacevole favella, presso la sua corte ospitava uomini di ingegno e rappresentanti di ogni campo del sapere; tra i primi nobili d’Italia e di Spagna poteva essere considerato un sovrano piuttosto che un vassallo del re; a questi pregi però corrispondevano altrettanti difetti; era infatti altezzoso, superbo e pieno di sé, covava odi e risentimenti, aveva amicizie di basso livello e di malavitolosi istinti, ma soprattutto aveva un forte debole per le donne.

Avido di gloria, amava la magnificenza e il fasto che, da una parte gli conciliavano l’ossequio dei nobili, dall’altra suscitavano l’invidia e la gelosia dei sovrani che seppur egli fosse di nascita e di parentado elevati, si sentivano defraudati di una parte degli onori che volevano fossero solo ad essi riservati: l’alterigia e la ribellione lo condussero alla sua misera fine.   

  

LA RIBELLIONE DEL

PRINCIPE SANSEVERINO

E DI ANTONIO GRISONE

 

I

l principe Sanseverino da Napoli si stava recando a Salerno (1551) e durante il viaggio era stato ferito al ginocchio con un colpo di archibugio da Persio di Ruggiero, gentiluomo salernitano, il quale fu subito arrestato e portato in prigione a Napoli dove, sotto tortura, confessò che lo aveva fatto per una questione d’onore.

Ma il principe aveva sospettato che il mandante fosse stato il viceré, per cui il processo andò in certo qual modo per le lunghe, al fine di accertare questo sospetto che risultò infondato, per cui Persio  condannato a morte continuò ad affermare la sua versione; fu comunque decapitato.

Con il viceré non correva buon sangue in quanto poco tempo prima il viceré lo aveva fatto citare per una questione relativa a diritti della dogana di Salerno che sarebbero stati riscossi dal principe abusivamente, con tutte le rendite riscosse dalla sua famiglia; era risultato che doveva essere restituita una cifra astronomica tale che avrebbe portato via al principe tutto il suo principato, ma la pretesa era infondata.

Il principe, una volta guarito se ne andò via dal regno recandosi a Padova, dicendo che doveva curare una lesione del nervo dovuto alla ferita subita: lo scopo però era quello di ribellarsi all’imperatore passando a servire il re di Francia.

Sanseverino per giustificarsi con la città di Napoli per il suo comportamento, aveva fatto pubblicare un manifesto in cui diceva di aver prestato molti servigi, anche con le armi, all’imperatore, e di aver ricevuto in cambio, dall’imperatore e dai suoi ministri pessime ricompense.

Avutane notizia il viceré aveva commentato che il principe aveva omesso di dire  nel manifesto che la maggior ricompensa ricevuta dell’imperatore era costituita dalla donazione del più grande e bel principato, come era quello di Salerno; gli fu fatto subito un processo che dichiarandolo ribelle, lo condannava a morte,  con la confisca del principato di Salerno con tutte le sue dipendenze.

La ribellione del principe non era considerata cosa nuova in quanto da tempo egli,  recandosi presso la corte di Francia, si era lasciato prendere dalla devozione nei confronti di quel re di cui raccontava le liberalità e a Salerno si faceva servire alla francese con tutte quelle usanze, delle quali il viceré era costantemente tenuto informato! 

Recatosi in Francia il re (Enrico II succeduto a Francesco I), gli affidava il comando di galere partite per Costantinopoli, dove il principe si fermò per tutto l’inverno in attesa di avere da Solimano il Magnifico l’aiuto promesso, essendo stata concordata con il re di Francia la conquista del Regno di Napoli.

Nel frattempo una parte della flotta turca formata da centocinquanta navi partita da Costantinopoli (1552) al comando di Sinan Pascià e sotto la guida di  Dragut Rais,   metteva le ancore presso Procida, con gran spavento della popolazione di Napoli,  anche perché giornalmente alcune navi turche si recavano a Capo Posillipo dove si scontravano con navi genovesi che si trovavano in quella zona; la flotta turca si fermò dal quindici luglio al dieci agosto e andò via dopo che il viceré per mezzo di Cesare Mormile aveva versato a Sinan Pascià la somma di duecentomila ducati. 

