Stemma del duca di Calabria

 

 

LA CONGIURA DEI BARONI

 NEL REGNO DI NAPOLI

1485

 

MICHELE E. PUGLIA

 

 LA STORIA INSEGNA

 

La storia di questa congiura è emblematica di come si conducevano nel passato le cose in Italia.

 I lettori potranno rendersi conto dei comportamenti dei personaggi dell’epoca: papi, sovrani,  principi,

baroni da una parte, e del popolo che parteggiava indifferentemente  ora per una parte ora per un’altra,

e tutti indistintamente facevano prevalere l’opportunismo del momento.

La congiura, nel modo in cui era stata condotta  e in tutti i suoi risvolti, con le incertezze, le indecisioni, i temporeggiamenti,  le superficialità e l’improvvisazione,  le riserve mentali, il voler avere contemporaneamente l’una  cosa e l’altra, o peggio, il voler stare contemporaneamente dall’ una e dall’altra parte con accordi palesi con una parte, segreti con l’altra, come si potrà aver modo di constatare può essere considerata una congiura all’italiana.

In questo contesto spicca la risposta di don Federigo ai baroni: una lezione di alta dignità e lealtà 

 che (adeguata alla realtà attuale) sarebbe valida anche ai nostri giorni

 e sarebbe solo un’utopia aspettarsi da qualche personaggio della società civile o politica italiana.  

Dopo oltre cinquecento anni, “mutatis mutandis”, ritroviamo nel nostro paese,  esattamente

quei comportamenti, quelle ambiguità e ipocrisie e quei compromessi nella  vita politica … e non solo!

 E di questo non possiamo essere né fieri né orgogliosi!

(in Schede, v.: Gli italiani secondo Prezzolini ecc.; mentre il contesto storico generale

si trova in Articoli: L’Europa verso la fine del medioevo P. IV).

 

 

SOMMARIO: I PRESUPPOSTI; I BARONI IN FERMENTO; GLI ACCORDI COL PAPA; DON FEDERIGO A SALERNO: L’OSPITALITA’ DIVENTA PRIGIONIA; LA REAZIONE DEL RE; LA FUGA DI DON FEDERIGO; MOVIMENTI DI TRUPPE: IL SOTTILE INGANNO E LA CARNEFICINA; CONSIDERAZIONI FINALI.

 

I PRESUPPOSTI

 

N

ei secoli passati il papato in Italia oltre ad aver impedito l’unificazione, aveva avuto effetti destabilizzanti sulla situazione generale del paese a causa delle continue interferenze negli affari dei singoli stati e delle guerre che aveva sobillato, suscitato o generato tra di loro.

Una di queste guerre era stata la “guerra di Ferrara”, combattuta  da una Lega che si era formata (1484) tra il duca di Ferrara Ercole d’Este, il re di Napoli Ferdinando d’Aragona, il duca di Milano Ludovico il Moro e Girolamo Riario, nipote del papa Sisto IV e signore di Forlì e Imola, contro la Repubblica di Venezia.

La Lega si era formata a seguito dell’interdetto (1483) contro Venezia del papa Sisto IV (1471-84), il cui fine era quello non solo di difendere il Polesine che apparteneva al ducato di Ferrara ed era minacciato dai veneziani, ma di bloccare i progressi di Venezia nell’acquisto di altri territori in terraferma.

La pace di Bagnolo (1484) aveva segnato la fine della guerra, e i veneziani l’avevano ottenuta tacitando Ludovico il Moro con una ingente somma di danaro; restituendo a Ferdinando di Napoli, Gallipoli e altre piazzeforti del litorale pugliese e ricevendo la cessione, da parte del duca di Ferrara Ercole d’Este, del Polesine e di Rovigo.

Questa pace fu  fatta alle spalle di Sisto IV che mirava a ben altre soluzioni: il papa ne rimase sdegnato e non potendo dare a vedere di essere favorevole alla guerra, si limitò a criticare il trattato.

Dopo questa pace Ferdinando d’Aragona (Ferrante:1431-1494) veniva fuori da sei anni di guerre che avevano dissanguato le casse del regno; tra l’altro il re stentava a ridurre all’obbedienza i baroni  sempre in fermento, che in quelle guerre non lo avevano aiutato.

Egli, già da alcuni anni prima (1480), aveva affidato le cure del regno  al figlio  Alfonso, duca di Calabria e principe ereditario, al quale perdonava tutte le bravate, malefatte e atti di violenza che questo andava compiendo.

Alfonso tra l’altro aveva  provocato la rottura dei rapporti col nuovo papa Innocenzo VIII, al quale aveva rifiutato il pagamento del tributo annuo pagato dal regno alla santa sede.

Dopo la morte di Sisto IV (Francesco della Rovere, 1471-84), era stato eletto papa Giovan Battista Cibo, col nome di Innocenzo VIII (1984-1492) il quale detestava il re e il duca sia perché era sostenitore degli angioini, sia per la loro crudeltà e per la mancanza di rispetto che essi mostravano nei confronti della Chiesa e sia anche perché Ferdinando non pagava il tributo dovuto alla Chiesa.

Si trattava del tributo feudale  pagato al papa dall’epoca delle investiture dei  normanni, che lo avevano riconosciuto signore feudale del regno e sovrano di Napoli, e  i sovrani che si erano succeduti avevano continuato a riconoscere questo tributo che ascendeva a quarantamila ducati e all’omaggio di un palafreno bianco. Ferdinando per accordi intervenuti con Sisto IV, era stato dispensato  dal pagamento vita natural durante (v. Articoli: “L’Europa verso la fine del medioevo” Il regno di Napoli, P. IV).

Questi però erano solo i motivi palesi del risentimento del nuovo papa. Quelli più reconditi erano invece dovuti al fatto che Innocenzo VIII aveva diversi figli, due dei quali, Francesco detto Franceschetto e Teodorina, erano stati riconosciuti come figli, gli altri invece riconosciuti come nipoti.

Egli amava Franceschetto di amore sviscerato e voleva elevarlo al rango di principe, e non vedendo altra possibilità in altra parte d’Italia, mirava a togliere il regno a Ferdinando per offrirlo a chi per gratitudine arricchisse il figlio con onori e signorie.

In occasione di questi avvenimenti  il papa aveva offerto il regno di Napoli a Renato II duca di Lorena (1451-1508), della dinastia d’Angiò per via materna (era figlio di Federico di Lorena e di Jolanda d’Angiò) e discendeva quindi da Renato II (il Bon roi René) che vantava diritti sul regno di Napoli rivenienti dalla regina Giovanna II d’Angiò (v. Articoli: cit. L’Europa verso la fine ecc. P. IV).

Alfonso per il suo carattere e per il modo arrogante in cui si comportava era odiato dai baroni e tra costoro serpeggiava aria di rivolta. Dopo le guerre alle quali aveva partecipato,  aveva manifestato l’intenzione di mettere in esecuzione ciò che il padre non faceva: spogliare delle loro ricchezze i baroni che in quelle guerre non gli avevano dato nessun aiuto.

Proprio in quel periodo Ferdinando, per avidità di territori aveva fatto catturare i figli del duca di Ascoli e del conte di Montorio: questa cattura era servita  ad accelerare i tempi della congiura.

Alfonso (1448-1495),  duca di Calabria, si interessava degli affari di governo ed essendo giovane e di natura crudele, era incline alle armi oltre ad essere uno sfrenato libertino. Se il Rinascimento aveva dato all’Italia un “principe” come Cesare Borgia (1475-1507), Alfonso lo aveva preceduto solo di pochi anni. Egli era anche ambizioso, avido di territori e non mostrava altro interesse che accendere guerre nelle diverse parti d’Italia. Per questo manteneva una moltitudine di soldati e in mare aveva una non piccola flotta.

Tutto ciò era motivo di odio da parte dei sudditi e degli altri principi che aspettavano che fosse ridotto all’impotenza per non nuocere più a nessuno.

Tra costoro oltre ai baroni vi erano anche i fiorentini che con lui avevano subito due anni di guerra, avendo egli occupato territori di Siena, di cui si riteneva volesse impadronirsi.

I fiorentini non sapendo a chi rivolgersi in Italia, si rivolsero agli eterni nemici  dei cristiani, i turchi, convincendo Maometto II il Conquistatore (1432-1481) ad espugnare Otranto, invito che Maometto non si fece ripetere e immediatamente andò a conquistare la città.

L’impresa di Otranto costrinse il duca a lasciare le terre occupate in Toscana e volgersi alla difesa di Otranto.

L’occupazione di Otranto da parte dei turchi (1480-81), che fecero migliaia di vittime riducendo in schiavitù donne e fanciulli, per Ferdinando e per Alfonso fu molto dispendiosa, tanto che essi, per mancanza di mezzi avevano pensato di abbandonare l’assedio posto alla città occupata per mare e per terra.

Erano sul punto di togliere l’assedio,  quando a causa della morte di Maometto II e dei problemi della successione che si profilavano da parte dei suoi figli, i turchi decisero di ritirarsi, e da parte degli occupati così liberati... si gridò al miracolo!

Alfonso pratico delle cose di guerra si era reso conto della impossibilità di fronteggiare i turchi per mancanza di mezzi, non avendo un esercito adeguato. Di questo ne rimproverava il padre che per la sua troppa bontà e disinteresse nel governo si era lasciato ingannare dai ministri che si erano arricchiti a sue spese: egli riteneva che ad essi bisognasse toglier tutto ciò che avevano rubato e dar loro una giusta punizione.

Alfonso aveva maturato questa idea già dal momento della pace di Bagnolo, ed ora dopo l’avventura con i turchi ne era ancora più convinto e determinato.

 

I BARONI IN FERMENTO

 

I

 baroni preoccupati delle intenzioni del duca ebbero modo di riunirsi a Melfi (1) dal duca Giovanni Caracciolo, in occasione delle nozze del figlio Traiano con la figlia del conte di Capaccio Sanseverino,  in cui, valutando le loro forze e quelle del duca di Calabria, discussero i tempi e modi della rivolta.

Tra gli altri, il Gran Siniscalco Pirro del Balzo, ebbe la possibilità di parlare delle intenzioni del duca che mirava ad impossessarsi di tutta l’Italia, dicendo che il duca non dilettandosi d’altro che di guerra, avrebbe finito per toglier loro anche gli alimenti ai quali facevano fronte con fatica, se non farli finire esiliati o prigionieri o morire sotto altri sovrani.

Rincalzato dal marchese del Vasto Piero Guevara, aggiungeva che gli pareva assurdo  che essi volessero tenere Alfonso come re non potendo sopportarlo come duca, né per questo potevano essere tacciati di ribellione se impugnavano le armi per difendersi, specialmente se essi avessero avuto il consenso del papa, supremo principe dei cristiani e diretto padrone del regno.

Tutti i baroni diedero il loro assenso e tra le altre cose, riferendosi alla situazione generale dell’Italia, convennero che tutti gli stati italiani erano stanchi per la guerra di Ferrara appena cessata, e che il papa Innocenzo VIII aveva trovato la Chiesa povera e non avrebbe potuto dar loro alcun aiuto, né potevano far molto affidamento nel Segretario del re, Antonello Petrucci e nel conte di Sarno, Francesco Coppola, essendo essi più vicini al re con il quale si erano arricchiti, piuttosto che essere obbligati con loro.

Convennero quindi di mandare a Napoli il principe di Bisignano, Girolamo Sanseverino, per cercare di sapere da Petrucci e suoi figli, Francesco conte di Carinola e Giovannantonio conte di Policastro, dal conte di Sarno e da altri intimi del re, quali fossero le intenzioni del re e del duca e quali sarebbero state le reazioni  se essi avessero fatto ricorso alle armi.

Il principe di Bisignano, giunto a Napoli, per avere l’occasione di incontrare più persone senza destare sospetti, ebbe l’idea di fingersi malato per dar modo a tutti di fargli visita.  Ricevendo il conte di Sarno  si rese conto che la situazione era disperata e non intravide altra possibilità se non quella di ricorrere alla forza.

Il principe però non riusciva a far parlare il conte di Sarno, e un giorno, rammaricandosi con lui del duca, gli chiese cosa ne pensasse, e il conte stringendo le spalle mostrò di aver timore di parlare.       

