RIVISTA STORICA VIRTUALE

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Benozzo Gozzoli -Lorenzo il Magnifico

 

 

LA CONGIURA DE’ PAZZI

A FIRENZE

1478

 

MICHELE E. PUGLIA

 

 

SOMMARIO: I PRODROMI; I CONGIURATI: ASSASSINIO NEL DUOMO; A PALAZZO DELLA SIGNORIA; LA MATTANZA; LA TIRANNIDE DEI MEDICI; IL DISCORSO DI LORENZO; RIPERCUSSIONI DELLA CONGIURA, TRAME DI CONQUISTA E VENDETTA DI LORENZO; LA RIVOLTA DI GENOVA E LA GUERRA DEGLI SVIZZERI.

 

I PRODROMI

 

 

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ra le famiglie che primeggiavano in Firenze per ricchezza e nobiltà feudale vi era la famiglia de’ Pazzi rivale della famiglia de’ Medici (di più mediocri origini). Era una delle poche grandi famiglie che Cosimo de’ Medici quando aveva preso il potere nel 1434, non aveva bandito dalla città (*).

Per superare la rivalità derivante dalle diverse origini, Cosimo aveva pensato di  imparentare le due famiglie con un matrimonio, facendo sposare una delle sue nipoti,  Bianca (sorella di Lorenzo), con Guglielmo de’ Pazzi, figlio di Pietro.

Capo della famiglia de’ Pazzi era Jacopo che aveva solo una figlia naturale e molti nipoti, figli dei suoi due fratelli, Piero e Antonio, dei quali Guglielmo, Francesco, Renato e Giovanni figli di Pietro e Andrea, Niccolò e Galeotto figli di Antonio.

Ma alla mossa diplomatica del matrimonio, non era corrisposta la dovuta considerazione del riconoscimento di onori che venivano concessi ad altri cittadini  e non ai de’ Pazzi (Lorenzo era molto attento che nessun’altra famiglia potesse prendere il sopravvento), con la conseguenza che costoro non erano ben visti dai magistrati. Si era anche verificato che il magistrato degli Otto, per un motivo di poco conto, dovendo interrogare Francesco de’ Pazzi che risiedeva a Roma, lo aveva convocato a Firenze, senza alcun rispetto dovuto ai personaggi di riguardo, e questo aveva suscitato sdegno nei membri della famiglia.

Ad aggravare la situazione interveniva un’altra circostanza. Giovanni de’ Pazzi, fratello di  Guglielmo e Francesco, aveva sposato Beatrice, l’unica figlia di Giovanni Borromeo. Alla morte di questo, Beatrice aveva ereditato tutte le sostanze paterne delle quali poteva disporne il marito Guglielmo. Lorenzo però aveva fatto promulgare una legge (nel 1474, con effetto retroattivo) in base alla quale nel caso di morte senza testamento (come si era verificato alla morte di Giovanni Borromeo), l’eredità sarebbe passata ai nipoti maschi con esclusione delle figlie femmine, con la conseguenza che l’eredità andava a finire nelle mani di Carlo Borromeo creatura dell’orbita dei Medici il quale aveva lasciato che i beni gli fossero confiscati.

Francesco de’ Pazzi (1444-1478)  viveva quasi sempre a Roma con larghezza di mezzi e aveva favorito il papa per l’acquisto della contea di Imola, facendogli un prestito di 30mila ducati che Lorenzo gli aveva rifiutato sconsigliando anche Francesco dal farlo, ma Francesco lo aveva riferito al papa e Sisto IV aveva tolto ai Medici l’ufficio della Depositeria in cui erano convogliati tutti gli affari della Curia, dandola a Francesco.

In quel tempo altre discordie erano sorte con i Medici. Una era stata determinata dalla  nomina di Francesco Salviati ad arcivescovo di Pisa dopo la morte di Filippo de’ Medici; la nomina era stata fatta ritardare per tre anni da parte di Lorenzo che voleva che andasse a persona a lui gradita. Non solo, ma Lorenzo si era opposto in precedenza presso il papa Sisto IV, alla nomina di Salviati come arcivescovo di Firenze, incarico che era stato dato a suo cognato Rinaldo Orsini. Vi era infine un ulteriore motivo di risentimento precedente tra le famiglie:  al tempo di Cosimo de’ Medici i Salviati erano stati esiliati.

Altra discordia era sorta con  il papa Sisto IV, bramoso di appropriarsi di feudi da dare ai suoi nipoti. Le discordie erano  sorte a seguito degli aiuti dati da Lorenzo a Niccolò Vitelli signore di Spoleto e di Città di Castello,  quando a seguito della ribellione di Spoleto Sisto l’aveva fatta saccheggiare e aveva poi fatto porre l’assedio a Città di Castello (1473).

Nel 1477 Lorenzo aveva chiesto al condottiero Carlo Fortebraccio, che aveva appena cessato di prestar servizio nei confronti di Venezia, di attaccare la repubblica di Siena: il calcolo era quello di far richiedere a Siena la protezione di Firenze e questo avrebbe portato alla unificazione della Toscana per poter sbarrare la strada a Gerolamo Riario (figlio di Sisto IV, considerato  nipote) che aveva appena acquistato la contea di Faenza.

I maggiori stati dell’Italia di quel tempo erano divisi in due fazioni: da una parte vi era il papa e il re di Napoli (ai quali si aggiungerà Federico da Montefeltro), dall’altra i veneziani, il duca di Milano e Firenze.

Il pontefice cercava tutti i modi per domare Firenze che gli impediva, come detto, l’acquisizione di feudi e per questi motivi non vedeva di buon occhio l’amicizia tra Lorenzo e Niccolò  Vitelli, che frustrava i suoi piani.

Non solo. Era stata da poco rinnovata la Lega contro i turchi tra il duca di Milano, i veneziani e i fiorentini. Il papa e il re di Napoli, invece di entrare in questa Lega, si erano collegati tra di loro e avevano chiesto agli altri principi di entrarvi.

Questa Lega contro i turchi era stata determinata  dai vari attacchi alle isole da parte dei turchi e dal fatto che i veneziani avevano occupato Cipro su cui il re Ferdinando di Napoli aveva le sue mire.

Dalla Lega Firenze-Venezia-Milano mancava Federico da Montefeltro il quale per molto tempo aveva militato per i fiorentini ed era un ottimo capitano. Federico (che lo vediamo riprodotto con un naso accentuatamente aquilino perché gli mancava un pezzo per una ferita riportata in battaglia, in cui  aveva perso anche un occhio) fu invitato dal re Ferdinando a Napoli, dove si recò facendo però dispiacere i fiorentini. Dopo essere stato a Napoli, Federico si era fermato a Roma da dove era rientrato nelle sue terre con la nomina di comandante della Lega (intervenuta ora tra il papa, il re di Napoli e Federico).

Il papa e il re di Napoli non mancarono di invogliare i Signori della Romagne e i senesi a entrare nella loro Lega che solo ufficialmente, come abbiamo detto, era contro i turchi, ma le intenzioni di tutti i partecipanti erano di conquiste territoriali: del re di Napoli, che aspirava all’isola di Cipro; del papa per feudi per i nipoti, particolarmente per il figlio-nipote Girolamo Riario che con la contea di Imola non aveva molte possibilità di espandersi ulteriormente; e di Federico da Montefeltro al quale interessava ingrandire il suo ducato di Urbino.

Il risentimento del re di Napoli e del papa, costoro sostenevano, era determinato dal fatto che i fiorentini si erano uniti ai veneziani che il papa riteneva nemici!