Antonio Grisone, vassallo di Sanseverino, gli aveva scritto  una lettera cifrata per sollecitare il re di Francia a mandare l’esercito per la conquista del regno; la lettera era stata  intercettata e consegnata al viceré che lo fece subito arrestare e condurre nelle prigioni di Castelnuovo dove, dopo aver confessato sotto tortura, fu condannato a morte e decapitato nel largo del castello dove di solito avvenivano le esecuzioni.

Il principe (da sempre sensibile al fascino femminile) nel periodo passato a Costantinopoli si era dato agli amori e alle dissolutezze, perdendo così la stima di Solimano; tornando in Francia si era dato a sostenere la causa degli ugonotti, perdendo tutti i contatti con la Corte; ultimo dei principi di Salerno, morirà ad Avignone (1568) ridotto in miseria, all’età di settantun anni.

La esecuzione del suo vassallo Grisone aveva suscitato il cordoglio generale in quanto benvoluto da tutti e i nobili nel parlarne con il viceré si erano sentiti  rispondere che Grisone “da una parte mostrava la sua grande fedeltà alla corona di Napoli, dall’altra ingannava tutti in quanto era astuto, arrischiato, di gran parentado, di molti amici, di gran credito nelle cose pubbliche e ciò faceva ritenere che nessun cittadino avrebbe rifiutato a seguirlo nella ribellione” (per la ventilata conquista del regno ndr.)!

 

CIRCA UN SECOLO E MEZZO

DOPO IL VICERE’ TOLEDO

 

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      Leopoldo I in abito teatrale

 

 

 

 

       L’IMPERATORE

      D’AUSTRIA

      LEOPOLDO I

 

L

eopoldo I (1657-1705) era secondogenito destinato alla carriera ecclesiastica, ma la morte prematura del fratello Ferdinando IV (1654) aveva portato al trono questa seconda linea degli Asburgo viennesi.

Aveva dovuto affrontare guerre, con i turchi che con Kara Mustafà erano arrivati a Vienna (1683) e con Luigi XVI, e aveva potuto uscirne con soddisfazione avendo come generale il brillante principe Eugenio di Savoia.

Leopoldo era uomo di spirito (lo vediamo dipinto nel celebre ritratto in abito di teatrante!), che non abbandonò neanche in punto di morte, avendo osservato che al suo letto erano state accese due candele, facendo notare che per l’imperatore dovevano essere quattro;  amante del teatro e dell’arte, anche dal punto di vista artistico il suo periodo era stato fortunato essendo stato il periodo del “rococò  il barocco imperiale che si diffonderà in tutta Europa.

Aveva avuto tre mogli, la prima delle quali era la nipote Margherita figlia di suo zio Ferdinando IV di Spagna che aveva sposato sua sorella Marianna!).

Leopoldo I vantava i suoi diritti sul trono di Spagna a causa della rinuncia fatta da Maria Teresa quando aveva sposato Luigi XIV (come sorella di Carlo II) per cui egli era il parente più prossimo (in mancanza di principi austriaci, seguiva il duca Vittorio Amedeo di Savoia discendente da Caterina figlia di Filippo II di Spagna) e come avente diritto  avanzava le sue pretese per il figlio secondogenito arciduca Carlo (1685-1740).

Si opponeva però Luigi XIV il quale, sebbene la moglie avesse rinunciato ai diritti di successione, li faceva valere ugualmente... e il re Sole quando c’era da far valere dei diritti...non si risparmiava le guerre!... e fece scoppiare una guerra di successione tra Francia e Austria durata tredici anni.

Morto Leopoldo I, gli succede come imperatore il figlio Giuseppe I; morto prematuramente di vaiolo (1711) gli succede il fratello arciduca Carlo, VI come imperatore, III come re di Napoli e nominalmente di Spagna (in quanto sul trono  come vedremo, vi era Filippo V), IV di Sicilia.

Carlo VI aveva sposato Elisabetta Cristina di Brunswick-Wolfenbȕttel, da cui ebbe due figlie femmine Maria Teresa, poi imperatrice di felicissima memoria, che sposò Francesco Stefano di Lorena e la sorella Maria Anna che sposò il fratello Carlo di Lorena.