Dopo questi incontri il principe di Bisignano si recò a Diano dove incontrò il principe di Salerno, il conte di Tursi, il conte Barnaba di Lauria e la contessa Giovanna Sanseverino che, ancora bella e fresca negli anni,  sostituiva negli affari di famiglia il defunto marito, e il principe riferì loro quanto aveva sentito a Napoli. Tutti concordarono di riunirsi per prendere una decisione.

Nel frattempo il conte di Sarno convocò il principe di Salerno di notte in un posto solitario e gli disse che avrebbe chiesto licenza al re per poterlo andare a trovare liberamente e poter parlare con più agio.

Il conte si recò quindi dal re e portata la conversazione sul principe provocò la sua reazione e il re si dolse della ingratitudine del principe, senza averne motivo. Il conte ne profittò per dirgli che avrebbe potuto scoprire il motivo, recandosi a visitarlo a Salerno.

Il re ad evitare sospetti da parte dei baroni, che potevano creare turbamenti nel regno, gli diede il suo assenso. Il conte quindi si recò a Salerno festosamente accolto dal principe, e dopo aver parlato dell’avarizia del duca che li aveva condotti a quel punto, concordarono di mandare dal papa Bentivoglio Bentivogli per esporre le loro ragioni per la conquista del regno e chiedergli di consentire di radunare un’armata sul territorio romano per poter occupare le isole di Ischia, Procida e Capri e chiudere così Napoli dalla parte del mare.

Essi convennero poi di mettere a disposizione dei baroni centomila ducati da restituire a guerra finita. Concordarono anche di rinforzare le difese dei due feudi  di Sarno e Carinola, assediare Napoli e occupare Terra di Lavoro per impedire che il re potesse ricevere aiuti dalle altre parti del regno.

Sconfitto il re, al conte di Sarno sarebbe stato assegnato il contado di Nola, Ischia  con Lumiera e Castellammare  e sarebbe stato concluso il matrimonio con la nipote del principe di Bisignano (figlia del figlio), con una dote di trentamila ducati, mentre il Segretario avrebbe procurato di far sposare al figlio, conte di Policastro, la figlia del conte di Lauria.

Per i baroni sarebbe stato agevole impedire che il re potesse ricevere aiuti da altre parti del regno in quanto il feudo di Carinola bloccava le strade degli Abruzzi trovandosi in posizione strategica tra il Garigliano e il Volturno. Acerra con Sarno (che aveva preso il nome dal fiume), bloccavano i passaggi provenienti dalla Puglia, e infine sarebbero state bloccate le strade della Calabria e Basilicata.

Apertamente coinvolto nella congiura, il conte di Carinola era preoccupato da quanto riferitogli dal principe di Teramo e marchese di Bitonto, Andrea Matteo Acquaviva circa le intenzioni del duca, che intendeva sopprimere lui e i più importanti baroni del regno. Egli si era inimicato  il re perché gli aveva rifiutato di deviare un corso d’acqua dei suoi possedimenti che interessava molto a Ferdinando, e il rifiuto era stato come se avesse negato al re il permesso di cacciare sul suo territorio.

Il Carinola inoltre aveva mostrato di non essere degno figlio del padre, Segretario del re che personalmente lo detestava. Egli poi del re e del duca parlava male apertamente  e oltre i limiti, tanto che il padre se ne rammaricava e se ne lamentava con gli amici e  spesso aveva cercato di riprendere il figlio, ma inutilmente.

Dopo gli accordi dei baroni il conte di Sarno partì da Salerno e si recò dal re al quale raccontò che il principe era crucciato per essergli stato malignamente riferito che egli era maldisposto nei suoi confronti, ma lui aveva cercato di rabbonirlo ed era convinto che tornando nuovamente dal principe sarebbe stato in grado di condurlo ai suoi piedi.

Ferdinando eccelleva nell’arte della simulazione e aveva trasmesso quest’arte ai ministri e ai sudditi, ma molte volte dovette subirla, e questa volta prestò fede a ciò che il conte gli aveva detto.

Non molto tempo dopo però, avendo saputo dell’incontro notturno del conte di Sarno col principe, Ferdinando cominciò a sospettare della frode, e insospettito anche dalla partenza di Bentivogli che per mare da Salerno si era recato a Roma, mandò subito Franzi Pastore con una galea, con l’incarico di andargli incontro e trattenerlo.

Saputo ciò il Sarno, temendo che dalla prigionia del Bentivogli si scoprissero tutti i suoi segreti, cercò di correre subito ai ripari.

Nell’insenatura di Baiano, dove gli antichi imperatori avevano una flotta a difesa del Tirreno, vi erano alcune navi appartenenti al conte di Sarno, sotto il comando di Antonio Coppola in partenza per accompagnare una nipote del re, figlia del duca di Melfi, che andava sposa al signore di Piombino, Jacopo IV degli Appiano-Aragona (la cui madre Covella o Colia era probabilmente figlia naturale di Alfonso).

Il Sarno portò tutte le cose più preziose del suo palazzo di Napoli sulla ammiraglia denominata “Capello” e mandò a Gaeta Paolo Amaranta per spiare la cattura di Bentivogli, e a Napoli ordinò ad Andrea Gattola di portare i suoi figli a Sarno. Ma saputo che Bentivogli non era stato raggiunto, senza attendere il ritorno dell’Amaranta, se ne tornò a Napoli.

Scoperte dal re e dal duca le macchinazioni del principe e del papa, essi si volsero a rinforzare i confini con la Chiesa e sopra ogni cosa il duca andò ad assicurarsi la città di Aquila, ma prima di lasciare Napoli volle tentare di indurre il principe di Salerno a passare dalla sua parte.

In quei giorni la moglie del principe aveva partorito un figlio e  il duca mandò a felicitarsi della nascita facendo sapere che avrebbe volentieri tenuto a battesimo il bambino. Questo mise in imbarazzo e preoccupò molto il principe il quale coglieva l’occasione del battesimo per poter parlare dell’impresa che si stava preparando con gli amici e parenti invitati.

Egli quindi pensò di superare in astuzia l’astuto duca, rispondendogli che lo ringraziava dell’immeritato onore che gli faceva e gli avrebbe comunicato quando sarebbero giunti gli invitati, il cui arrivo fu fatto tanto ritardare che il duca senza attendere ulteriormente se ne partì per l’Aquila.

Quando il conte di Sarno aveva saputo che il duca doveva recarsi a Salerno, andò di notte dal  principe e trovatolo a dormire, sedendosi sulla sponda del letto gli disse che non sarebbe andato a disturbarlo se non lo avessero tenuto sveglio le anime del duca di Sessa, di Jacopo e Francesco Piccinini, di Antonio Caldora e altri che il re e il duca nel nome dell’amicizia, della parentela e della religione, avevano fatto morire; e quelle anime, mentre dormiva, soggiunse il conte, gli erano apparse e lo avevano pregato di ricordargli di far prigioniero il duca per vendicarli e liberare il mondo da un sì perfido uomo.

Egli quindi intendeva vendicare tutti quei morti e voleva far provare al duca quei tormenti che  tante volte, con ingiustizia, aveva inflitto agli altri.

Sorridendo il principe rispose che i misfatti de re e del duca non dovevano rendere lui malvagio e che non era conveniente imitarli, se non nella virtù, aggiungendo che in ogni caso tutto ciò che si affaccia nell’animo di chi sogna non si deve prendere in considerazione.

Nel frattempo Bentivogli cercava di ottenere dal papa la costituzione della lega. I baroni chiedevano che il papa si obbligasse a mandar loro il duca di Lorena con un esercito, affermando che la guerra si doveva fare nel cuore del regno, altrimenti il re sui confini o sul territorio della Chiesa li avrebbe facilmente sconfitti. Inoltre popolo e nobili che si mostravano dubbiosi, trovandosi in casa papali e angioini, si sarebbero rivoltati contro il re.

Il papa rispondeva che la guerra si doveva fare dov’era il duca di Calabria ed entrare nel regno solo dopo averlo sconfitto, non essendo neanche opportuno allontanare da Roma il suo esercito per rimanere alla mercè degli Orsini e dei Colonna, che erano in armi e avevano rapporti col nemico.

Queste due fazioni sempre in guerra tra loro, a quel tempo guerreggiavano per il possesso del contado di Tagliacozzo che aveva parecchi castelli ed era ai confini con l’Abruzzo, piuttosto vicino ai confini della Chiesa e contiguo a quelli degli Orsini e dei Colonna.

 

1) I partecipanti a Melfi erano: il Gran connestabile Pirro del Balzo, principe di Altamura; l’ammiraglio Antonello Sanseverino, principe di Salerno; il gran Camerlengo Girolamo Sanseverino, principe di Bisignano; il Gran siniscalco Piero Guevara, marchese del Vasto; il Prefetto di Roma Giovanni della Rovere, duca di Sora; Andrea Matteo Acquaviva, principe di Teramo e marchese di Bitonto; Giovanni Caracciolo, duca di Melfi; Anghilberto del Balzo, duca di Nardò e conte di Omento; D. Antonio Centenelle, marchese di Crotone; Giovan Paolo del Balzo, conte di Nola; Pietro-Bernardino Gaetano, conte di Morcone; conte Barnaba di Lauria, conte Carlo di Melito; contessa Giovanna di Sanseverino; conte di Tursi e conte Guglielmo di Capaccio; i baroni, senza titolo: Giovan Francesco Orsini; Bernardino Sanseverino; Guglielmo del Balzo; Giovan Antonio Acquaviva; Gismondo Sanseverino; Raimondo e Berlinghiero Caldora; Traiano Pappacoda; Salvatore Zurlo; Colangelo di Aiello; Amelio di Senerchia.

 

 

GLI ACCORDI COL PAPA

 

L

a lega si concluse con questi accordi:- I baroni dovevano presentare una supplica scritta al papa con la quale gli chiedevano la protezione e ciò, sia come pegno della  serietà della loro richiesta, sia perché i principi cristiani sapessero che il papa “interveniva per l’altrui difesa e non nel suo interesse”; che promettessero di rimanere con lui fino alla fine della guerra, e, che dovevano mandare a Roma (per garantire gli accordi ndr.), uno dei baroni, che doveva rimanere presso il papa fino alla fine della guerra.

Da parte sua il papa si impegnava a tenere uniti i baroni e dare una buona reputazione all’impresa; a mandare un suo legato a Benevento per affrancare la città dal tributo pagato alla santa sede; a nominare comandante generale Roberto Sanseverino (all’epoca comandante dell’esercito veneziano); a far partecipare all’impresa gli Orsini (che avevano parentele tra i baroni e interessi nel regno); e, infine, a far venire il duca di Lorena e incoronarlo.

Il duca di Calabria recatosi negli Abruzzi, convocò a Chieti i baroni e la comunità, con lo scopo apparente di voler aumentare le gabelle del sale per riparare alle spese  che aveva sostenuto per le guerre precedenti, ma lo scopo principale era quello di far prigioniero il  conte di Montorio Aquilano e per assicurarsi la città di Aquila.

Il conte di Montorio, ritenendo di non avere nulla da temere portò con sé i figli e la moglie, ma il duca li mandò a Napoli, giustificandosi col dire che era tale la sua ostinazione nei confronti del re per l’aumento delle gabelle, che con la sua presenza sul posto egli non sarebbe riuscito ad ottenerne il pagamento.

Il duca ebbe a questo modo ciò che voleva, e sospettando una rivolta dell’Aquila vi stanziò due bande di soldati al comando, una di Antonio Cicinello,  e l’altra di Jacobello Pappacoda.

I cittadini di Aquila, sdegnati, mandarono delegati dal papa mettendo il loro territorio sotto la sua protezione, e, nel riferire al papa le ingiustizie del duca, lo supplicavano di assumere la signoria del loro territorio.

Il papa accettò, ma richiedeva che essi dovessero scrollarsi dal giogo del re e del duca con le armi.

Il duca, ritenendo di aver sistemato le cose, partì dall’Aquila per dirigersi in Terra di Lavoro dove volle impadronirsi del contado di Nola e del ducato di Ascoli, togliendoli ai figli del conte Orso Orsini che era stato un eccellente capitano del re e del duca ed era morto al ritorno dalla guerra di Firenze. Tra l’altro Orso Orsini prima di morire aveva raccomandato i due figli (naturali) al duca perché gli mantenesse i feudi!