La Lega fiorentina, avendo perso Federico, aveva assoldato come capitano Roberto da Rimini, accogliendo nella propria compagine i perugini e i signori di Faenza.

Nei loro giochi politici, scrive Machiavelli, “per i fiorentini era meglio tenersi amici i veneziani che nemici ma ciò solo per poterli più facilmente colpire”!

Questa però era una situazione di stallo. Il papa voleva colpire in tutti i modi Lorenzo che considerava “figlio di iniquità e alunno di perdizione”. Occorreva fare qualcosa: Il primo atto compiuto dal papa fu quello di togliere ai Medici come abbiamo visto, la Dispenseria, alla quale facevano capo tutti i rapporti economici bancari dello Stato pontificio, che fu dato ai Pazzi (1474). Il secondo atto doveva essere la eliminazione di Lorenzo alla quale avevano interesse sia il papa che Francesco de’ Pazzi, oltre al nipote del papa, Girolamo Riario e all’ambizioso arcivescovo Francesco Salviati.

Del papa Sisto IV si può dire che era  stato un grande papa rinascimentale (per le opere d’arte che aveva fatto eseguire a Roma ne parliamo negli articoli: Carlo V tra Rinascimento, Riforma ecc,.), ma era stato altrettanto grande nelle scelleratezze davanti alle quali non si era mai tirato indietro. Pur di dare ai suoi quattro nipoti  (due avevano il suo cognome, Leonardo e Giuliano della Rovere e due erano figli di una sorella, Pietro e Girolamo Riario, ma si diceva fossero ugualmente suoi figli incestuosi) proprietà, palazzi a Roma e ricchezze. Tra questi nipoti, due furono nominati cardinali, Giuliano della Rovere (diventerà papa col nome di Giulio II) e Pietro Riario; Leonardo fu nominato prefetto di Roma e aveva sposato una figlia naturale del re Ferdinando di Napoli. Il papa aveva grande predilezione per i due fratelli, Pietro e Girolamo, ma il suo favorito per il quale stravedeva, che lo aveva trascinato in guerre e intrighi era Girolamo, anima della congiura.

A Girolamo il papa aveva fatto sposare Caterina Sforza, figlia naturale di Galeazzo Sforza. In occasione di questo matrimonio il papa gli aveva acquistato la contea di Imola (da Taddeo Manfredi) e Girolamo successivamente si appropriava di Forlì (1480) nell’intento, (voluto dal papa), di impadronirsi di tutta la Romagna (sarà sostituito in queste aspirazioni, da un altro figlio di papa, il duca Valentino, come si vedrà  nell’articolo sui Borgia).

 

*) Erano stati banditi i Ricci, Albizzi, Barbadori, Peruzzi, Strozzi e poi nel 1458 Machiavelli, nel 1466 Acciaiuoli, Neroni e Siderini e nel 1466 Pitti e Capponi.

 

 

 

 

 

 

 

 

I CONGIURATI

 

 

 

 

 

 

Piero della Francesca - Federico da Montefeltro

 

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’idea della congiura era nata a Roma dove, come abbiamo visto, si trovavano i principali personaggi che avevano validi motivi e il giusto risentimento per togliere di mezzo il Magnifico. In primo luogo il papa, relativamente al quale gli storici hanno avuto un certo ritegno nel dire chiaramente che fosse stato, se non proprio l’ispiratore della congiura, quello che ne aveva seguito tutti gli sviluppi, e ben sapendo che vi sarebbe stato spargimento di sangue, senza farsi prendere da scrupoli di sorta aveva dato la sua benedizione per la riuscita della congiura per l’assassinio di Lorenzo.

Anche Francesco de’ Pazzi, che era il più animoso e impulsivo della famiglia era motivato quanto lo stesso papa e soleva dire che o avrebbe acquistato ciò che gli mancava o avrebbe perso ciò che aveva. Seguivano poi Girolamo Riario amico di Francesco e ambedue spesso si dolevano dei Medici e desideravano cambiar le cose a Firenze, e infine l’arcivescovo Francesco Salviati.

In questo frangente Francesco decise di recarsi dal padre Jacopo a Firenze per coinvolgerlo nella congiura, ma il vecchio Jacopo  mostrò tutta la sua contrarietà a questa azione. 

A Roma si trovava Giovan Battista da Montesecco, condottiero del papa e imparentato con Girolamo Riario, il quale era stato convinto da Girolamo e dal Salviati a partecipare all’impresa che Montesecco  riteneva pericolosa.

Montesecco fu quindi mandato a Firenze per potersi rendere conto della situazione, ufficialmente presso Lorenzo per dirimere la controversia sorta tra Carlo Manfredi, Signore di Faenza e Girolamo Riario che rivendicava il territorio di Valdeseno.

Montesecco fu amabilmente ricevuto da Lorenzo che non sospettava quanto si stava preparando alle sue spalle. Nello stesso tempo Montesecco contattava anche lui il vecchio Jacopo de’ Pazzi,  che però anche questa volta si era mostrato contrario all’impresa.

L’idea maturata era quella di uccidere il solo Lorenzo, ritenendo che l’uccisione avrebbe provocato una rivolta di popolo, ma poi si decise di uccidere ambedue i fratelli. 

L’arcivescovo Salviati e Francesco de’ Pazzi avevano riunito gente fidata tra i quali altri due Salviati, ambedue di nome Jacopo, fratello e cugino dell’arcivescovo, Jacopo Bracciolini, carico di debiti e insulso figlio del più famoso Poggio, l’avventuriero Bernardo Bandini, Napoleone Franzesi  dell’entourage di Guglielmo de’ Pazzi e due personaggi esaltati, che si erano offerti di uccidere Lorenzo, un messer Antonio Maffei da Volterra e il sacerdote Stefano di Bagnone, cappellano di Jacopo Pazzi, insegnante di latino.

L’occasione del tranello sarebbe stata data dalla visita del giovanissimo Raffaello Sansoni, nipote di Girolamo Riario e pronipote di Sisto IV, da poco nominato cardinale di Perugia che si era recava in visita a Firenze, il quale in effetti copriva la congiura, portando al seguito un buon numero di congiurati. Raffaello era stato ospitato da Jacopo de’ Pazzi nella sua villa di Montughi poco distante da Firenze. Lorenzo e Giuliano gli offrirono un banchetto nella loro villa di Fiesole e questa sarebbe stata l’occasione per agire. Ma Giuliano ferito a una gamba in una partita di caccia, non poté partecipare e l’esecuzione fu rinviata.

La nuova occasione sarebbe stata data da un altro convito a Firenze al quale dovevano partecipare i due Medici, che si sarebbe tenuto la domenica successiva (26 aprile 1478), per cui i congiurati si riunirono la notte di sabato disponendo le modalità dell’assassinio per il giorno successivo. Ma venuto il giorno fu comunicato a Francesco che Giuliano non avrebbe partecipato, per cui i congiurati decisero di non differire ulteriormente la decisione in quanto già molti erano a conoscenza della congiura che avrebbe potuto essere scoperta.

Deliberarono quindi di procedere durante la messa nella cattedrale alla quale i due fratelli erano soliti partecipare. Giovan Battista Montesecco avrebbe dovuto ammazzare Lorenzo, Francesco e Bernardo, Giuliano. Ma Giovan Battista fu preso dagli scrupoli di commettere oltre all’assassinio un sacrilegio in chiesa e si rifiutò. “Questo”, commenta Machiavelli, “fu il principio della rovina della loro impresa, perché avendo poco tempo a disposizione, furono costretti ad affidare l’incarico ad Antonio da Volterra e Stefano che non erano per nulla adatti a questa impresa”.