Carlo VI continuò a volersi impadronire del Regno di Napoli (l’ingordigia dei grandi è pari al livello da essi raggiunto!) e riuscì anche a spuntarla, come vedremo.

Sul trono di Spagna, appena morto Carlo II (1700), si insedia Filippo V, primo della dinastia dei  Borbone che come dinastia sarà di breve durata e il suo regno sarà contrastato non solo con le rivendicazioni di Leopoldo I e di Giuseppe I e  dell’arciduca Carlo, ma sarà lo stesso arciduca Carlo a recarsi a combattere in Spagna dove Valenza e Barcellona gli si ribellarono (1706) passando dalla parte dell’impero austriaco; giunto in Italia, dopo aver conquistato il milanese, passò a occupare Napoli, come vedremo più avanti.

 

 

 

   CARLO II

 RE DI SPAGNA  E

DELLE DUE SICILIE

E LA SUCCESSIONE DI

FILIPPO V

 

 

 

 

 

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Carlo II con collana del Toson d’Oro

 

 

 

A

lla morte di Filippo IV di Spagna (1605-1665), del ramo Asburgo di Spagna, era stato incoronato all’età di cinque anni il figlio, avuto dalla moglie Maria Anna d’Asburgo-Austria (*) col nome di Carlo II (1661-1700), come re di Spagna, (Carlo IV come re di Napoli e Carlo III come re di Sicilia); essendo fanciullo, governava la madre con  il consiglio di reggenza.   

Carlo II portava impresso nel volto l’accentuato prognatismo con il labbro inferiore pendulo degli Asburgo, per la maggior parte brutti...ma erano re e imperatori...e non si faceva caso! La natura pensava invece a far belli i bastardi (p.es. la figlia di Carlo V che aveva sposato Alessandro de’ Medici, prima e Ottavio Farnese dopo, o don Giovanni, fratellastro di Filippo II), nati fuori dall’intreccio dei matrimoni  combinati.

Contrariamente al fratellastro bastardo don Giovanni, in buona salute (escluso dalla successione), Carlo quando nacque era così piccolo che non poteva essere fasciato e fu messo in una scatola piena di cotone e crescendo non riusciva a camminare, tenuto (con la bocca che penzolava aperta) fino all’età di dieci anni tra le braccia delle dame di corte; era affetto da rachitismo e da acromegalia, malattia ormonale della crescita (scoperta nel 1886), che colpiva vari organi compresa la sessualità per cui era anche impotente; era debole di carattere e d’intelligenza al limite dell’imbecillità, era triste e malinconico e quel che é peggio, inavvicinabile in quanto emanava un odore nauseabondo perché non si lavava.

 

 

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 Maria Luisa d’Orleans

Aveva avuto due mogli giovani e belle: Maria Luisa d’Orleans detta “mademoiselle” (nipote di Luigi XIV, figlia del fratello Filippo d’Orleans e di Enrichetta Stuart), morta (1689) si diceva, avvelenata da Maria Mancini (ma l’accusa era del tutto infondata), nipote del cardinale Mazzarino e moglie del principe Lorenzo Onofrio Colonna, Connestabile di Napoli; di spirito libero e insofferente aveva lasciato il marito e da Roma si era recata in Spagna dove dopo varie vicissitudini, fuggita da un convento, fu imprigionata nel castello di Segovia.

In  seconde nozze Carlo II sposa Marianna di Neuburg; ambedue le mogli erano state ritenute sterili, ma piuttosto dovuta alle sue pessime condizioni di salute che gli consentirono di vivere fino all’età di trentanove anni.

 

Maria Luisa si rammaricava con lo zio Luigi XIV per averla destinata a quel matrimonio (lei anelava a sposare il cugino Delfino che peraltro le premorì!); il re per incoraggiarla le aveva detto “di non aver potuto ottenere una più grande alleanza per la propria figlia” ed essa rispose: “Ah, sire, ma avreste potuto far meglio per vostra nipote”!