Il duca aveva promesso di farlo, ma per la sua rapacità e avidità non si fece scrupolo di sacrificare l’onore all’interesse ed entrò nella città di Nola mandando in prigione i due figli di Orso, con la madre Paola.

Le preghiere di Paola di lasciarli liberi non valsero a smuovere il duca che si giustificò sostenendo che i due ragazzi non potevano essere figli di Orso che  alla loro nascita era già in età avanzata, costringendo la madre a confermarlo.   

Dopo che si era sparsa la voce dell’arresto dei figli di Orsini, nel mese di giugno (1485) ciascuno dei baroni si convinse che il duca avrebbe occupato i loro feudi, sicché il principe Sanseverino e gli altri signori si armarono apertamente, assoldando gente e fortificando le loro fortezze, sicché il regno da tranquillo che era, fu messo in subbuglio: furono interrotte le strade, sospesi i commerci, chiusi i tribunali.

Il popolo era in fermento, e i sostenitori degli angioini si rallegravano di questa situazione e si preparavano a recuperare i beni perduti; i sostenitori degli aragonesi invece se ne rammaricavano e si preparavano a difendere i loro averi.

I baroni nel frattempo sottoscrissero il documento voluto dal papa e dovendosi decidere su chi mandare a Roma, il principe di Salerno si incontrò nuovamente col Sarno facendogli sottoscrivere l’atto da mandare al papa e chiedendogli di farlo sottoscrivere anche dal Segretario.

Il conte conoscendo le intenzioni del Segretario, si rifiutò di farlo, sicuro che il Segretario non lo avrebbe  firmato, sì che il principe cominciò ad avere dubbi anche sulla sua sincerità, tanto più che il conte  insisteva per andare personalmente a Roma.

Il principe sospettando della buona fede del conte e non volendolo affrancare dal comune pericolo, fece scrivere dal Bentivogli una lettera in cui faceva dire che il papa voleva che gli fosse mandato uno dei baroni di antica casata.

Il conte, di mente acuta e di carattere orgoglioso e superbo, riconobbe subito la provenienza di questa richiesta dal principe, ritenendo che al papa poteva poco importare chi si recasse da lui, se signore di una qualità o di un’altra e gli parve che il principe con quella richiesta non solo avesse schernito le sue aspettative, ma lo avesse svillaneggiato. Tutto questo non fece che minare i loro rapporti.

I baroni decisero di mandare dal papa il Gran siniscalco Piero Guevara, che aveva il marchesato di Vasto in Abruzzo ai confini con la Chiesa, e avrebbe potuto agevolmente passare i confini, e, avute le istruzioni del principe, si recò a Roma.

Il papa preoccupato di come stavano andando le cose, mandò dai veneziani Nicolò Franco nominato vescovo di Treviso, per chiedere di aiutarlo a conquistare il regno di Napoli, del quale prometteva una buona parte.

Venezia era travagliata dalla pestilenza ed era appena uscita dalla guerra di Ferrara (in cui aveva avuto il papa contro nda.) e sebbene i suoi cittadini fossero mal disposti nei confronti del  re e del duca e non accettassero che essi si arricchissero a spese dei baroni, pur tuttavia ricordavano quante volte i papi si erano beffati di loro, e tutte le sconfitte inflitte ai baroni da parte di Ferdinando tutte le volte che avevano preso le armi contro di lui. 

Decisero quindi per una via di mezzo: di non abbandonare il papa e di non entrare apertamente nella lega contro il re, e ritennero opportuno rimuovere dal comando del loro esercito Roberto Sanseverino. A questo modo, mentre da una parte dimostravano  di essere in pace con tutti, dall’altra lo  finanziarono segretamente in modo che potesse armare duemila cavalieri e duemila fanti.

Era normale”, commenta in proposito lo storico, “a quei tempi tra le repubbliche e i principi italiani, in questi modi mascherati, senza guastare le paci o rompere le tregue, attaccare le guerre e sovvenire gli amici .

Il principe Sanseverino, desideroso di conquistare il regno e difendere la Chiesa, con i suoi quattro figli e la sua cavalleria passò alle dipendenze del papa.

Il re e il duca allarmati si rivolsero al conte di Sarno per tentare di procurare un colloquio col Sanseverino. Di ciò ne venne a conoscenza il papa che si mostrò sdegnato e se ne dolse col Bentivogli al quale impose di scrivere al principe che con il suo comportamento “faceva nascere sospetti tra gli amici e confermava i dubbi nei nemici”. Il principe troncò immediatamente ogni approccio per non dar credito a ulteriori sospetti.

Il Sarno, appoggiato dal Carinola, aveva suggerito al principe di approfittare quando il re e il duca fossero andati a Sarno, e di imprigionarli, ma il principe non accettò non reputando onorevole tradire l’ospitalità.

Il re si preparò quindi alla guerra e deliberò che si formassero due eserciti, uno minore sotto il suo comando per affrontare i baroni, l’altro più consistente sotto il comando del duca che doveva affrontare le forze del papa ai confini della Chiesa e il principe Sanseverino.

Ferdinando spedì legati a Firenze, Milano e presso il re Cattolico in Spagna per chiedere aiuti  rivolgendosi anche al genero, il re  Mattia d’Ungheria.

Tra i baroni serpeggiava la volontà di raggiungere un accordo perché vedevano il re ben preparato ad affrontarli e nello stesso tempo non avevano nessun sostegno da parte di coloro che li dovevano aiutare, come il duca di Lorena che era lontano, e vedevano altresì che i rapporti tra il principe di Salerno e il conte di Sarno andavano sempre più deteriorandosi.

Speravano quindi sul fatto che essendo il mese di agosto, con le trattative si sarebbe  tenuto il duca in attesa fino al giungere dell’autunno quando le operazioni di guerra venivano normalmente sospese.

Il principe intanto, rassicurato dalla protezione del papa si era tanto riempito d’orgoglio e di insolenza da non mostrare di apprezzare più né il conte di Sarno né il Segretario.

In quel periodo al conte avevano riferito della cattiva disposizione del principe nei suoi confronti e come lo disprezzava dicendo che egli si ingannava se pensava che lui rischiasse la sua condizione per assicurare i suoi furti e per ingrandirlo ulteriormente. Ciò ebbe come conseguenza che avvicinandosi la guerra, il principe non poté ottenere dal conte alcuna somma del denaro promesso, in quanto il conte voleva stringere prima la parentela col matrimonio della propria figlia. Questi attriti non fecero che aggravare i loro rapporti e finirono per renderli nemici.

Si aggiunse anche la circostanza della morte dell’arcivescovo di Salerno dalla quale, il conte di Sarno coglieva l’occasione per costringere il Segretario ad uscire allo scoperto e passare apertamente dalla parte dei rivoltosi, mentre il principe avrebbe dovuto richiedere al papa quella carica per uno dei suoi figli.

Ma il principe oltre ad essere con lui risentito, si era obbligato con il vescovo di Melfi che godeva la protezione del duca di Urbino, non solo, ma il vescovo apparteneva alla famiglia del duca al quale interessava che qualcuno dei Caracciolo primeggiasse anche nel campo della spiritualità.

Ciò ferì l’orgoglio del conte che trovandosi a Salerno ebbe un alterco col principe e giurò che non si sarebbe più recato in quella città né si sarebbe mai più rivolto a lui, dolendosi anche del fatto che i baroni in quella guerra volevano mettere a repentaglio denari e territori suoi e del Segretario, solo perché il duca li aveva minacciati.

I baroni mandarono il principe di Bisignano dal re che essendo ben disposto, diede incarico al conte di Sarno, al Segretario e al catalano Giovanni Impoù di andare a Miglionico, dove si trovava la maggior parte dei baroni (sett. 1485).

Il Segretario e il conte si sforzarono ad appoggiare la pace perché con essa  sarebbero state celate le loro trame, ma il re ne aveva avuto sentore e se n’era lamentato con il conte. Il Sarno era in sospetto anche presso i baroni e se ne rese conto a Miglionico dove  lo aveva visto dipinto sui loro volti, convinti che il conte da loro compagno fosse passato dalla parte del re.

Venuti quindi a discutere della pace, anche per prender tempo, richiesero la presenza del re il quale per rassicurarli, mettendo da parte la dignità e l’orgoglio, si mise in viaggio per Miglionico (10 sett.), raggiunto poco dopo dal duca di Calabria.

Il re era a conoscenza delle intenzioni dei baroni avendogliele riferite il suo maggiordomo duca di Nardò, e le richieste erano: che fosse loro permesso di tenere soldati per difendere e custodire i loro feudi; che il re non dovesse ulteriormente gravarli di altre imposizioni oltre quelle ordinarie da essi dovute; che i soldati del re non dovessero alloggiare nei loro territori; infine, che senza la sua autorizzazione potessero avere la possibilità di servire sotto qualsiasi principe che lo richiedesse, a condizione che non impugnassero le armi contro il regno.

Nel frattempo a Roma era morto il cardinale d’Aragona, altro figlio di Ferdinando, il quale  assegnava i territori amministrati dal figlio deceduto, di Vico, Massa e san Bartolomeo, ai conti di Maddaloni e di Marigliano, dando però un grave dispiacere al conte di Sarno che riteneva che “ogni accrescimento degli altri fosse un danno per lui”.

Il Gran siniscalco Piero Guevara, dubitava nel raggiungimento della pace e voleva che il conte gli manifestasse apertamente  se intendeva continuare a stare con i baroni oppure ritirarsi dal suo impegno e continuare a prestare i suoi servigi al re, in modo che anch’egli lo avrebbe seguito nella sua decisione.

Il conte, stupefatto e dispiaciuto aveva risposto che riponeva invece tutte le sue  speranze nella pace, che secondo il suo giudizio sarebbe andata a favore di tutti. Egli comunque non si sarebbe tirato indietro su quanto aveva sottoscritto.

Il Gran siniscalco pensando che se il conte partecipava all’impresa, lo faceva più per timore della sottoscrizione che per convinzione, gli disse che ciascuno era libero di decidere senza imposizioni e con libera volontà, e vedendolo indeciso gli mostrò il foglio con la sua firma e lo lacerò.

Il conte di fronte a questo gesto, mentre dentro di se avvertiva sottile piacere di liberazione, rispose di non ritenersi per questo sciolto dal suo impegno, e se egli aveva fatto riferimento a quella sottoscrizione, intendeva dire che non voleva obbligarsi ad altre condizioni se non a quelle sottoscritte, e che sebbene fosse stato  ingiuriato e offeso dal principe Sanseverino, non sarebbe mai venuto meno all’impresa.

Nel frattempo a Miglionico il re aveva accettato le richieste dei baroni, “riprendendoli amorevolmente, col dire che avevano preferito confidare  nelle armi piuttosto che nella sua benignità” e consigliandoli di andare dal principe di Salerno per convincerlo ad accettare la pace.

I baroni mostrarono di essere soddisfatti delle concessioni del re e per dimostrarlo lo accompagnarono fino in Terra di Lavoro, per poi recarsi dal principe di Salerno.

Durante il viaggio seppero che l’Aquila si era ribellata e che i due comandanti Cicinello e Pappacoda erano stati uccisi con il presidio e che per la città si gridava il nome del papa.

Il re se ne rattristò mentre i baroni in cuor loro se ne rallegravano, pensando che la guerra era iniziata e che il principe di Salerno senza farli venir meno alla parola data, potesse rifiutare la pace e proseguire la guerra.

Il re, prima di salutarli, lasciò che con loro andassero anche il conte di Sarno, il Segretario e Giovanni Impoù, invitandoli a fermare il principe perché oramai l’Aquila si era ribellata e sarebbe stato invano tentare di farla abbandonare dal papa.

Il conte di Sarno, libero della presenza del re, conoscendo le intenzioni dei baroni, rifiutò di recarsi a Salerno e si rinchiuse nel suo castello dove ospitò con magnificenza tutti i baroni.

 

DON FEDERIGO A SALERNO

 L’OSPITALITA’ DIVENTA PRIGIONIA

 

I

 baroni, dopo la sosta presso il conte di Sarno, si recarono dal principe a Salerno il quale rallegratosi della loro presenza, dettò al Segretario e a Giovanni Impoù le sue condizioni che miravano a modificare quelle già prese e aggiungerne altre, richiedendo che fosse don Federigo a venirle a confermare.