 

 

 

 

 ASSASSINIO

 NELLA CATTEDRALE

 

 

 

 

 

 

 

 

 

Botticelli - Giuliano de’ Medici - Washington

 

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’ assassinio sarebbe avvenuto nel momento in cui il sacerdote officiante si comunicava. Mentre in chiesa si sarebbe proceduto all’assassinio, l’arcivescovo Salviati con i suoi e Jacopo Bracciolini avrebbero dovuto occupare il palazzo della Signoria. Presa questa deliberazione, i congiurati si recarono in chiesa: la messa era già iniziata e la chiesa era piena di popolo. Montesecco con i suoi balestrieri e fanti si fece largo tra la folla per aprire un varco al cardinale Sansoni, accompagnandolo al coro dove fu raggiunto da Lorenzo. Francesco e Bernardo si accorsero dell’assenza di Giuliano  e uscirono dalla chiesa per andarlo a cercare  nel vicino palazzo convincendolo  ad andare in chiesa, e, “cosa degna di memoria”, scrive Machiavelli, “tanto odio e l’idea che avrebbero dovuto assassinarlo, perseguita con tanta ostinazione, tanto pensiero di tanto eccesso, si potesse con tanto amore e tanta ostinazione d’animo da ambedue ricoprire”.

Durante il percorso per strada e nella chiesa “con fare scherzoso e raccontando facezie giovanili  Francesco ne approfittava fingendo di carezzarlo con le mani e con le braccia, toccandolo per accertare che Giuliano non avesse una  giubba o una maglia protettiva.

Giuliano e Lorenzo ben sapevano quali sentimenti i Pazzi nutrissero nei loro confronti desiderosi com’erano di appropriarsi del governo  della repubblica, ma non temevano per la vita perché civilmente pensavano che anche a voler togliere loro il governo, non lo avrebbero fatto con tanta violenza e perciò anch’essi simulavano trascurando ogni accorgimento per salvaguardare la propria vita.

Bandini, estratto fulmineamente il pugnale trafisse il petto di Giuliano. Francesco si avventò sulla vittima pugnalandolo ripetutamente e con tanta violenza che egli stesso si ferì a una gamba.

Antonio e Stefano si erano avventati contro Lorenzo. Antonio Maffei aveva appoggiato la sua mano sulla spalla di Lorenzo per trattenerlo e meglio colpirlo, ma Lorenzo si voltò repentinamente e il pugnale lo colpì lievemente al collo. Lorenzo dopo essersi svincolato arrotolò il mantello attorno al braccio per parare i colpi, quindi sguainata la spada saltò sulla balaustra dirigendosi verso il coro e attorniato da Antonio e Lorenzo Cavalcanti raggiunse la sagrestia.

Poliziano chiuse il portone di bronzo, in chiesa si correva da tutte le parti, mentre Bandini voleva raggiungere Lorenzo in sagrestia, fu fermato da Francesco Nori che fu a sua volta pugnalato. Lorenzo era al sicuro in sagrestia dove Antonio Ridolfi temendo che il pugnale fosse avvelenato, si offrì di succhiare il sangue.

Giuliano, abbandonato sul pavimento giaceva in un bagno di sangue. Il giovane cardinale Sansoni si ritrasse verso l’altare maggiore e a stento fu salvato da alcuni chierici e cessato il tumulto soldati della Signoria  lo condussero nel suo palazzo dove rimase sotto sorveglianza fino a che non fu liberato.

Mentre gli assassini si erano dati alla fuga. Antonio e Stefano dalla folla furono trascinati per la città e linciati e dopo due giorni, tumefatti e senza orecchie furono anch’essi impiccati.

Berrnardo Bandini era fuggito su un cavallo riuscendo a raggiungere Costantinopoli, ma Maometto II, su richiesta di Lorenzo lo rispedì a Firenze dove fu impiccato (1479) alle finestre del Bargello (Leonardo ne fece un disegno), mentre  Francesco de’ Pazzi era andato a rintanarsi nel suo palazzo.

 

 AL PALAZZO

DELLA SIGNORIA

 

L

’arcivescovo Salviati si stava recando al palazzo della Signoria con Jacopo Bracciolini e alcuni amici, prese con sé dei perugini fuoriusciti della loro città che si trovavano a Firenze e giunto al palazzo lasciò parte dei suoi da basso con l’ordine che sentendo rumore occupassero la porta, mentre lui con i perugini salì al piano superiore dove la Signoria stava desinando e fu introdotto da Cesare Petrucci, gonfaloniere di giustizia. Salviati era entrato con alcuni suoi amici, lasciando fuori il resto che rimase chiuso nella Cancelleria in quanto la porta aveva un sistema di chiusura che una volta chiusa non poteva essere riaperta né dall’interno né dall’esterno, se non con una chiave.

Salviati rimasto in presenza del gonfaloniere, dicendo di volergli riferire un messaggio del papa, incominciò a dire parole sconnesse e da queste e dal suo aspetto il gonfaloniere, insospettitosi, incominciò a gridare e uscendo dalla sala, trovato Jacopo Bracciolini lo afferrò per i capelli consegnandolo ai suoi sergenti.

Gli altri che erano saliti con l’arcivescovo impauriti e spaventati furono, alcuni uccisi, altri buttati vivi dalle finestre mentre l’arcivescovo, i due Jacopo Salviati e Jacopo Bracciolini furono impiccati alle finestre. Quelli che erano rimasti in basso avevano forzato la guardia e la porta in modo che i cittadini che stavano accorrendo sia quelli armati che quelli senza armi, potessero prestare aiuto alla Signoria.

Nella chiesa Francesco de’ Pazzi e Bernardo Bandini vedendo che Lorenzo era scampato all’assassinio, fortemente turbati, mentre Bernardo si diede alla fuga, Francesco aveva provato a salire su un cavallo per poter radunare armati e chiamare il popolo alle armi e alla libertà, ma non vi riuscì tanto era profonda la ferita e tanto il sangue perduto. Si recò quindi a casa e spogliatosi si gettò nudo sul letto e pregò il vecchio padre Jacopo di fare ciò che lui non aveva potuto fare, sollevare il popolo.

Jacopo non pratico di tumulti salì ugualmente a cavallo, raccogliendo cento uomini si diresse verso piazza della Signoria chiamando il popolo e invocando la libertà. “Ma, poiché l’uno (il popolo)”, scrive Machiavelli, “dalla fortuna e dalle liberalità dei Medici era fatto sordo, l’altra (la libertà) in Firenze non era conosciuta, non vi fu nessuna partecipazione”. Soltanto i signori che occupavano la parte superiore del palazzo, lo salutarono a sassate e minacce.

Incontrato il cognato Giovanni Serristori (fratello della moglie, Maddalena Serristori),  rimproverandolo di ciò che aveva fatto, gli suggerì di tornare a casa. Jacopo resosi conto che il palazzo gli era contro, Lorenzo era vivo e salvo, il figlio Francesco ferito, e nessuno lo seguiva, non sapendo cosa fare pensò di salvare la propria vita dandosi alla fuga e con  la compagnia che aveva al seguito uscì da Firenze per andare in Romagna. 

Lorenzo accompagnato da molti armati si ritirò nel suo palazzo, mentre il palazzo della Signoria era stato liberato e gli occupanti in parte furono ammazzati, in parte arrestati.