 

Essendo da tempo malato, Carlo II aveva redatto un primo testamento (1698) col quale nominava erede il nipote figlio dell’Elettore di Baviera (che aveva sposato sua sorella), ma questo nel frattempo moriva e Carlo II fece un secondo testamento con il quale nominava erede Filippo di Borbone, duca d’Angiò secondogenito (in quanto alla linea primogenita era riservata la successione al regno di Francia), del Delfino duca di Borgogna; questo morirà di vaiolo e il suo primogenito  alla morte di Luigi XIV (1715) diventerà  Luigi XV (**).

Uno dei capolavori politici del cardinale Mazzarino era stata la pace dei Pirenei (1659) dalla quale era derivato il duplice matrimonio tra Luigi XIV e Maria Teresa (1638-1683), figlia di Filippo IV e il figlio Carlo  con Maria Luisa d’Orleans, il quale, come detto, nel secondo testamento, nominava come primo erede al trono di Spagna il suo pronipote (e di Luigi XIV), Filippo d’Angiò, a patto che i domini spagnoli rimanessero uniti e che i suoi eredi rinunciassero ad ogni diritto sulla corona di Francia.

Così Filippo di Borbone duca d’Angiò poté salire sul trono di Spagna col nome di Filippo V (1700-1746), inizialmente senza dar luogo a complicazioni, emerse non appena Luigi XIV pretese che il nipote, contrariamente agli accordi, conservasse i diritti al trono fran­cese.

Contro la Francia che non si atteneva ai patti, si formava  una lega e venne combattuta la Guerra per la successione di Spagna (dal 1701 al 1713), durante la quale le armi francesi subirono dure sconfitte: in conclusione il trono di Spagna rimase a Filippo V, pur essendo stata la Spagna privata di alcuni domini, in base alla  pace di Utrecht (v. sotto) come i Paesi Bassi, oltre alla Sicilia e la Sardegna assegnate ai Savoia, col titolo reale, mentre gli altri possedimenti della Spagna nella penisola quale il regno di Napoli, Milano e Stato dei Presidi passavano alla Casa d'Austria, che si sostituiva in tal modo al predominio spagnolo.

 

 

*) Da uno studio di genetica di docenti dell’Università di Santiago di Compostela  sugli Asburgo di Spagna, nel caso di ripetuti matrimoni tra consanguinei, e nel caso specifico di Carlo II, il tasso di accumulo di gemi era di 1 su 4  pari al 25,4% pari al tasso che si riscontra nei figli generati da incesti stretti come padre e figlia o fratelli e sorelle. 

**) Luigi XIV aveva avuto il figlio Luigi 1° Delfino (morto di rosolia il 1711) il cui primogenito, duca di Borgogna (2° Delfino) era morto l’anno successivo di vaiolo (1712); questo aveva avuto due figli, il primogenito moriva lo stesso anno (1712); il secondogenito, 3° Delfino, sarà Luigi XV;  il secondogenito del 1° Delfino era Filippo, duca d’Angiò (che aveva sposato Maria Gabriella di Savoia), divenuto Filippo V re di Spagna, v. in Genealogie i Borboni di Francia.

 

TRA GUERRE E

 TRATTATI VIOLATI

DEI PAESI EUROPEI

 

L

a proclamazione di Filippo d’Angiò (1683-1746) come Filippo V aveva avuto luogo a Versailles (1701) e subito dopo la sua proclamazione egli si reca a Madrid; ciò suscita le preoccupazioni non solo dell’Austria, diretta interessata, ma anche dell’Inghilterra, dei Paesi Bassi, del Portogallo (con Pietro II) e del ducato di Savoia (con Vittorio Amedeo II), che si uniscono per far rispettare il trattato dell’’Aia (1698) in cui era stato riconosciuto erede Giuseppe Ferdinando di Baviera (che aveva sposato Margherita seconda figlia di Filippo IV), mentre i territori al di fuori della Spagna (in Europa) sarebbero stati da dividere tra Austria e Francia.  

Si combattè nei Paesi Bassi, in Germania e nel Nord Italia; gli inglesi occupano Gibilterra (1704); l’arciduca Carlo si insedia a Barcellona (1706) dove viene proclamato re dagli abitanti della Catalogna e dell’Aragona e gli anglo- portoghesi impossessatisi per pochi giorni di Madrid lo proclamano re di Spagna; i francesi sono costretti a ritirarsi dal Milanese; il duca di Marlborough si impadronisce dei Paesi Bassi spagnoli.