Don Federigo era persona colta, versata nelle lettere e nelle scienze e molto prudente nell’agire, di carattere opposto a quello del fratello Alfonso, e mentre don Federigo era per l’equità, la modestia e l’umanità e riceveva la considerazione della gente, il duca aveva altri valori e con l’astuzia e la forza mirava alla gloria e al comando.

Mentre in Federigo prevaleva l’ingegno e l’eloquenza, in Alfonso prevaleva l’ardire e la prontezza.

Alfonso era modesto nella persona, Federigo aveva corpo prestante e presenza fisica. Alfonso era ben disposto con gli amici e crudele con i nemici, amava la caccia e la vita all’aria aperta ed era tanto avaro che nel periodo in cui aveva governato non aveva mai donato nulla a nessuno e quando andò via portò con sé quanto più potette: l’uno lasciò rimpianto, l’altro il terrore.

Per l’odio che i baroni avevano nei confronti del duca, decisero di offrire la corona al fratello.

Prima che don Federigo si recasse a Salerno, Ferdinando, che era a conoscenza delle simpatie che i baroni mostravano nei suoi confronti e auspicavano che fosse lui a succedere nel regno, lo aveva nominato principe di Taranto, permettendogli di trattare con i baroni  tutte le volte che essi non fossero d’accordo con il duca di Calabria.

Federigo sebbene fosse stato avvertito dal Segretario di non recarsi a Salerno, vi andò ugualmente, ricevuto da re, tanto da rimanere meravigliato di essere ricevuto dai baroni con umiltà e sottomissione, convinto di poterli convincere alla concordia col padre.

Ma cominciando a trattare si rese conto che i baroni erano molto lontani dalle sue intenzioni, perché mentre lui voleva che essi rimanessero sotto il re e il duca, essi invece offrivano la corona a lui perché li difendesse dalle loro ingiustizie.

Federigo rimase turbato della proposta dei baroni ma si riprese e cercò di convincerli dell’errore in cui stavano cadendo e si riservò di dare una risposta.

Il principe fece preparare una sala del castello come una sala regia, con un trono per don Federigo da farlo sentire come un re e convocò i baroni per il giorno dopo.

Riuniti tutti nella sala, il principe, si rivolse a don Federigo e, dicendogli “di ritenerlo profondo conoscitore di tutte le scienze che rendono l’uomo simile  Dio,  egli non scendeva ad accusare il padre e il fratello, non essendo conveniente far vendetta delle offese con le parole, perché il re era vecchio e trascurava il governo e il fratello seguiva i peccati che gli consentiva la sua natura che lo aveva reso superbo e rapace, mentre a voi, signore”, diceva il principe, “ha riservato umanità e liberalità; non vi è nessuno dei presenti che non si senta offeso da lui e che non si trovi da voi beneficato. Tutti temono che prendendo lui la corona, le proprietà vadano perdute, i figli verranno uccisi e le mogli svergognate.

Tutti pensano che se voi accettate, ciascuno diventerà più ricco negli averi, e potrà fidare di avere dei successori e più onorato nelle donne. Non vi è da meravigliarsi”, aggiunse il principe, “se in tanta disparità desideriamo l’uno per padrone, considerando l’altro tiranno. E come non dobbiamo con ragione temere di essere rovinati ed eliminati da chi ha voluto in tutti i modi eliminare la Chiesa e i suoi ministri, ha tradito e vilipeso i parenti, ingannati gli amici e con ogni scelleratezza perseguitati i nemici?

Ogni animale, quantunque irrazionale e privo d’intelletto fugge dalla morte e cerca la vita. Non altrimenti noi scampiamo dalle sue empie mani e ricorriamo a te e ti preghiamo di prendere il dominio dei nostri cuori e delle nostre volontà e liberarci da questo timore che perturba e opprime i nostri animi. devi scusarti”, aggiunse il principe di Salerno, “se sei il secondo nato dal re perché i regni non pervengono sempre a coloro che le leggi hanno ordinato, ma a coloro che li sanno reggere con prudenza o mantenere con fortuna. Il tuo avo (Alfonso I. nda.) di buona memoria, privò il re Giovanni (d’Aragona), al quale di diritto spettava questo regno, concedendolo a tuo padre (Ferdinando I, v. Articoli: L’Europa verso la fine ecc., P. IV) che non ne aveva diritto, ritenendo che con l’uno avremmo vissuto in continua guerra e con l’altro avremmo avuto una pace perpetua.

Non si può negare che la giustizia non sia dalla tua parte e dalla nostra, dal momento che questo regno è beneficiario della Santa sede e da parte dei pontefici è concesso in censo ai benemeriti. Ora viene donato a te e negato a colui che ha depredato e rovinato paesi e città con le loro chiese. Poiché la potenza dei re deriva dai sudditi e quando non vi è tra costoro chi ubbidisca, a che giova comandare? 

Né devi pensare che il tuo vecchio padre non debba assecondare la volontà degli uomini e quella di Dio e non dovrà ritenersi padre infelice avendo tra i figli uno giudicato degno di portare lo scettro e la sacra corona. Ricordati dunque di essere nato con noi e che questo cielo e questa bellissima parte d’Italia ti ha portato al mondo con uno scudo per difenderti dalle percosse e con un porto per ripararti dai naufragi.

Vinca nel tuo cuore la pietà per le nostre miserie, abbraccia i fanciulli innocenti, solleva le madri impaurite, ferma quel sangue che insozza la tua terra natia, le domestiche case e i divini altari e non meravigliarti se te vivo, spinti dalla necessità per salvarci, andiamo a rifugiarci nel grembo di gente barbara, diversa dai nostri costumi  e dalla nostra lingua, come avverrà se non ci accetti come tuoi servi”.

A queste parole, tutti gli astanti pensarono che don Federigo non avesse alcun motivo per opporre un rifiuto e ciascuno si riempiva di speranza non dubitando della sua gratitudine, ma don Federigo rispose:-

“Signori baroni, potrebbero sorgere dei dubbi verso chi io debba avere maggiori obblighi, se nei confronti del duca o di voi, perché, come dite, se egli  non vi avesse offesi e oltraggiati, io che non ho commesso né l’una cosa né l’altra, non vi sembrerei così buono e degno di lode. Sarei pur disposto ad essere vostro debitore più che suo, tanto è grande e prezioso l’onore che mi fate. Se piacendo a Dio mi concedeste questo regno - se fosse nelle vostre mani - dandomi abiti e ornamenti, non un re verreste ad adornare, non essendo scettri e corone vere insegne, ma la reputazione e le armi, perché l’una ti conserva negli onori e le altre nei pericoli, e quei regni che si sono conquistati con la frode, si devono mantenere con la forza.

Si potrebbe usare inganno maggiore, che usurpare il regno al fratello  contro il volere del padre, delle leggi della morale? Buona parte dei baroni avvezza alle armi è dalla sua parte e sebbene egli sia odiato dal popolo è amato e adorato dai soldati che da lui sono stati arricchiti a danno del popolo che è stato impoverito. Da ciò si comprende che ben poco si possa fare contro di lui.

D’altronde, io cosa potrei fare? Invano cerca aiuto allo straniero chi è sleale con i suoi. Il papa, che desidera per i suoi la vittoria, è vecchio e povero,  Lorena parteggia per sé, Roberto non è né per l’uno né per l’altro, ma pensa di signoreggiare con una guerra continua. E anche se non vi fosse dissenso, le precedenti guerre dei pontefici  non dovrebbero far aprire gli occhi e far prevedere la fine della presente?

Essi che in poco tempo hanno raggiunto la grandezza per l’ossequio e il rispetto nei confronti della religione, si sono persuasi di poter diventare signori del mondo e per questo prendono le armi nelle quali, senza esperienza e poco istruiti, non potendo ottenere in poco tempo dei risultati concreti, fanno accordi senza alcun rispetto per gli alleati.

Certamente, le altre potenze dell’Italia, vi esorteranno nell’impresa, ma, poiché i risultati non sono sicuri, staranno a guardare, nella speranza - con le vostre trepidazioni e a vostro pericolo - di poter accrescere i loro stati.

Vedo, signori, che poco prudentemente paragonate le mie maniere con quelle del duca; ma non tenete conto delle differenze che possono esservi tra un re e un privato, o della mia funzione e quella sua? Non è da meravigliarsi se lo studio delle lettere hanno reso me di natura piacevole e umana, mentre  l’esercizio delle armi hanno reso lui terribile e feroce, perché è a questo che portano le diverse discipline e così è sempre stato.

E se domani mi faceste re, sarei costretto a dimenticare la mia formazione e adeguarmi ai suoi costumi  ed in particolar modo ad assomigliargli nel conservare il titolo di re, nel manovrare le guerre, nel porre nuove imposte creando malcontento, fare insomma tutte quelle cose per le quali egli è odiato e temuto, in modo che non passerebbe molto tempo che finireste per deporre me per cercarne uno nuovo. E questi cambiamenti, credetemi, si faranno sempre con poco onore da parte vostra e con molto danno.

Sicché, signori, preparatevi a tollerare gli inconvenienti che i sudditi devono sopportare e vincete con la vostra liberalità le necessità altrui, e abbandonate l’idea del dono che mi offrite lasciando che io rimanga amato compagno, anziché odiato padrone”.

Dopo questa risposta si videro i volti degli astanti cambiare aspetto: dall’allegria e confidenza che avevano mostrato prima, si destò un mormorio e un presagio della sventura che si sarebbe abbattuta su di loro; tra di essi vi fu chi si rese conto del motivo per il quale il conte di Sarno si era defilato: don Federigo contrario, il papa disarmato, il duca di Lorena e Roberto non pronti a combattere, e tutti erano disuniti!

Il principe di Salerno e gli altri che bramavano terminare con le armi la mal cominciata impresa, essendosi scoperti con ciò che era stato detto a don Federigo, messi da parte gli onori e le adulazioni che per convenienza più che per dovere gli avevano tributato, da re lo fecero prigioniero.

Mentre questi avvenimenti si verificavano a Salerno, a Napoli si divulgò la notizia che il Segretario Petrucci era in lega con i baroni e da essi tenuto prigioniero.

I figli corsero ai ripari e pregarono il re di non prestar fede alle voci sparse sul conto del padre e che sarebbero andati a liberarlo.

Si era scoperto che egli era contro il re da alcuni particolari, tra i quali il più importante era che aveva concordato il matrimonio tra suo figlio conte di Policastro e la figlia del conte di Lauria. Questo matrimonio gli stava a cuore perché il feudo del figlio si trovava in mezzo alle terre dei Sanseverino e quindi cercava di renderlo sicuro dalle altrui brame.

I baroni vista l’ostinazione di don Federigo, alzarono le insegne del papa, con sdegno del duca di Lorena che vedeva pregiudicate le sue ragioni.

 

LA REAZIONE DEL RE

 

I

l re Ferdinando sentitosi tradito e addolorato dalla cattura del figlio si decise, per necessità più che per volontà, a prendere le armi. Essendo inverno, incominciò a preparare per la primavera esercito e navi per opporsi al papa e domare i baroni e prima di ogni altra cosa si impegnò a disunire le forze avversarie.

Per primo liberò dalla prigione il principe di Altamura e il conte di Montorio dando a quest’ultimo l’incarico  di liberare l’Aquila, liberazione che però non riuscì ad ottenere.

Poi, per prevenire i baroni che avrebbero occupato Terra di Lavoro e Napoli nonostante fosse dicembre, mandò dei soldati a porre un accampamento presso Acerra distante da Napoli otto miglia e posta in luogo paludoso, difficile da espugnare in quella stagione e per il principe di Salerno soccorrerla.

La guarnigione era composta da cento fanti i quali più preoccupati della vita che della gloria, senza aspettare altro, fuggirono lasciando quel luogo inespugnabile che in precedenza aveva resistito a vigorosi e feroci assalti. 

Sistemata Acerra, il re pensò a mettere sotto pressione il conte di Sarno al quale si rivolse dicendo che i baroni gli avevano dato la certezza che egli fosse collegato  con loro  e che era stato lui ad averli istigati alla congiura, ma si era staccato dall’impresa non avendo il principe di Bisignano voluto stringere la parentela con lui.