Per le strade si gridava il nome dei Medici mentre le membra dei morti venivano portate infisse sulle punte delle lance o trascinate per le strade e ciascuno inveiva contro i Pazzi il cui palazzo fu assaltato, e Francesco, così nudo come fu trovato, con gli occhi aperti e senza  conoscenza fu preso e condotto alla Signoria e impiccato accanto all’arcivescovo Salviati e agli altri. E non era stato possibile farlo parlare perché Francesco guardando fisso, senza lamentarsi, tirava lunghi sospiri.

Il cognato di Lorenzo, Guglielmo de’ Pazzi sia per la sua innocenza, sia per l’intervento della moglie Bianca riuscì ad aver  salva la vita.

 

LA MATTANZA

 

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utti si recavano a palazzo Medici per offrire a Lorenzo il proprio aiuto e mettergli a disposizione le proprie sostanze e ciò dimostrava  quanta era stata la liberalità della casa de’ Medici.

Renato de’ Pazzi che non era coinvolto nella congiura, durante gli avvenimenti si trovava nella sua villa ed essendone venuto a conoscenza pensò di fuggire travestito, ma durante il cammino fu riconosciuto  e riportato a Firenze. Anche messer Jacopo fu preso dagli alpigiani quando stava attraversando le Alpi, anch’egli ricondotto a Firenze mentre durante il percorso aveva chiesto inutilmente di essere ucciso.

Ambedue furono giudicati e condannati a morte quattro giorni dopo, e tra tante uccisioni fatte in quei giorni, che avevano riempito le strade di  membra di cadaveri, solo Renato, ritenuto buono, saggio e privo di superbia tra tutti gli esponenti della sua famiglia, fu l’unico ad essere trattato con maggior riguardo.

Il corpo di Jacopo in un primo momento seppellito nella tomba di famiglia, essendo un bestemmiatore, poiché qualcuno lo aveva sentito bestemmiare prima di morire, tolto da questo sepolcro, come uno scomunicato fu seppellito sotto le mura della città e da qui ancora dissotterrato e con il capestro col quale era stato impiccato e nudo, fu trascinato per tutta la città e gettato nell’Arno che in quell’epoca aveva le sue acque altissime: “questa” scrive lo storico, “fu la fine di un uomo tanto ricco e felice caduto nella infelicità di tanta rovina e vilipendio”.

Si narrava che Jacopo fosse dedito al gioco e nessuno riusciva a superarlo nelle bestemmie; cercava di farsi perdonare questi vizi facendo molte elemosine a bisognosi e sovvenzionando monasteri. Per di più il sabato precedente a quella infelice domenica, per non coinvolgere altri nella sua sfortuna, aveva pagato tutti i debiti, consegnando tutte le mercanzie che aveva in deposito ai proprietari.

Giovan Battista da Montesecco, dopo lungo processo fu condannato alla decapitazione; Napoleone  Franzesi riuscì a sottrarsi alla condanna dandosi alla fuga. Guglielmo de’ Pazzi con i  suoi cugini rimasti vivi fu confinato in carcere nella rocca  di Volterra.

Cessato il tumulto e puniti tutti i congiurati, si celebrarono le esequie di Giuliano, accompagnato da tutti i concittadini in lacrime, essendo stato di grande liberalità ed umanità. Di lui rimase un figlio naturale, nato pochi mesi dopo, che fu chiamato Giulio e avrà la  fortuna di raggiungere il pontificato col nome di Clemente VII (1478-1534).

Pacificata la città, vi era da affrontare il nemico esterno: il papa e il re di Napoli non essendo riusciti ad ottenere il cambiamento del governo della città con la congiura, deliberarono di ottenerlo con la guerra, facendo sapere che essi non volevano altro per la città, che fosse rimosso e consegnato al tribunale ecclesiastico Lorenzo de’ Medici, il gonfaloniere, i priori, gli  otto della balia e tutti i fautori perché fossero puniti per aver commesso ignominie contro ecclesiastici e per aver impiccato un arcivescovo (Salviati).

Il papa si guardò bene dallo smentire le voci di aver partecipato alla congiura, mentre i fiorentini  cercarono di acquietare il papa restituendo il cardinale Sansoni, ma le truppe del papa e del re nel frattempo si erano mosse e quelle del primo erano nel perugino, quelle del re avevano attraversato il Tronto.

I fiorentini non avendo disponibilità di truppe assoldarono capitani in Lombardia, e truppe di Niccolò Orsini, conte di Pitigliano,  Corrado Orsini, Rodolfo Gonzaga fratello del marchese di Mantova, e due suoi figli ed altri capitani tra i quali alcuni di signori della Romagna. Quanto ai capitani della Romagna, Sisto IV li aveva preceduti e aveva assoldati il duca di Urbino, Federico da Montefeltro, Roberto Malatesta signore di Rimini e Costanzo Sforza signore di Pesaro. L’esercito pontificio si unì quindi a quello del re di Napoli sotto il comando del figlio Alfonso duca di Calabria ed entrò il 1° luglio (1478) nel territorio della repubblica.

Lorenzo, poiché la guerra era fatta nei suoi confronti, radunò a palazzo della Signoria trecento rappresentanti della cittadinanza ai quali rivolse un discorso per convincerli ad affrontare la guerra. 

 

 

LA TIRANNIDE

DEI MEDICI

 

L

orenzo in effetti era il Signore assoluto della città che equivaleva a “tiranno” come lo riteneva Savonarola (v. Articoli: L’Europa verso la fine del medioevo, P. III) e aveva ereditato la Signoria dal nonno Cosimo (1429-1464) che si era impadronito del governo della città (1434) nel periodo in cui nelle varie città italiane dominava una sola famiglia, che senza sovvertire le costituzioni  e le leggi, fondava la tirannide sulla ricchezza.

Originariamente la scelta dei magistrati era fatta democraticamente a sorte e senza designazione degli eletti. I Medici avevano sostituito questa forma con quella oligarchica. Nominavano infatti cinque elettori o accoppiatori i quali nominavano i gonfalonieri e i priori senza consultare nessuno, con la conseguenza che tra i magistrati eletti e gli elettori non vi fosse più alcun vincolo. I Medici avevano accresciuto il potere del gonfaloniere (ministro) e diminuito quello dei priori (consiglieri) dei quali il gonfaloniere non era che il presidente: solo lui era chiamato dai Medici, senza consultare gli altri.

Essi avevano nominato una giunta di balìa, che secondo il costume era nominata solo nei casi di grave pericolo della repubblica e l’avevano resa permanente, composta da duecento membri permanenti a cui era demandato il potere legislativo, amministrativo e giudiziario, poteri che mai nessun sovrano aveva cumulati insieme. Con la conseguenza che la balìa emetteva condanne senza istruire processi nei confronti di cittadini sospetti; per i tributi stabiliva tasse arbitrarie; quanto alle leggi emetteva (come abbiamo visto sopra) leggi retroattive; assoggettava a nuove pene i cittadini che senza aver commesso nuovi delitti ne avevano già compiuti in precedenza. Insomma vigeva un regime di vera e propria tirannide.

Quanto alle entrate finanziarie Lorenzo le utilizzava senza renderne conto a chicchesia. Furono a questo modo utilizzati centomila fiorini (miliardi di oggi) per salvare dal fallimento il banco della casa che Tommaso dei Portinari teneva a Bruggia per conto di Lorenzo. Altre somme venivano ugualmente utilizzate senza far ricorso al proprio banco per soddisfare il fasto, ma anche per imprese speculative, al punto che se non si fosse utilizzato il pubblico denaro, i Medici avrebbero fatto bancarotta.