In Austria muore Giuseppe I e il fratello, l’arciduca Carlo, diventa imperatore, mentre le truppe francesi comandate da Vendôme, rafforzano la posizione di Filippo V che possiede tutta la Spagna esclusa Barcellona.

Gli stati ancora in guerra firmano (1713) il trattato di Utrecht (*) in base al quale Filippo V è riconosciuto re di Spagna e delle Indie, con rinuncia ai diritti di successione in Francia; la Spagna cede all’Inghilterra Gibilterra e Minorca; all’Austria è riconosciuto il ducato di Milano, Mantova, il regno di Napoli e la Sardegna.

Filippo V dopo la morte di Maria Luisa di Savoia (1714), sposa Elisabetta Farnese erede dei ducato di Parma e Piacenza (avente diritto di successione sulla Toscana in quanto discendente  da Margherita de’ Medici  figlia del Granduca Cosimo III) e vuole rientrare nel possesso dei territori italiani; il suo tentativo di impadronirsi della Sardegna e Sicilia non riesce in quanto si trova contro Inghilterra, Francia, Olanda e Austria; viene firmata la pace dell’Aia (1720) in base alla quale la Sardegna è assegnata  al duca di Savoia, la Sicilia all’Austria, all’Infante Carlo di Spagna, Parma, Piacenza e la Toscana.

In seguito a un’ulteriore guerra di successione polacca (1733-38) la Francia e la Spagna stipulano un c.d. patto di famiglia in base al quale Filippo V attacca i possedimenti imperiali in Italia e viene proclamato re di Napoli (10.v.1734) e due giorni dopo cede il regno al figlio Carlo che diventa Carlo  III di Napoli.

Ma riprende un’altra guerra di successione austriaca (1740-1748) durante la quale Spagna e Francia stipulano un secondo patto di famiglia in base al quale all’Infante Filippo verrebbero assegnati Milano e Parma, ma, nel frattempo  Filippo V muore (1746) e gli succede il figlio di primo letto Ferdinando VI (1746-1759).

A questo punto, gli austriaci sono padroni dell’Italia settentrionale e stanno per attaccare Napoli, per cui si giunge alla pace di Aquisgrana (1748) con la quale i ducati di Parma, Piacenza e Guastalla sono assegnati all’Infante Filippo, nel frattempo divenuto Ferdinando VI, il quale  muore senza figli e gli succede il fratello Carlo III re di Napoli.

Carlo partendo per la Spagna, lascia il regno al figlio Ferdinando...le guerre continuano, ma (per fortuna di chi scrive che non le ama!) non riguardano il Regno di Napoli che dopo la carrellata partita dalla formazione dei Seggi, passando per il periodo fondamentale per Napoli, del passaggio verso l’era moderna con il viceré Toledo, passiamo a esaminare nelle due parti successive il periodo del viceregno di Medina-Coeli, che aveva dovuto tenere energicamente a bada la violenta e anarcoide nobiltà sempre ribelle a ogni forma di legalità e al focolaio  di ribellione che - non unico -  era emerso con la congiura di Macchia.       

 

 

 

*) TRATTATO DI UTRECHT (11.iv.1713) fra Inghilterra, Olanda, Portogallo, Savoia, Prussia,Francia, Spagna si stabilisca la rinuncia di Filippo, per sé e suoi discendenti,  al regno di Francia e dei duchi di Berry e d’Orleans; a Filippo rimanevano la Spagna e le Indie; la Sicilia fu data al duca Vittorio Amedeodi Savoia al quale fu promessa la successione al regno di Spagna, nel caso venisse a mancare il ramo di Filippo; la regina Anna Stuart fu riconosciuta regina d’Inghilterra e dopo la sua morte il principe Elettore d’Hannover e suoi eredi; le Piazze della Fiandra spagnola furono date agli olandesi, per essere restituite all’Austria; Lilla e Aire furono restituite alla Francia; l’imperatrice Elisabetta che si trovava ancora in Catalogna, lasciò il paese per raggiungere il marito a Vienna.

 

 

 

FINE

PARTE GENERALE