 A tutto questo però egli non aveva voluto credere in quanto sapeva che per fedeltà nei suoi confronti non aveva partecipato all’incontro dei congiurati a Salerno. E poiché era stato considerato indegno di imparentarsi con un principe, lui gli dimostrava di essere degno del re e gli prometteva di dare in moglie al suo primogenito Marco, una sua nipote in via naturale, figlia del duca di Melfi. Dopodichè lo invitò a custodire le Foci e rinforzare Sarno.

A questo modo il re portò il conte di Sarno dalla sua parte. Quindi, dovendo apertamente combattere con il papa, e la popolazione per la sua religiosità avrebbe considerato la guerra contro il papa un sacrilegio, nella cattedrale di Napoli in presenza del popolo, della nobiltà, capitani e baroni, fece leggere una protesta dalla quale emergeva che, non vedendosi una differenza tra il papa e la Chiesa, il suo apparato di guerra era finalizzato per la difesa del suo stato e non per offendere o per occupare stati altrui, e che per parte sua egli si riteneva figlio ubbidiente della sede apostolica. Allo stesso modo scrisse rivolgendosi a tutti gli altri sovrani d’Italia.

Nello stesso tempo, per far decidere gli Orsini ad appoggiarlo e distrarre le forze papali, fece in modo che i Colonna e i Savelli dei quali Mariano Savelli militava nel suo esercito, muovessero guerra agli Orsini, in modo che la guerra tra queste due fazioni  impegnasse le forze di Innocenzo VIII.

Vi fu infatti una rivolta in Roma tra le due fazioni e Virginio Orsini occupò un ponte sull’Aniene (Teverone) presso Mentana, con soldati e artiglieria. Il papa ne rimase  sdegnato e oltre a sollecitare il duca di Lorena, fece intervenire Roberto Sanseverino.

Dopo una cruenta battaglia in cui si distinse il figlio di Roberto, Gaspare detto Fracasso colpito da una palla di archibugio che gli aveva attraversato ambedue le guance, le sorti si stavano volgendo contro i soldati del papa quando, intervenuto nella mischia Roberto, rianimò i soldati e riuscì a guadagnare il ponte, dopodichè andò con furore a mettere a ferro e fuoco Mentana massacrando tutti gli abitanti senza distinzione di età e di sesso.

Mentre il duca di Calabria per non perdere cavalli e reputazione decise di rientrare nei confini del Regno e Roberto si apprestava a conquistare Monte Rotondo, il cardinale Orsini andò a gettarsi ai piedi del papa invocando il perdono per i propri congiunti e ottenne la pace che il papa accettò a condizione che fossero consegnate tutte le fortezze dei loro feudi.

Questi accordi non furono condivisi da Roberto per il quale Innocenzo per graziare i nemici privava gli amici del bottino e della vittoria.

Intanto nel regno, i baroni (tra i quali erano Camillo Caracciolo, conte di Sant’Angelo, Carlo di Sangro, Giovan Paolo detto Marra, Jacopo e Antonio Caldara), vista la perdita di Acerra e il conte di Sarno passato dalla parte del re, decisero di lasciare terra di Lavoro e andare a fare la guerra nelle Puglie.

In queste terre si trovava il duca di Melfi il quale sebbene si fosse mostrato favorevole ai baroni, vedendo che gli Orsini appoggiavano il re e che il duca di Lorena non era ancora  arrivato, non avendo alcuna fiducia nei congiurati, privi di mezzi e disuniti, non osava dichiararsi né dalla parte del re né contro il re.

La guerra dei baroni in Puglia suscitava molta preoccupazione perché si temeva che il duca di Melfi fornito di buona cavalleria a difesa del suo feudo, avrebbe avuto l’aiuto dei baroni vicini, alcuni uniti a lui da parentela, altri  dalla speranza di guadagno in quanto il duca oltre ad essere potente era anche ricco.

Il maggiore dei baroni, principe di Altamura, dopo aver pregato inutilmente il duca di unirsi a loro, non ottenne altro che la sua neutralità di cui poteva anche esserne contento.

Costui con il marchese di Bitonto poi duca d’Atri, rassicurato della neutralità del duca di Melfi, andò ad accamparsi a Rutigliano, fortezza importante che tutti ritenevano  non facile da conquistare se non con le armi. Ma don Francesco d’Aragona, altro figlio del re e Cesare Pignatelli, che occupavano Barletta, non mandarono soccorsi e Rutigliano fu presa dai baroni; a Rutigliano seguirono Spinazzola e Ienzano e ai baroni si aggiunse Berlinghiero Caldora.

Questi esiti positivi delle occupazioni furono compensati, nei risvolti negativi, dalla fuga da Salerno di don Federigo.

 

 

LA FUGA DI DON FEDERIGO

 

D

on Federigo sebbene prigioniero era libero nei movimenti in quanto i baroni, da un lato si vergognavano di aver tradito l’amicizia e averlo fatto prigioniero e dall’altro non ritenevano opportuno lasciarlo andare: “come se il re”, commenta lo storico, “per rispetto, non avesse loro fatto tutto il male che avrebbe potuto, sicché, fra il timore e la vergogna non seppero né tenerlo, né lasciarlo andare”.

Le mura di Salerno erano bagnate dal mare e a due miglia di distanza vi era un borgo di pescatori chiamato Cetara che erano di fazione contraria ai salernitani e agli abitanti di Cava: gli uni parteggiavano per gli aragonesi, gli altri per gli angioini.

Il re chiese ai cetaresi di aiutare il figlio a fuggire e se don Federigo fosse riuscito a calarsi in mare, avrebbero potuto prenderlo con le loro barche. Essi infatti potevano avvicinarsi  fin sotto le mura, avendo libero accesso alla città per motivi di commercio. Don Federigo in un primo momento giudicò pericoloso calarsi di notte dalle mura che sebbene non fossero alte erano sorvegliate, ritenendo anche che se la fuga non fosse riuscita, i baroni, che sperava di convincere a lasciarlo libero, lo avrebbero sottoposto ad una più dura prigionia e con il tentativo di fuga avrebbe perso ogni speranza di libertà.

Alla fine però si convinse e volle tentare la fortuna che altre volte gli era stata favorevole, sicché una notte calatosi dalle mura senza esser visto dalle guardie (probabilmente corrotte o forse al riparo per il freddo essendo dicembre), si calò in barca e dopo tre giorni entrò in Napoli dalla porta del mercato accolto dal padre, dai fratelli e da tutti gli ordini della città.

Dopo questa fuga il Segretario ebbe l’autorizzazione dei baroni a mandare il figlio conte di Carinola dal re per rassicurarlo che il padre era trattenuto con la forza. Giunto a corte il conte fu simulatamente ben accolto, ma anch’egli aveva le sue riserve mentali in quanto si aspettava la rovina del re piuttosto che giovargli.

A corte vi erano quelli che lo invidiavano ed aspiravano ad appropriarsi delle sue rendite, costoro lo diffamarono mettendo in giro la voce che egli era venuto a spiare i movimenti del re, facendo in modo che il conte che era un pavido, spaventato, mandò prima le sue cose più preziose da Napoli al castello di Carinola e poi vi si recò fuggendo di notte.

Il re venutolo a sapere, gli mandò il suo scudiero Mosca con l’invito a tornare, facendogli sapere di non avere nulla da temere e per dimostrargli la sua buona disposizione gli fece chiedere di portare con sé i cavalli che egli aveva nel suo feudo (il re aveva distribuiti nei vari feudi del regno suoi cavalli nda.).

Carinola, impaurito, mandò i cavalli ma non si lasciò convincere a recarsi dal re, tanto che questo fu costretto a minacciarlo di mandarlo a prendere con i suoi soldati. “E come le minacce erano bastate a farlo fuggire”, commenta lo storico “bastarono anche a farlo tornare”.

La fuga e la partenza allarmarono il Segretario il quale, temendo che si sarebbe tradito, chiese ai baroni di mandarlo dal re presso il quale avrebbe finto di negoziare la pace, e  partì lasciando  in ostaggio l’altro figlio, conte di Policastro.

Giunto al cospetto del re e alla presenza di don Federigo che fungeva da testimone, il Segretario si giustificò di qualsiasi imputazione, ricordando al re che era stato lui a mandarlo a Salerno dove con pericolo per la sua vita aveva suggerito a don Federigo di non andare perché sarebbe stato fatto prigioniero.

Aggiunse anche di non voler neanche discutere della fuga del figlio conte di Carinola, del quale era ben nota la timidezza più al re che agli altri; che lo testimoniava il suo subitaneo ritorno, e se pur avesse commesso qualche fallo per il quale meritava un castigo, egli per i molti e rilevanti servigi resi avrebbe meritato il perdono.

Il re, grande simulatore, dopo averlo ascoltato gli rispose mostrando tutta la sua comprensione, e lo dimostrò anche con i fatti, reintegrandolo nella sua carica. Non mancarono però quelli che predicevano che le concessioni fatte dal re sarebbero state  brevi ed infelici”.

 

MOVIMENTO DI TRUPPE

 

I

l duca di Calabria si rendeva conto che le sue forze erano inferiori a quelle del principe Sanseverino e senza l’aiuto dei confederati non si sarebbe potuto difendere dai nemici congiurati. Il re di Spagna infatti aveva problemi con i mori di Granata e non poteva prestargli aiuto; in Ludovico il Moro non poteva confidare; nei fiorentini non poteva sperare in quanto erano impegnati con i genovesi  per Sarzana e per giunta Lorenzo de’ Medici era infermo.

A ciò si aggiungeva che gli aquilani avevano accolto il conte di Montorio lanciandogli pietre dalle mura e al re mancavano sia i denari che il credito essendo stato abbandonato dal conte di Sarno, e Ferdinando, nonostante avesse messo il conte di Sarno in condizione di non nuocere, si fosse assicurato Terra di Lavoro e avesse riavuto il figlio Federigo, era molto preoccupato.

Ferdinando aveva imparato “che colui che può temporeggiare durante le tempeste rimane vincitore in quanto, il cedere ti fa perdere, l’urtarle ti sottopone a rischio”, pensò quindi di rimanere a Napoli dando a reggere l’esercito a suo nipote il principe di Capua, primogenito del duca, affiancato, per la sua giovane età dal conte di Fondi e di Marigliano e assicurando a questo modo la città di Napoli.

Ferdinando mandava quindi in Puglia un distaccamento affidato al figlio don Francesco d’Aragona, e chiedeva aiuto al duca di Lorena e a Lorenzo de’ Medici, il quale memore dell’aiuto ricevuto da Ferdinando che gli aveva permesso di conservare la signoria di Firenze, gli mise a disposizione il conte di Pitigliano con millecinquecento cavalli ai quali se ne aggiunsero seicento mandati da Ludovico il Moro, capitanati da Giovan Francesco Sanseverino.

Ferdinando si era rivolto anche al genero, il re Mattia d’Ungheria che aveva in moglie una delle figlie, Beatrice, che certa del fatto che la Provvidenza fosse dalla parte di suo padre, aveva spinto il marito  ad appoggiare il padre e punire i ribelli, il papa e i cardinali.

Beatrice, era una delle grandi dame dell’epoca rinascimentale ed era infaticabile nella corrispondenza con signori e monarchi di tutta l’Europa, e aveva scritto al duca  di Milano, al cognato duca di Ferrara, Ercole d’Est, marito di sua sorella Isabella, ed anche al papa, per aiutare il padre.

Mattia si era risolto ad aiutare il suocero e sin dal mese di marzo aveva incominciato ad inviare per mare reparti di cavalleria verso Manfredonia; altre truppe inviò nei successivi mesi di giugno e settembre.

Certamente Mattia in vena di conquista di territori aveva pensato di approfittare della presenza delle sue milizie in Italia per farvi delle conquiste e aveva fatto occupare Ançona nelle cui vicinanze una galea del papa catturava una sua nave con trenta cavalieri. Ma gran parte delle truppe ungheresi arrivava troppo tardi, sorprese dalla pace che nel frattempo era stata firmata col papa.

Tra il re, il duca e i suoi capitani, non si era d’accordo su come utilizzare le forze ricevute da Milano e Firenze; una parte riteneva che dovessero rimanere in Toscana e di là tenere sotto tiro il papa e opporsi quindi a Roberto Sanseverino, e dall’altra che dovessero farle partire e farle congiungere con loro.