I Medici avevano un grosso partito che li sosteneva, formato da una parte da quelle antiche famiglie che con loro spartivano le cariche pubbliche e le pubbliche entrate; dall’altra da tutti quei letterati, poeti e artisti che Lorenzo e Giuliano allettavano colmandoli di onori, di doni e trattandoli da pari; e infine il partito era ingrossato dal popolo minuto allettato con feste e spettacoli.

“Il popolo”, scrive Sismondi, “non si rendeva conto che era utilizzato il suo denaro che tolto con una mano veniva elargito con l’altra e molti erano coloro che, banditi dalla città,  andavano in giro per l’Italia e la Francia”.

 

IL DISCORSO DI

LORENZO

 

L

orenzo volendo dare una parvenza di democraticità al suo potere, aveva convocato trecento cittadini ai quali si rivolse (per mera curiosità: la sua voce era fortemente nasale), dicendo loro: ”Signori e magnifici cittadini, non so se mi devo dolere di come sono andate le cose o devo rallegrarmene, e se penso con quanta frode e odio io sia stato assalito con mio fratello morto, io non me ne contristi  e con tutto il cuore e con tutta l’anima  non me ne dolga. Quando poi considero con quanta prontezza, diligenza, amore e unanime consenso mio fratello sia stato vendicato ed io difeso, conviene non solamente che me ne rallegri ma debbo con tutto me stesso esaltarmene e gloriarmene. E se l’esperienza mi ha fatto conoscere come io avevo in questa città più nemici di quelli che potessi pensarne, mi ha dimostrato di avere più caldi amici che io non credessi. Sono costretto quindi a dolermi tanto più delle ingiurie quanto sono più rare, più senza esempio e meno da noi meritate. Considerate, magnifici cittadini, dove la cattiva fortuna aveva portato la nostra casa che fra gli amici, parenti e nella Chiesa non era sicura. Sogliono quelli che dubitano della morte ricorrere agli amici per aiuti; sogliono ricorrere ai parenti, e noi li troviamo armati per la nostra distruzione. Quelli che per una ragione pubblica o privata sono perseguitati, sogliono rifugiarsi nelle chiese. Orbene, in questi casi, mentre gli altri ne sono difesi noi siamo assassinati; dove i parricidi e gli assassini sono sicuri, i Medici hanno trovato i loro assassini. Ma Iddio che mai per il passato ha abbandonato la nostra casa, ci ha ancora salvati ed ha preso le difese della nostra giusta causa. Perché, quale ingiuria abbiamo fatto per meritare tanto desiderio di vendetta? E veramente questi che si sono dimostrati nemici, non li abbiamo in nessun caso offesi, perché se li avessimo offesi non avrebbero mai avuto la possibilità di offenderci. E se essi ci attribuiscono delle pubbliche offese, se ne fosse stata fatta loro una (questo non lo so), essi offendono più voi che noi, più questo palazzo e la maestà di questo governo che la nostra casa, dimostrando che per causa nostra sono immeritatamente offesi i cittadini. La qual cosa è distante da ogni verità perché noi quando avessimo potuto, e voi quando noi avessimo voluto, non l’avremmo fatto, perché chi cercherà il vero troverà la nostra casa sempre con tanto consenso da  ciascuno esaltata se non altro per la sua umanità  e liberalità. Se noi abbiamo dunque  onorato gli estranei, come avremmo potuto offendere i  parenti? Se si sono mossi ad offenderci per desiderio di dominare come dimostra 1’occupazione del palazzo e venire con gli armati in piazza, quanto questo motivo sia brutto, ambizioso o condannabile lo si vede da solo e si condanna. Se 1’hanno fatto per odio o per invidia che avevano nei confronti della nostra autorità, essi offendono voi, non noi, in quanto l’autorità gliel’avete data voi. In verità è il potere usurpato dagli uomini che merita di essere odiato, non quello che gli uomini per liberalità, umanità e magnificenza si guadagnano. E voi sapete che mai la nostra casa è salita ad alcun grado di grandezza che da questo palazzo e dall’ unanime vostro consenso  vi fosse spinta.

Non tornò forse il mio avolo Cosimo dall’ esilio, se pur con le armi e con violenza, ma con il vostro unanime consenso? Mio padre vecchio ed infermo non riuscì a difendere lo stato contro tanti nemici, ma voi con la vostra autorie benevolenza lo difendeste. Dopo la morte di mio padre (essendo si può dire io ancora un fanciullo), come avrei potuto mantenere il grado della mia casa senza i vostri consigli e favori? La mia casa non avrebbe potuto, né potrebbe reggere questa repubblica se voi insieme con lei non l’aveste retta e non la reggeste. Non so io dunque qual causa d’odio in loro possa esservi contro di noi o qual giusta causa d’invidia. Dovrebbero portar odio ai loro antenati, che con la superbia e con l’avarizia hanno perso quella reputazione che i nostri hanno saputo guadagnare con accortezza. Ma concediamo che le ingiurie da noi fatte loro siano grandi, e che meritatamente essi desiderassero la nostra rovina: perché venire a offendere questo palazzo? Perché rompere la lunga pace d’Italia? A questo essi non hanno alcuna scusa, perché dovevano offendere chi offendeva loro, e non confondere le inimicizie private con le ingiurie pubbliche; il che fa che spenti loro, il nostro  male è più vivo, venendoci (per causa loro) il papa ed il re a trovare con le armi: guerra che affermano fare a me e alla mia casa. E Dio volesse che questo fosse vero; perché  i rimedi sarebbero subitanei e certi;io sarei così cattivo cittadino se stimassi più la mia salute che i vostri pericoli; anzi volentieri spegnerei il vostro incendio con la mia rovina. Poiché i potenti ricoprono sempre le loro ingiurie in qualche modo meno disonesto, essi  hanno adottato questo modo per ricoprire questa disonesta loro ingiuria. Nondimeno se voi dovreste credere altrimenti, io sono nelle vostre mani. Voi dovete o sostenermi o mi dovete lasciare; voi miei padri,  voi miei difensori, quanto da voi mi sarà richiesto che io faccia lo farò sempre volentieri, né mai rifiuterò (se così a voi possa sembrare) questa guerra comiciata col sangue di mio fratello, finirla con il mio”.

Mentre Lorenzo parlava, i cittadini non potevano trattenere le lacrime e con quella pietà con cui fu ascoltato, gli fu risposto che quella città riconosceva tanti meriti di lui e dei suoi, che stesse di buon animo, che  con quella prontezza con cui essi avevano vendicata la morte del fratello e conservata la sua vita, gli avrebbero  conservato la reputazione e lo stato; né avrebbero permesso che lui fosse perduto, prima di perdere la loro patria.

Detto questo, provvidero a fornirgli una scorta di armati per la salvaguardia della sua persona  e si prepararono alla guerra raccogliendo denaro e mettendo insieme armi e soldati.

E poiché il Papa s’era dimostrato lupo e non pastore, scrive Machiavelli “per non essere come colpevoli divorati, con tutti quei modi che potevano, la causa loro giustificavano e riempirono tutta l’Italia del tradimento fatto contro il loro stato, mostrando la empietà e l’ingiustizia del pontefice e come male esercitava quel  pontificato che egli aveva male occupato, poi ch’egli aveva mandati quelli che alle prime prelature aveva tratti (vale a dire: aveva mandato prelati appena nominati, riferendosi al cardinale Sansoni nda.), in compagnia di traditori o parricidi a commettere tanto tradimento nel tempio, nel mezzo del divino uffizio, nella celebrazione del sacramento e dipoi  (perché non gli era successo ammazzare i cittadini, mutare lo stato della loro città, o a suo modo saccheggiarlo) la interdiceva, e con le pontificali maledizioni la minacciava ed offendeva”. “Ma se  Dio era giusto”, prosegue Machiavelli “se a Lui le vio1enze dispiacevano  gli dovevano dispiacere anche quelle di questo suo vicario, ed essere  contento che gli uomini offesi  non trovando ascolto presso a quello  luogo (presso il papa, nda), ricorressero a Lui”.