Il duca di Calabria decise per questa ultima soluzione, approvata dal padre e da Lorenzo de’ Medici e poiché non si fidava dei soldati ausiliari, decise di prendere personalmente il comando di queste forze. Prese  quindi per sé alcune squadre di cavalieri e affidò le altre a difesa dei confini a Virginio Orsini.

Le forze del conte di Pitigliano stavano attraversando il territorio della Chiesa stancamente e senza fiducia nel loro comandante, e “con tanto timore che al primo rumore si sarebbero messe in fuga da sole e a costoro pareva che gli alberi, i rami e i sassi fossero uomini armati …figurarsi se avessero dovuto patire la fame ...e tutti pensavano alle angherie che avrebbero potuto subire da parte dei contadini

Ma, sopraggiunto il duca fu come se fosse arrivato un dio che portava loro aiuto; si riempirono di speranza e sollevando le mani al cielo si sentì risuonare l’aria di grida di  gioia. Quei soldati non si stancavano di guardarlo e salutarlo dicendo che era venuto il figlio del re, gran principe, raro capitano, il cui nome era onorato e temuto anche dai turchi”.

Riportata la notizia al papa, questo deliberò di mandare aiuto ai baroni sia perché essi lo richiedevano, sia perché sarebbe stato più facile profittare dell’assenza del duca in modo da chiudergli il passo al momento del ritorno. Mandò quindi Giovanni della Rovere, prefetto di Roma, mentre Roberto ebbe l’incarico di fermare il duca.

Contrariamente alle sue aspettative, Roberto si trovò di fronte il duca col quale dovette ingaggiare una dura battaglia durata tutto il giorno. Giunta la notte egli aveva pensato di far riprendere le forze ai suoi soldati per il combattimento della mattina seguente, ma il duca  con la sua truppa, nel silenzio della notte, attraversando il territorio della Chiesa, si diresse nel feudo di Virginio Orsini.

Questa digressione aveva suscitato lo sdegno del papa nei confronti del quale Roberto aveva fatto la figura di chi non avesse la volontà più che la forza di fermare il duca: il papa decise quindi di ricorrere alla pace. Roberto però, per non far sorgere sospetti, si recò dal papa al quale riferì che il duca aveva preferito sottrarsi al combattimento facendo la scelta di un capitano indegno più che di un coraggioso  figlio di re e che egli era pur disposto ad inseguirlo e inoltre, avendolo spaventato e danneggiato, il duca non avrebbe avuto l’ardire di venirgli incontro.

Il papa così  rassicurato, e sempre con la speranza della venuta del duca di Lorena, differì la pace e permise a Roberto di tentare nuovamente la fortuna e congiungersi ai baroni e a Giovanni della Rovere, recandosi nel regno.

Questa discesa di Roberto non fu di nessun giovamento, alla stessa maniera dello scontro che aveva avuto col duca, perché Roberto recandosi a Benevento, nel passare dalla porte di Napoli aveva seminato solo terrore. Ciò non fece che creare malcontento nei baroni e aumentare il  risentimento degli abitanti nei confronti dei congiurati e del pontefice.

Per rassicurare gli animi giunse a Benevento un legato del papa col prefetto della Rovere, che convocò una dieta a Venosa dove giunse anche un legato del duca di Lorena il quale, giustificando il ritardo del suo signore (causato dal re di Francia) li rassicurò dicendo che il duca era già giunto a Lione con numeroso esercito e in breve sarebbe giunto a Genova per imbarcarsi e raggiungere il regno.

Il giovane principe di Capua, su disposizione del re andò ad occupare il borgo di Sanseverino che non era fortificato e aveva una sola rocca posta su un ripido dirupo a difesa delle abitazioni circostanti e costituiva un baluardo a difesa di Salerno e degli altri possedimenti del principe che avevano inizio da questo luogo.

Da Napoli vi erano due strade che portavano a Sanseverino, una di montagna angusta e impercorribile da un esercito e l’altra più agevole e quasi piana; il luogo sarebbe stato difficile da porre sotto assedio in quanto ben custodito, per cui il principe di Capua, ad evitare un vergognoso insuccesso, decise di ritirarsi dall’impresa.

I baroni che si erano preparati a portare aiuto a Sanseverino decisero per una diversione. La primavera era ormai subentrata all’inverno e i pastori d’Abruzzo si preparavano a scendere con le greggi verso i pascoli delle Puglie. Costoro prima di entrare in Puglia, si radunavano in un posto chiamato “Dogana di Puglia” dove si pagava il dazio che costituiva una delle maggiori entrate fiscali del regno e in tempi passati si erano verificati fatti di sangue per rapinarle. I baroni pensarono quindi di occupare la “Dogana”.

Furono però prevenuti da Ferdinando che intuite le loro intenzioni mandò l’esercito a Foggia, cercando nello stesso tempo di portare dalla sua parte  il duca di Melfi, al quale promise la carica di Gran siniscalco che per la ribellione del marchese Piero Guevara considerava decaduta, ma il duca non accettò.

Giunti i baroni alla “Dogana” sebbene potessero produrre danni disperdendo le greggi e uccidendo i pastori, si trattennero dal farlo per non suscitare il risentimento della popolazione e col sopraggiungere del principe di Capua si dileguarono tornandosene ognuno nel proprio feudo, non prima di aver avuto una piccola scaramuccia con gli aragonesi, durante la quale fu ferito e fatto prigioniero Agostino di Campo Fregoso, condottiero del prefetto della Rovere, poi morto per le ferite riportate.

Tutto questo avveniva nel regno,mentre nel territorio di Roma Roberto Sanseverino aveva radunato un esercito che pareggiava quello del duca, il quale però, pur essendo impetuoso di natura, non ritenne per un giorno di combattimento, mettere a repentaglio il regno: decise quindi di non combattere.

Il duca che si era congiunto con Virginio Orsini, era accampato a poche miglia da Roma  su un poggio da dove non poteva essere rimosso, mentre Roberto rimaneva nei paraggi disturbando la gente e portando scompiglio nelle terre di Virginio Orsini per le scaramucce che si verificavano.

Sebbene il papa lo avesse sollecitato ad attaccare, Roberto non ritenne opportuno di farlo in quanto il duca si trovava in ottima posizione e Roberto sarebbe andato incontro a una enorme perdita: Innocenzo che non  aveva dimestichezza con la guerra, interpretò negativamente questa decisione di Roberto.

Frattanto il re e il duca non mancavano di sollecitare Ludovico il Moro che non si decideva a mandare gli aiuti promessi e poiché Ludovico si giustificava adducendo la pericolosità del tragitto, il duca si offerse  di andargli incontro col suo esercito a metà strada, dal che Ludovico non avendo altre scuse da accampare gli mandò millecinquecento cavalieri al comando di  Marsilio Torelli e Gian Jacopo Trivulzio.

Conosciuta questa notizia, il duca di Calabria levato il campo, attraverso sentieri e dirupi, con lunghe tappe di marcia si recò nel mezzo della Marca e con reciproca gioia si unì ai milanesi.

Roberto, che avrebbe desiderato non fare unire il duca con i milanesi, sospettando che il duca sarebbe andato ad occupare l’Aquila, si diresse verso quella città, con soddisfazione del papa e dei romani che la guerra non si facesse sul loro territorio ma da un’altra parte.

Il duca prima di raggiungere l’Aquila si fermò con l’esercito a Montorio al Vomano a sud di Teramo, non molto distante dall’Aquila, da dove avrebbe potuto controllare l’intera provincia. A Montorio si trovava una torre di difesa in zona collinare presa dal duca che vi si accampò con tutto l’esercito, cercando di convincere i cittadini di  Montorio ad arrendersi. Roberto giunto da Roma, si era accampato a non più di due miglia dal duca.

Questa volta tra i due eserciti, uno al comando di Roberto, di due suoi figli e di  Prospero e Fabrizio Colonna, l’altro del duca con il conte di Pitigliano, Giovan Francesco Sanseverino, Marsilio Torelli e Gian Jacopo Trivulzio, si venne allo scontro.

Il combattimento volgeva alternativamente ora a favore dei papali ora a favore degli aragonesi, con le grida dei vari capitani che incoraggiavano i propri uomini  e quelle degli uomini dei Colonna che scambiavano ingiurie con quelli degli Orsini. Alla fine del giorno Roberto “dubitando di perdere o diffidando di vincere” incominciò a ritirarsi dalla battaglia con tanto disordine che incoraggiò i nemici a incalzarlo fino al suo accampamento. L’oscurità della notte pose fine al combattimento.

Nel milanese, Ludovico Sforza si era trovato a fronteggiare gli svizzeri che per la prima volta erano scesi dai loro monti (spinti dal re Ferdinando), per far razzie, bruciare e depredare, e a dover fronteggiare anche la peste.

Il suo governo era odiato dai milanesi, e come Alfonso perseguitava i baroni, Ludovico si era messo a perseguitare  i suoi vassalli. Aveva infatti avvelenato Pietro dal Verme che era senza figli e aveva molti castelli, per appropriarsene e concederli a Galeazzo Sanseverino suo capitano e genero. Ludovico si era appropriato anche delle assegnazioni fatte a Giovanni e Vitaliano Borromeo.

Egli inoltre non viveva sicuro con i confinanti veneziani e temeva, non a torto, che il papa da un momento all’altro glieli potesse spingere contro. Sospinto da tali necessità, decise di richiamare il contingente, suggerendo a Ferdinando e Alfonso di fare la pace con il papa.

 

LA PACE CON IL PAPA

 

I

l re e il duca accolsero di buon grado la proposta ritenendo che anche le forze fiorentine sarebbero state richiamate per i problemi che Firenze aveva con Genova, per cui sollecitarono lo stesso Ludovico a muoversi presso il papa.

Ludovico mandò a Roma l’arcivescovo di Milano, Guido Antonio Arcimboldo. Contemporaneamente il duca pensò di mettere alle strette il papa in modo che si decidesse a favorire subito la pace.

Levò quindi il campo da Montorio e si recò in territorio romano, mandando Virginio Orsini e il conte di Pitigliano a depredare i contadini. Riunito poi l’esercito, Alfonso si recò sotto le mura di Roma facendo gran rumore con trombe e tamburi e dando l’impressione di voler entrare in città. Egli si accampò poco lontano dalla città e continuava a far percorrere le mura e rumoreggiare. Il papa spaventato chiamò in città Roberto con i suoi soldati che ingaggiavano scaramucce con i soldati del duca.

Giunse nel frattempo l’arcivescovo Arcimboldo che accompagnato dall’ambasciatore di Spagna e da altri oratori, ricevuto solennemente chiese al papa la pace, sollecitata anche dagli altri oratori.

Il papa accondiscese e la pace fu firmata nel successivo mese di agosto (1486), stabilendosi come condizioni che: il re riconosceva la superiorità della Chiesa alla quale avrebbe pagato  il censo e che nessuna azione egli doveva promuovere nei confronti dei cittadini e dei baroni del suo regno che avevano provocato la guerra.

Il re Ferdinando era stato rappresentato da Giovanni Pontano (1429-1503) il celebre umanista, il quale sperando nella riconoscenza di Alfonso mirava ad avere la carica di segretario ricoperta da Antonello Petrucci. Ma il duca, poco versato nelle lettere e ancor più nella riconoscenza anche quando aveva ricevuto dei benefici, non lo favorì, comportandosi, commenta lo storico, “come l’asino che nutrito amorosamente da padrone, per ricompensa gli si rivolta contro con i calci”.

Alla generale soddisfazione per questo accordo, corrispose il malcontento del principe che da comandante di un grosso esercito si ritrovava privato cittadino, e dei baroni che si consideravano abbandonati dal “Breve” papale.

Quanto a costoro, il male che li minacciava li spinse a un’azione di forza e quindi pensarono di assalire il principe di Capua accampato presso Apice. Ma soppesando le forze si resero conto della loro debolezza e decisero di rivolgersi al duca di Melfi.

Il comportamento tenuto dal duca, come abbiamo visto, era stato ambiguo in quanto tra il parteggiare  per il re o per i baroni aveva scelto la neutralità, ma questa era stata solo la sua posizione apparente.

Il duca aveva a Roma un suo uomo di nome Venanzo il quale lo aveva convinto ad entrare nella congiura; il duca alla fine si convinse, ma più che entrare nella congiura si mise segretamente al servizio del papa a condizione che fosse considerato capo dei baroni e gli fosse pagato il mantenimento  di duecento cavalieri e quattrocento fanti, con una provvigione per sé di quattromila ducati l’anno e di mille ducati per il figlio; e che il principe d’Altamura sposasse la figlia, e dopo la vittoria gli fosse concessa la signoria di Manfredonia e di tutta la montagna di Sant’Angelo e altri territori.

L’accordo doveva rimanere segreto fino a quando non fosse stata pagata la somma di diecimila ducati (pari alle due annualità) ...ma la pace subentrava prima del pagamento!

I baroni mandarono il conte di Melito il quale, recatosi di notte dal duca gli ricordò com’egli li avesse aiutati a prendere Barletta; quando il principe di Capua gli aveva chiesto aiuto  a difesa della “Dogana” egli glielo avesse negato; che aveva rifiutato l’ufficio di Gran siniscalco che gli era stato offerto e infine che aveva preso con la forza le terre del contado di Avellino prendendole al principe e al conte di Consa; che egli era a conoscenza di tutta la corrispondenza  tra i baroni, il duca di Lorena e il papa e che aveva partecipato a molte trattative tra costoro e se non avevano raggiunto alcun effetto, aggiungeva il conte, erano venute alla luce e avevano fatto conoscere le sue intenzioni che erano punibili quanto i fatti. E il conte aggiunse:- “Se rispondete dicendo di aver fatto tutto per salvare il vostro stato e che il re ha accettato  le vostre scuse, vi dico che i principi perdonano gli errori quando gli manca il potere di castigarli e sopraffatti da pericoli maggiori la vendetta non la cancellano ma la differiscono. Se venissimo tutti eliminati e voi rimaneste solo, per quanto tempo pensate di poter durare?

A queste ed altre ragioni e all’invito di andare ad assaltare il principe di Capua, il duca di Melfi non volle sentir ragione dicendo che le sue offese non erano tali da poter disperare nel perdono del re.

Il conte rientrò a Napoli dove i baroni avevano pensato di aver trovato una soluzione che “appagò gli animi ma appesantì i loro peccati”!

Essi inviarono presso il legato papale a Benevento a chiedere l’assoluzione da tutti gli accordi (apparenti nda.) che avrebbero fatto con il re in quanto spinti dalla paura e dalla forza e non da libera volontà. Mandarono anche dal papa messer Palmiero, supplicandolo che essi con la pace da lui raggiunta sarebbero stati messi alla mercè del re e gli chiedevano almeno l’aiuto di mantenerli armati, concedendo loro il censo che il re gli doveva corrispondere (quarantamila ducati), considerandoli suoi stipendiati, come d’altronde il re faceva con gli Orsini.

Per questo incarico pensarono di mandare il conte di Melito da Ferdinando che, ricevendolo in forma solenne nella sala del trono, incoronato,  con lo scettro e il pomo in mano, contravvenendo alla sua natura simulatrice aveva apertamente criticato la guerra e gli inganni che i baroni gli avevano mosso contro. Risposta che costituiva un pessimo indizio se a ciò che fu riferito dal Melito, si aggiunse il fatto che il principe di Capua con l’esercito rimaneva accampato ad Apice e che il Gran siniscalco era morto di dolore per la pace fatta dal papa, e che costui, messosi nelle mani del re era stato trattato da ribelle. Per non parlare dell’odio che i baroni avevano suscitato in Alfonso per l’offesa di avergli preferito il fratello don Federigo.    

Il principe di Salerno aveva licenziato una parte dei soldati, indirizzandoli in varie regioni e tenendo per sé un contingente. Egli aveva chiesto a Venezia di ospitarlo, pensando che prima o poi i veneziani avrebbero avuto bisogno di lui, ma essendogli stato opposto un rifiuto, si rifugiò a Ravenna.

Il duca di Calabria invece si diresse verso l’Aquila e lasciata una parte dell’esercito, attraverso le strade dell’Abruzzo e delle Puglie si diresse in Terra di Lavoro facendo sapere ai baroni che non andava a colpire le loro persone o i loro stati ma per far guardare le loro fortezze dai suoi soldati.

I baroni impauriti dalle intenzioni del duca si riunirono a Lacedonia dove lamentando i passati errori convennero di non avere altro scampo che tenersi uniti, fortificare le loro rocche e inviare legati a Roma, Venezia e Francia per chiedere aiuti. Vi fu anche chi suggeriva di chiedere aiuto ai turchi (che avrebbero risposto prontamente come avevano fatto con Otranto, dando però a Bajazet, figlio di Maometto II la possibilità di realizzare il loro sogno di impadronirsi dell’Italia nda).

Sul tragitto di Alfonso tra gli Abruzzi e le Puglie, vi era la baronia del marchese di Bitonto che per ragioni strategiche il duca nel rientrare in Terra di Lavoro, non poteva lasciarsi libera alle spalle.

Il marchese e gli altri baroni avevano deciso di fortificarla ma ritardarono come sempre, a causa dell’inverno, e Alfonso che aveva il merito delle decisioni rapide li anticipò e giuntovi all’improvviso la prese senza che gli venisse opposta alcuna resistenza.

Dopo Bitonto alla stessa maniera occupò Venosa che si trovava da una parte le fortezze del principe di Bisignano e dall’altra le terre del duca di Melfi, il quale, come abbiano visto, pubblicamente era su posizioni di neutralità ma segretamente aveva appoggiato i baroni  con consigli e favori e aveva fatto accordi segreti col papa.

Il duca che pur non sapendo, sospettava, pensò di spingerlo a scoprirsi, ritenendo che se proseguiva sul suo cammino senza assicurarsene l’appoggio egli potesse in ogni momento bloccargli i rifornimenti delle vettovaglie.

Gli mandò Diego Vela per dirgli che non doveva avere nulla da temere per il proprio stato essendo egli al di fuori della mischia: non gli doveva quindi rincrescere di venirlo ad aiutare con i suoi cavalieri, avendo con lui l’obbligo morale di aiutarlo in quanto era solo nella guerra contro tutti i ribelli.

Riunito il consiglio di famiglia decise che il duca non potesse fare a meno di andare in aiuto di Alfonso ma che non dovesse portare con sé il figlio Troiano che doveva rimanere a guardia del loro feudo; e il duca poteva giustificare la sua assenza dicendo che da poco sposato, la sposa non lo lasciava partire.

Alfonso, avuto il padre e i cavalieri, sentendosi ugualmente sicuro si spinse a conquistare le rocche del principe di Bisignano, ma trovò una resistenza maggiore di quella che si aspettava e si dispose a porre fine a quella guerra che gli produceva se non pericolo, solo grave danno.

Resosi infatti conto di non poterle espugnare senza gravi perdite, decise di usare l’arte dell’ingegno anziché quello della forza,che andava anche a suo danno per le rendite  che ricavava dal vassallaggio e che avrebbe perso.

Propose quindi ai principi di Bisignano, Altamura e agli altri, che se avessero consegnato le loro fortezze egli avrebbe loro lasciati godere il resto dei loro feudi e se non si sentivano sicuri di rimanere nel regno, gli dava la possibilità di prendere dimora ovunque volessero.

I principi e baroni, considerarono che il proseguire della guerra avrebbe procurato solo danni alle loro terre e ai loro sudditi, non potendo riporre più nessuna speranza nel duca di Lorena che alle prime avvisaglie della pace si era ritirato dall’impresa.

Anziché ricorrere alla forza, deliberarono di rischiare un accordo, “rassegnandosi all’idea che se un giorno fossero rimasti senza le loro proprietà e senza un capo, ciò era avvenuto perché si erano buttati nell’impresa perché ingannati dalle promesse altrui, piuttosto che per propria volontà”.

Dopo che il duca aveva dato loro la speranza che presto sarebbero rientrati nel possesso delle fortezze, ai baroni non rimase che credere alle sue assicurazioni e accettare le sue condizioni, confermate dalla presenza del re che si era recato a Venosa.

Mettendo nelle mani del re e del duca i loro beni e le loro persone, i baroni erano domati.

Il principe di Salerno, pur avendo accettato le condizioni del duca, fu l’unico ad uscire dal regno, spinto dalla speranza di far riprendere la guerra dal papa e dai francesi.

Egli si recò a Roma, ben accolto dal papa che lo ospitò fino a quando partì per Venezia dove il senato lo spinse a recarsi in Francia per convincere questa volta il re (Carlo VIII) a venire in Italia (v. Articoli: L’Europa verso la fine del medioevo P. IV).

L’Aquila si arrese e il re fece giustiziare i capi della rivolta, compreso l’arcivescovo con due nipoti.

I veneziani, visto che il re aveva sottomesso i baroni e si era appropriato delle loro ricchezze,  si pentirono di non aver aiutato il papa e non aver combattuto il re e il duca, che alla prima occasione si sarebbero rivolti contro di loro aiutati dai loro alleati (Firenze, Milano e Ferrara).

Essi ritennero responsabile, per questo errore di valutazione il loro ambasciatore a Roma, Antonio Loredan al quale tolsero l’incarico e bandirono per dieci anni da Venezia.  Mandarono quindi dal papa Antonio Vinciguerra, per scusarsi di avergli inviato pochi aiuti a causa della pestilenza da cui erano stati afflitti e dalla guerra con Ferrara e che avrebbero fatto di più se il loro ambasciatore li avesse tenuti meglio informati.

Dal momento che il re e il duca non solo lo avevano offeso, ma ora lo volevano anche ingannare e schernire, la repubblica, essendo cristiana, “era disposta a difendere la maestà del pontefice e a mettere a sua disposizione contro il comune nemico le proprie forze”.

Queste profferte, la punizione del Loredan e le nuove offese del re e del duca, convinsero il papa a concludere una nuova lega con i veneziani. A questo scopo essi mandarono due oratori, Bernardo Bembo e Sebastiano Badoer per convincere il papa della serietà delle loro intenzioni e incominciarono a preparare un’armata di terra e di mare, affidando la prima  al principe Sanseverino e la seconda a Francesco Priuli.

I veneziani inoltre, suggerirono al papa, col pretesto di recuperare alla Chiesa la città marchigiana di Osimo, occupata dal proprio concittadino Boccali Guzzone, che si armasse e per non insospettire gli aragonesi invocasse l’aiuto di Ludovico Sforza.

Essi però macchinavano segretamente col papa, contro lo stesso Ludovico, di far assaltare i suoi stati dagli svizzeri, congiunti questa volta ai vallesi dell’arcivescovo di Sion (Vallese), in modo che se non fosse stato sufficiente lo sdegno di Ludovico per la mancanza di lealtà del duca di Calabria, egli fosse distolto dal pericolo delle razzie.

 

IL SOTTILE INGANNO

E LA CARNEFICINA

 

I

l conte di Sarno  si era chiuso con i figli nel suo castello, lussuosamente e meravigliosamente arredato, e di rado si recava dal re. Egli bramava di portare a termine il matrimonio che gli era stato promesso, tra suo figlio e la figlia del duca di Melfi che, come si è detto, era anche nipote del re.

Il re, stimolato nell’arte della simulazione in cui era maestro, fece in modo che il duca di Melfi consentisse al matrimonio, e poiché la fanciulla viveva a corte, egli si disse disposto a festeggiare a corte il matrimonio.

Il conte, accecato da questa sua ambizione non ebbe alcun sospetto della sventura che si stava abbattendo su di lui e condusse i figli a Napoli, e volendo fare festeggiamenti sfarzosi, fece portare tutto ciò che di prezioso in  oro, argento e gemme, aveva raccolto nel corso della sua vita.

Partendo dal suo castello egli probabilmente aveva avuto uno sprazzo di presentimento di ciò che stava per capitargli, raccomandando il feudo ai vassalli e ai soldati, ma i suoi pensieri furono distratti dall’imminente avvenimento del matrimonio.

La festa era stata organizzata nella gran sala di Castel Nuovo (ora “dei baroninda.) con sfarzo e magnificenza ed erano già iniziati i festeggiamenti con musica, canti e danze quando fece il suo ingresso il castellano Pasquale Carlone con l’ordine di procedere agli arresti. Il conte fu  arrestato con le sue donne; lo stesso avvenne per il Segretario, i suoi figli e le loro mogli, venute nei loro abiti più sfarzosi.