Pertanto, i fiorentini pur ricevendo l’interdetto, ad esso non ubbidirono ma convinsero i loro sacerdoti a celebrare l’ufficio divino e indissero un concilio a Firenze di tutti i prelati toscani che all’impero ubbidivano, e si appellarono per le ingiurie del pontefice, al futuro concilio. Non mancò il papa far conoscere le sue ragioni rappresentando che rientra tra i compiti del pontefice quello di “spegnere le tirannidi, opprimere i cattivi, esaltare i buoni”, che era ciò che aveva fatto; “mentre non rientrava  nell’uffizio tra i compiti di un principe secolare, detenere cardinali, impiccare vescovi, ammazzare, smembrare e trascinare i sacerdoti e gli innocenti e i nocenti senza alcuna differenza”.

Nondimeno i fiorentini tra denunzie e accuse provvidero a restituire il cardinale prigioniero, ma il papa, senza rispetto del gesto di disponibilità dei fiorentini con il suo esercito e con quello del re, li assalì.

I due eserciti (uno sotto il comando di Alfonso di Calabria, l’altro di Federico da Urbino) giunsero nel Chianti per la strada dei senesi loro nemici, occupando Radda e predando molti castelli. I fiorentini distribuirono le proprie truppe ai confini del senese e del ducato di Urbino e stabilirono un accampamento a Poggio Imperiale.

In questo campo si erano radunate le schiere con i diversi comandanti che litigavano tra di loro non essendo stato nominato un capo. Per rimettere disciplina, i fiorentini diedero il comando al duca di Ferrara, Ercole d’Este, sebbene vi fossero opposizioni in quanto Ercole aveva sposato una figlia di Ferdinando, Eleonora sorella di Alfonso, e gli oppositori sostenevano che avrebbe per questo motivo combattuto con poco vigore contro il cognato duca di Calabria, che nel frattempo  aveva espugnato i castelli di Rencina, Castellina e Radda. Poi furono perduti Mortaio ed erano stati assediati i castelli di Broglio e Gacchiano, quando giunse a Firenze il duca di Ferrara che qualche giorno dopo si recò a visitare il campo, ma nel frattempo il castello di Broglio si arrese, e contrariamente ai patti, la terra fu saccheggiata ed arsa come era stato fatto per Radda.

I fiorentini nominando comandante il duca di Ferrara, si accorsero di aver fatto una pessima scelta perché Ercole d’Este appariva privo d’ingegno guerriero o di risolutezza, se non fosse stato addirittura segretamente d’accordo con suo cognato il duca di Calabria.

Si era anche dovuto attendere il responso degli astrologi secondo i quali il comando al duca di Ferrara doveva esser dato il 27 di settembre (ma il nemico non aspettava!) alle quattro del pomeriggio, per cui Ercole nell’attesa si vide prendere sotto gli occhi Gacchiano e vide porre l’assedio a Monte san Savino in Val di Chiana, una delle più importanti fortezze di confine. Quando  Ercole ricevette il bastone di comando... non si mosse lo stesso!

 

 

RIPERCUSSIONI DELLA CONGIURA

TRAME DI CONQUISTE

E VENDETTA DI LORENZO

 

L

a guerra scatenata dal papa aveva messo a soqquadro per circa due anni tutta la Toscana battuta in lungo e in largo dagli eserciti della Lega papale, con Roberto di Sanseverino da una parte e Alfonso di Calabria (v. in Articoli: La congiura dei baroni ecc.) dall’altra, che occupavano città e piazzeforti, mettendo sottosopra il territorio di Pisa e Arezzo, la Val d’Elsa e Val di Nievole, Val d’Arno e la Lunigiana. La situazione a Firenze era critica perché il traffico commerciale languiva, il papa nei territori conquistati faceva confische e la cittadinanza era stanca tanto che durante un Consiglio, Gilberto Morelli, amico di Lorenzo gli aveva chiaramente  detto:- “La città è stanca e non vuole più la guerra ed essere interdetta e scomunicata per difendere la vostra possanza”.

Inaspettatamente giunse (1481) da parte del duca di Urbino e del duca di Calabria una proposta di pace. L’idea era partita da Milano dove Ludovico il Moro che voleva tenersi amica Firenze (non certamente per spirito di amicizia non proprio spassionata!) solo per imbastire trame, e l’amicizia con Firenze gli serviva per poterla allontanare da Venezia (eterna nemica, perché confinante, con mire di conquiste territoriali a scapito del ducato), e per allontanare il re di Napoli dal papa.

Ma anche Ferdinando aveva in mente altri calcoli: egli era padrone del sud Italia e pensava di allargare i confini verso il nord. Infatti il duca di Calabria stava cercando di conquistare Siena dove si trovava un poderoso partito che lo sosteneva e stava intessendo trame per impadronirsi della signorìa senese; egli inoltre era potente a Milano e a Genova (dove aveva fatto scoppiare una rivolta contro Milano, v. paragrafo seguente) che poteva considerare dalla sua parte; per di più non voleva condividere con il papa eventuali conquiste territoriali e quindi non gli conveniva continuare la guerra a fianco del papa. Gli conveniva invece lasciare a Firenze un governo che si andava sempre più indebolendo per l’odio di una numerosa fazione contraria a Lorenzo e nel frattempo conquistare una base solida in Toscana per poi tentare altre conquiste;... e per finire...  aspettava la morte del papa!

Lorenzo dal suo canto, pensava di incrinare la potente Lega che gli si opponeva, e per farlo aveva preso in considerazione di far rivivere il vecchio partito dei sostenitori degli Angiò per metterlo contro Ferdinando. Per far questo pensò al vecchio Ranieri di Lorena per il quale tutte le occasioni erano buone per impossessarsi dell’agognato regno di Napoli. 

Giunse improvvisamente a Firenze un messaggero per annunciare una tregua chiesta  dal re e dal papa per trattare la pace, con le condizioni dettate dal papa, il quale pieno di livore contro Lorenzo per non essersi potuto vendicare della morte degli amici del figlio Girolamo, degli scandalosi processi che avevano denunciato all’Europa le sue trame, e del terrore che il partito dei Medici aveva causato al nipote cardinale (Sansoni), poneva le seguenti condizioni: 1. Lorenzo e i fiorentini dovevano costruire una chiesa e fondare lasciti per messe per le anime di quelli che erano morti nella congiura; 2. La repubblica di Firenze doveva chiedere in maniera solenne il perdono alla Chiesa per aver attentato alla vita di persone sacre; 3. Che fossero restituite alla Santa Sede le città di Borgo San Sepolcro, Modigliana e Castrocaro (regolarmente acquistate da Firenze prima della guerra).

Per risolvere questi problemi, Lorenzo decise di andare direttamente nella tana del lupo e recarsi a Napoli. Il gesto era clamoroso e temerario: significava andarsi a mettere nelle mani del nemico, tanto più che non era lontana la uccisione di Jacopo Piccinino (1423-1465) che proprio presso la corte di Napoli era stato ucciso a tradimento. Lorenzo però aveva fatto bene i suoi calcoli  e se non ci rimetteva la vita, ne avrebbe acquistato in prestigio.

Imbarcatosi a Livorno su una nave mandatagli dal re di Napoli sulla quale fu ricevuto con tutti gli onori, giunse a Napoli a dicembre (1479) dove gli fu riservata un’accoglienza trionfale  (l’avvenimento è da ricordare nei fasti rinascimentali).

Allo sbarco fu accolto dal secondogenito Federico (v. in Articoli: La congiura dei baroni ecc.). e dal nipote Ferdinando; fu ospite del re, che in un primo momento sottovalutando Lorenzo finse di ritenersi onorato della visita. Tra feste e pranzi i due ebbero numerosi colloqui nei quali esaminarono la situazione italiana.

Lorenzo rivelò al re gli accordi che erano stati presi con Ranieri di Lorena, rivelò anche le trame di Luigi XI di Francia che mentre appoggiava i diritti dei Lorena per riprendere il regno di Napoli, pensava anche di prendere quel regno per sé.

Insomma Lorenzo fu trattenuto a lungo da Ferdinando presso la sua corte (non senza un recondito fine: quello di vedere se la lontananza di Lorenzo da Firenze non provocasse qualche rivolta!).

Dai lunghi colloqui Lorenzo aveva acquistato prima l’ammirazione e poi la fiducia di Ferdinando, convinto da Lorenzo che sarebbe stata meglio una fedele alleanza che una infruttuosa guerra. Era interesse di ambedue mantenere la pace in Italia, in modo da chiudere l’ingresso ai turchi per mezzo dei veneziani, non senza vigilare su costoro, che cessata la guerra con i turchi non potessero danneggiare i vicini. Di chiudere l’ingresso ai francesi per mezzo del duca di Milano, e quindi far consolidare il ducato che a causa degli ultimi avvenimenti ne era stato fortemente indebolito. Infine, tenere a bada il turbolento papa che per procurare al figlio Girolamo un principato aveva messo sottosopra tutta l’Italia.

Ferdinando quindi si convinse a firmare la pace (6 marzo 1480): tra i patti vi era quello di liberare i de’ Pazzi imprigionati a Volterra sebbene non avessero preso parte alla congiura; che i fiorentini pagassero al figlio Alfonso sessantamila fiorini l’anno; il re promise di restituire città e fortezze prese durante la guerra. Il papa che aveva frapposto ostacoli alla firma del trattato, si mostrò indispettito per non essere stato consultato (come anche i veneziani); alla fine cedette, e accettò il trattato che fu pubblicato a Siena  (25 marzo successivo).

Lorenzo nella lunga permanenza a Napoli si era comportato con magnificenza e munificenza (dando la dote a molte ragazze di Napoli, della Puglia e della Calabria), facendo acquisti con cifre da capogiro e mostrando tutta la pompa che nel Rinascimento aveva raggiunto un’abbagliante sfrontatezza. Per questo era stato chiamato “Magnifico”, ma erano stati i posteri a dargli questo soprannome aggiunto al nome, mentre ai suoi tempi l’appellativo era usato come titolo, cioè, Magnifico viro, Magnificenza vostra, Magnifico Lorenzo.

La pace firmata da Lorenzo accrebbe la sua fama e Lorenzo  fu accolto nella sua città come salvatore della patria.

 

LA RIVOLTA DI GENOVA

E LA GUERRA DEGLI SVIZZERI

1478

 

T

utte le speranze di Firenze erano riposte in Milano e Venezia. Venezia assecondava quelle speranze in quanto riteneva innanzitutto che la guerra era fatta a Lorenzo non alla Repubblica, poi perché era impegnata in una guerra disastrosa con i turchi. Era quindi la sola reggenza di Milano ad assecondare i fiorentini.

Il re Ferdinando per privare Firenze dell’appoggio di Milano, pensò di far insorgere Genova governata in nome del duca di Milano, perché acquistasse l’antica indipendenza. Mandò quindi a Genova due galee con somme di denaro.

La duchessa Bona, informata, pensò di correre ai ripari mandando a Genova il vescovo di Como incaricato di prendere le redini del governo. Il vescovo recatosi a Genova riunì il senato e mostrò le lettere con le quali veniva deposto il reggente Prospero Adorno, mentre lui fu nominato governatore.

Il vescovo però non ebbe l’accortezza di rendere pubblica la sua nomina e di prendere con sé soldati che potessero appoggiarlo. Di questa incertezza ne approfittò Adorno il quale raccolti i suoi fidi e coloro che avevano a cuore l’indipendenza della città e fatti eleggere sei capitani del popolo, cambiò il suo titolo da governatore in doge dichiarando l’indipendenza di Genova.

Adorno invitò Roberto Sanseverino che si trovava ad Asti a correre in aiuto di Genova ed anche Luigi Fregoso (già per due volte doge di Genova), che aveva con sé navi e soldati. A Milano si radunò un esercito affidato al comando di Sforzino, un figlio naturale di Francesco Sforza che non aveva le doti del padre, comunque era affiancato da due consiglieri, Pietro Francesco Visconti e Pietro del Verme.

Lo scontro avvenne il 7 agosto 1478 con un attacco di Sforzino il quale avendo subito forti perdite dovette ritirarsi. Infatti il suo esercito si era inoltrato in una valle angusta da dove avrebbero potuto uscire da vincitori o massacrati. Questa idea creò nei soldati panico e disordine in quanto ciascuno voleva arrivare in luogo aperto. A questo punto le forze genovesi si avventarono su di loro massacrandone una parte e facendone prigionieri altri. Senza riguardi per costoro li spogliarono non solo delle armi ma anche degli abiti, lasciandoli andare nudi e così essi arrivarono in Lombardia coperti solo di ramoscelli.

La reggenza milanese, persa Genova, cercò di riconquistarla con una sommossa, affidandosi a Obietto Fieschi che partecipava per Prospero Adorno, il quale, ricevuti seimila fiorini e altrettanti dal luogotenente del re di Napoli, cambiò idea e si imbarcò salpando per Napoli (26 Novembre).

Pochi giorni dopo Battista Fregoso, che aveva preso tutte le fortezze di Genova, fu eletto doge. Lo Sforzino aveva avuto ordine, dopo aver sottomessi i ribelli genovesi, di recarsi in Toscana, ma essendo stato sconfitto non potette raggiungerla, con delusione di Lorenzo il quale si trovò ad affrontare un’altra difficoltà.

I mercanti fiorentini avevano a Genova un grosso emporio dove si stavano recando quattro galere cariche di merce del valore di trecentomila fiorini. Se le navi fossero state prese, sarebbero state confiscate con tutta la merce: Lorenzo pur sapendo che avrebbe dato un dispiacere alla duchessa…mandò un’ambasceria al nuovo doge per congratularsi della nomina!

La conseguenza per i fiorentini fu che con il voltafaccia di Lorenzo potevano rivolgersi solo ai veneziani. Ma costoro erano in difficoltà perché vi era stata una invasione di locuste e a Venezia era scoppiata la peste, attribuita alle locuste che avevano invaso Mantova e Brescia. Il morbo si propagò in Toscana dove fece strage nei due eserciti. A Venezia tutti i nobili se ne fuggirono in campagna sicché Venezia non potette dare alcun aiuto, ma mandò un’ ambasceria a Roma per dire al papa che la guerra che aveva scatenato costituiva un pericolo per la cristianità che andava tutto a beneficio dei turchi, i quali continuavano con le loro incursioni.

Si riteneva che per la spregiudicatezza del papa, fosse lo stesso Sisto IV ad assecondare i progetti di Maometto II (ricordiamo che nel 1478 i turchi erano arrivati a fare scorrerie in Friuli); tra l’altro il re Ferdinando aveva sottoscritto un trattato di pace con i turchi.

L’anno dopo (1479) Venezia dovette sottoscrivere un gravoso trattato con il sultano, con la cessione di Scutari e del suo territorio e con restituzione reciproca di tutti i territori conquistati in Morea, Albania e Dalmazia, oltre al pagamento di centomila ducati al sultano per l’appalto delle cave di allume a Costantinopoli (cifra che non ripagava il prodotto) oltre a diecimila ducati l’anno a titolo di tributo.

Il papa, sempre in fermento, era adirato con i veneziani e non potendosela prendere con loro, pensò di turbare lo stato di Milano sobillando (era la prima volta) i pacifici svizzeri che con i milanesi avevano un trattato di amicizia. Egli pensò che facendo invadere il ducato dagli svizzeri si sarebbero stornati i soccorsi diretti a Lorenzo dè Medici.

I Cantoni svizzeri avevano accordi con Milano fin dal 1467, rinnovati nel 1477. Nel  1478 alcuni milanesi avevano tagliato un bosco su cui gli svizzeri vantavano un diritto di proprietà.

Tra le due parti si stava procedendo a un arbitrato quando intervenne il papa che aveva mandato lo stendardo benedetto di san Pietro, esortandoli a ricordarsi che era loro dovere dare la vita per la libertà della Chiesa. Il legato, vescovo di Anagni, fece radunare una dieta proponendo che fosse portato aiuto ai nobili milanesi per deporre Gian Galeazzo Sforza, giovane, inetto e non idoneo a governare, in cambio offriva tutti i tesori di Pavia e Milano, oltre a diecimila ducati l’anno.

La dieta si sciolse senza aver preso alcuna decisione. Ma il vescovo di Anagni era riuscito a suscitare nel Cantone di Uri un forte astio per il taglio del bosco,  e Uri  dichiarò guerra al ducato di Milano. Uri chiese l’intervento dei cantoni di Zurigo e Berna che  a malavoglia mandarono i loro contingenti. Nel mese di novembre dello stesso anno diecimila confederati valicarono il san Gottardo già coperto di neve e saccheggiando Iragna e Bellinzona, giunsero alle porte di Lugano.

A questo punto, poiché l’inverno incalzava e la neve diventava troppo alta, gli svizzeri decisero di rientrare lasciando un contingente di duecento uomini. Il conte Marsilio Torelli pensò di distruggere facilmente questa guarnigione e di impadronirsi della fortezza di Giornico che sarebbe diventata la chiave di passaggio del san Gottardo.

Il capo degli svizzeri Enrico Troger ebbe l’idea  di sviare le acque del Ticino facendo allagare la valle che col freddo divenne una lastra di ghiaccio. Gli svizzeri avevano gli scarponi chiodati e attesero l’arrivo della cavalleria  milanese che incautamente si avventurò sulla lastra di ghiaccio come se fosse un prato. I cavalli incominciarono a scivolare e cadendo ostruivano il passaggio agli altri. Alla fine furono uccisi millecinquecento soldati milanesi, altri furono fatti prigionieri.

Cecco Simonetta intavolò trattative e raggiunse un accordo con gli svizzeri: il bosco della lite fu ceduto agli svizzeri con alcune migliaia di fiorini.

Il papa Sisto IV non si dava pace e questa volta spinse contro Milano ancora i genovesi. Indusse Roberto Sanseverino, Luigi Fregoso e Obietto de’ Fieschi ad entrare in Lunigiana e mentre costoro occupavano i castelli di Malaspina e Sarzana, gli zii di Gian Galeazzo, fratelli di Ludovico il Moro, lasciato l’esilio dove li aveva  rintanati Ludovico, andarono a far scorrerie in Toscana e poi si unirono con il Sanseverino.

A questo punto Ludovico, succeduto al fratello di nome Sforza, duca di Bari (si suppone morto avvelenato dai fratelli nel 1479), andò a riprendere Tortona e al ritorno, trionfante, si impadronì del ducato (v. Articoli: L’Europa verso la fine del medioevo Parte IV ,Capitolo: Il ducato di Milano).

Nel frattempo Sisto IV dopo aver saputo della pace di Bagnolo (v. Articoli: La congiura dei baroni cit.), faceva una morte degna di com’era vissuto: moriva di rabbia per la pace firmata alle sue spalle. Era a letto con un braccio fasciato per la gotta e dopo aver sciolto la fasciatura, a quelli che chiedevano la benedizione fece un gesto che alcuni considerarono una benedizione, altri una ripulsa; da quel momento non aprì più bocca e morì nella notte successiva (1484).

Alla sua morte veniva eletto il nuovo papa Gian Battista Cibo col nome di  Innocenzo VIII (1484-1492), e Girolamo Riario che era depositario di Castel Santangelo lasciò la fortezza, ceduta dalla moglie Caterina Sforza  ai cardinali, e si ritirava nei suoi due feudi di Forlì ed Imola dove il suo capitano delle guardie Cecco dell’Orso, con due ufficiali Luigi Panzero e Giacomo Ronco congiurarono di ucciderlo.

Il motivo, poco plausibile, era quello che non avevano ricevuto la loro paga mentre dovevano far fronte ai pagamenti da essi dovuti. La voce che si diffuse era stata quella della congiura ordita da Lorenzo de’ Medici e Giovanni Bentivoglio per dare quelle terre a Frenceschetto Cibo figlio del nuovo papa e genero di Lorenzo (v. in Articoli: L’Europa verso la fine del medioevo cit. Parte IV Cap.: Il ducato di Milano).

Sta di fatto che il 14 aprile 1488 Girolamo era nel suo palazzo di Forlì, nella sua camera, i tre ufficiali entrarono per parlargli e trovatolo solo lo pugnalarono buttando il cadavere nudo dalla finestra. Chiamato il popolo a vendicarsi del tiranno, il cadavere fu trascinato per i capelli per le strade della città. Il popolo  recatosi  alla rocca invitò il comandante ad aprirla, ma il comandante disse che lo avrebbe fatto solo su richiesta di Caterina Sforza. Costei disse che voleva parlare personalmente col comandante, e il popolo, trattenendo i figli in ostaggio, le permise di recarsi alla rocca.  Ma appena entrata Caterina ordinò di aprire il fuoco contro gli assedianti che minacciavano di uccidere i figli: lei rispose che ne aveva ancora uno in grembo e un altro a Imola che sarebbero cresciuti e l’avrebbero vendicata; al che il popolo rinunciò a mandare a segno la minaccia.

Gli uccisori chiesero aiuto al papa, ma nel frattempo Ludovico il Moro aveva raccolto un esercito già preparato con Giovanni Bentivoglio e pronto ai confini della Romagna che mandò in aiuto alla nipote. L’esercito entrato in Forlì fece prigionieri i rivoltosi. I figli di Girolamo, che erano stati mandati a Cesena, furono scambiati col governatore di quella città.

Caterina ebbe il governo di Forlì ed era divenuta amante di Giovanni de’ Medici (discendente da un fratello di Cosimo) che le era stato inviato come ambasciatore;  successivamente sposati, ebbero un figlio che diventerà famoso come capitano di ventura: Giovanni de’ Medici, detto Dalle Bande Nere.

 

 

FINE

 

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