Furono arrestati imprigionati anche Anello Arcamone conte di Burello e Giovanni Impoù, il primo come ambasciatore del Segretario e il secondo come legato del re mandato a Salerno, accusati di aver avuto rapporti occulti con i congiurati, in particolare Arcamone, per aver saputo dal pontefice che il Segretario era tra i congiurati e non averlo riferito al re.

Ferdinando fu così ingordo nel togliere agli arrestati i loro beni, che fece condurre nelle sue stalle anche le mule utilizzate dal conte di Sarno per il trasporto dei suoi averi.

Nel castello in cui le porte e i cancelli erano stati chiusi e il ponte sollevato, era tutto un risuonare di urla, pianti, lamenti e un tumultuare di soldati.

La notizia subito sparsa per la città, aveva lasciato attonita la popolazione, impaurita la nobiltà, disperati i baroni in quanto si diceva che il re non solo aveva arrestato quelli che erano nel castello, ma avrebbe fatto arrestare anche gli altri baroni, quasi volesse estinguere il loro nome per averlo tradito. Sicché tutti cercavano di avere notizie e conoscere i particolari.

Al castello, dopo gli arresti, furono aperte le porte, i cancelli e abbassato il ponte e, trattenuti i prigionieri, tutti gli altri furono lasciati andare.

Il re mandò immediatamente i suoi soldati ad occupare il castello di Sarno dove i soldati del conte dapprima opposero resistenza, ma conosciuto l’arresto del padrone e dei figli, il loro capitano Pietro Logoro, consegnò le terre e il castello con tutto quanto di bello e prezioso il conte aveva potuto raccogliere da ogni dove, furono confiscati anche i crediti del conte (di un valore complessivo di 300mila ducati).

I prigionieri furono rinchiusi nelle più lerce prigioni del castello e tenuti nelle ristrettezze e senza concessioni: al  Segretario fu subito sostituito il servo moro che gli portava notizie della moglie e della figlia, con uno che non parlava l’italiano.

Per punire i prigionieri il re non fece ricorso alla forza ma a un regolare processo istruito da una giuria di baroni anziché da un tribunale ordinario, come si faceva anticamente in base a una legge posta dall’imperatore Federico (secondo la quale i baroni dovevano essere giudicati solo dai baroni nda.).

Furono nominati giudici: Jacopo Caracciolo conte di Burgenza, cavaliere e cancelliere del regno (era stato l’unico della famiglia dei Caracciolo a non essersi rivoltato contro il re); Restaino Cantelmo, conte di Popoli e cavaliere; Scipione Pandone, conte di Venafro e cavaliere (il titolo di cavaliere, precisa lo storico, era quello che onorava chi lo aveva, in quanto era concesso per merito o per grazia, mentre successivamente  era diventato un titolo inflazionato in quanto veniva acquistato).

Il Segretario Antonello Petrucci era stato sottoposto a tortura, non tanto per fargli confermare di essere tra i congiurati, quanto perché rivelasse dove aveva nascosto il danaro che non fu trovato all’infuori della somma di ottomila ducati. Petrucci nella sua onestà, aveva investito tutto in superbi edifici e palazzi che aveva donato al demanio dell’ingrato re.

In un primo processo  furono giudicati Antonello Petrucci e i due figli Francesco, conte di Carinola e Giovannatonio, conte di Policastro, accusati di aver partecipato alla congiura e il conte di Sarno Francesco Coppola, accusato di aver saputo della congiura e non averlo riferito al re; contro di loro fu pronunciata la pena capitale.

Il re non fece eseguire le condanne tutte insieme, ma prima  fu eseguita (nov. 1486) quella dei due fratelli Francesco di  Carinola e Giovannantonio di Policastro, il primo preceduto da banditori che annunciavano il delitto commesso fu trascinato per la città da due buoi. La condanna fu eseguita nel mezzo della piazza del mercato della città e gli fu tagliata la gola, poi fatto a pezzi esposti alle principali porte della città a testimonianza della sua infedeltà.

Al conte di Policastro fu tagliata la testa e fu concesso ai domenicani di seppellirlo nella cappella del padre. Costoro non morirono da uomini valorosi perché oltre alle preghiere per aver salva la vita finirono con l’accusarsi l’un l’altro.

Seguirono le condanne del conte di Sarno e del Segretario Antonello Petrucci; alla notizia della prossima esecuzione fatta al conte di Sarno  egli rimase indifferente,  mentre il Segretario dopo aver abbracciato il sacerdote che gliel’aveva portata, si confessò e  cambiati gli abiti sporchi che indossava, si vestì come se dovesse andare alle nozze e non alla morte.

Il re aveva fatto costruire  un palco che dal castello si potesse vedere in tutta la città. Il popolo memore dell’autorità del Segretario assistette alla esecuzione a capo scoperto e Petrucci, adagiato spontaneamente il collo sul ceppo perse la testa (maggio 1487).

Il conte di Sarno prima di morire manifestò il desiderio di poter vedere i suoi figli Marco e Filippo, sebbene la giovane età degli stessi lo sconsigliasse. I due ragazzi furono condotti in sua presenza tremanti e piangenti ed egli dopo aver loro detto nobili parole, avendo con sé una collana e un breviario, diede a Marco la collana e a Filippo il breviario e dopo averli abbracciati  fu giustiziato.

Anello Arcamone e Giovanni Impoù sebbene non processati, furono tenuti i carcere per circa dieci anni.

Particolare fu il caso del conte Onorato Gaetano che si era sempre prodigato, nonostante la sua tarda età, per servire il re con dedizione, sacrificando anche i suoi averi. Egli non aveva partecipato alla congiura, nonostante fosse suocero del principe di Bisignano e  con tutti gli altri congiurati fosse legato da rapporti di parentela, ma alla congiura aveva partecipato suo figlio, il conte di Morcone.

Egli sosteneva che nessuno dei colpevoli meritasse il castigo in quanto in altre occasioni avevano prestato al re il loro aiuto. Avendo alto il senso dell’onore e della dignità non accettò che il re scambiasse il demerito del figlio con i suoi meriti e che il figlio fosse sottratto alla punizione che anche gli altri subivano, non solo, ma aveva fatto giustiziare un soldato che aveva tentato di farlo fuggire.

Anche gli altri baroni seguirono la stessa sorte. Un primo gruppo fu arrestato a Napoli  dove avevano dimora il principe di Altamura Pirro del Balzo, il principe di Bisignano Girolamo Sanseverino, il duca di Nardò Anghilberto del Balzo. i conti di Lauria, di  Melito e di Noia e la contessa Sanseverino.

Tra l’altro, il principe di Altamura  aveva dato in sposa la sua unica figlia, Isabella, erede del patrimonio del principato al figlio di Ferdinando, don Federigo, e a lui che era rimasto vedovo, era stata promessa in sposa una figlia naturale di Ferdinando, Lucrezia. Il principe di Bisignano e il conte di Melito avevano chiesto al re la restituzione delle loro proprietà. A costoro, si aggiunsero  Sigismondo Sanseverino, Berlinghiero Caldora  e  Salvatore Zurlo, e tutti pensavano di essere convocati per avere in restituzione le proprietà e di essere graziati. Furono invece fatti prelevare con le loro mogli e figli dalle loro abitazioni e messi in prigione col pretesto che sarebbero fuggiti e si sarebbero uniti  ai nemici del re per agire contro di lui.

Il re tra l’altro si pentiva di aver lasciato andare il principe di Salerno senza essersi fatto  rilasciare come ostaggi la moglie e il figlio, e teneva costoro sotto controllo perché non fuggissero.

Sollecitato dal duca, il re fece ammazzare tutti i prigionieri, appropriandosi dei loro   beni mobili e immobili. Ferdinando fece uccidere anche Giovanni Antonio Marzano che da trent’anni era tenuto nelle prigioni e non aveva avuto nulla a che vedere con la congiura. L’unica a salvarsi fu la principessa Mandella Caetani, moglie del principe di Bisignano che con i figli era fuggita rifugiandosi a Roma.

Un secondo gruppo di baroni e signori, accusato sotto tortura dai primi, fu arrestato in una spedizione di Alfonso che li portò a Napoli (27.12.1486), con un ingresso trionfale,  preceduti da un negro di nome Malfusso, che con una scopa, per dileggio, spazzava la strada che stavano percorrendo.

Contro di essi fu fatto un secondo processo, terminato in buona parte  con pene capitali eseguite quattro anni dopo, nella notte di Natale del 1492, alcuni trascinati da tori selvaggi per le vie di Napoli, poi fatti sbranare da cani, altri  ammazzerati” (chiusi in sacchi con pietre e gettati in mare).

Ferdinando, ritenendo che questi arresti ed esecuzioni avrebbero suscitato la reazione degli altri monarchi e pensando che si sarebbe dato più fede ai suoi scritti che agli atti    compiuti, fece stampare gli atti del processo che distribuì a mezzo del suo oratore Giuliano Bucino, in tutta Italia, mandandoli all’estero e perfino al re d’Inghilterra (Enrico VII).

“Foschi avvenimenti” conclude lo storico “preannunciavano le sventure che si sarebbero abbattute sul regno: il sole si oscurò; un infinito stuolo di cavallette aveva danneggiato alberi e messi; venti, piogge e terremoti fecero rovinare molti edifici provocando morti; un fulmine che da san Nicolò raggiunse il molo, uccise messer Filippo Palombello con la mula che cavalcava; la Zecca di Napoli cadde dalla parte di s. Agostino.

Da tutti questi segni e prodigi si poté comprendere che la calamità che aveva colpito i baroni non era piaciuta a Dio non meno che agli uomini, perché era stato abbattuto il luogo dove si battono i denari (la Zecca), che sono i nervi delle guerre e i custodi delle paci. E quel reame, come avvenne qualche tempo dopo, finiva per andare in rovina”.

Fu l’arrivo di Carlo VIII a porre fine al regno di Ferdinando e di Alfonso, il quale lasciando alle spalle le sue crudeltà, lo sfrenato libertinaggio e l’avidità, finiva i suoi giorni in un convento mentre il regno dopo non molto tempo finiva come colonia nell’orbita dell’imperatore Carlo V.

 

CONSIDERAZIONI FINALI

 

L

’idea di aprire l’articolo con l’occhiello sulla “storia che insegna”, è maturata durante lo studio e l’elaborazione di questo lavoro nel momento in cui, nel susseguirsi delle pagine, saltavano agli occhi i comportamenti dei vari personaggi che stranamente non sembravano una novità.

Il paragone che emergeva evidente era con l’attuale società italiana, in particolare quello dell’agone politico che a chi è immerso nella realtà del passato, appare come un coacervo di personaggi (i nuovi baroni) che non si danno delle regole di comportamento rette da saldi principi morali, di dignità e di lealtà, che valgano sia per se stessi sia per la società e principalmente siano di esempio per le nuove generazioni.

L’impressione data dalla attuale realtà italiana sembra sia quella in cui ciascun leader non abbia una visione proiettata in avanti (di venti, trenta’anni del politico illuminato), ma limitata al quotidiano e ristretta alla salvaguardia di interessi personalistici  e corporativi (di corporazioni che incancreniscono il Paese che ad ogni accenno sia pur minimo di riforma non importa da chi sia fatta, scendono in piazza per scioperare), e aspettino il momento della prima occasione per poter salire sulla diligenza (*).

E tutto ciò, senza pensare all’interesse generale di un Paese, se non arretrato, invecchiato nelle strutture come nella popolazione (con gli anziani che sono più numerosi  dei giovani ...e costoro senza l’aspirazione di avere una classe politica giovane), un Paese che andrebbe interamente ricostruito, come è avvenuto nell’Italia del dopoguerra (v. Schede: Anni Venti), per essere consegnato alla  modernità.

 

*   *   *

La “congiura” come abbiamo visto nei suoi sviluppi finali, terminata in un bagno di sangue, è stata definita dal Gregorovius “il più orribile dramma del secolo XV”.

I tempi erano quelli in cui la vita umana, fosse la propria o degli altri, non aveva valore e quella fine cruenta non avrebbe potuto avere risvolti diversi per la mancanza di nerbo di personaggi ambigui, pavidi, meschini senza coraggio e inconcludenti, che avevano riposto le speranze di riuscita della congiura negli altri, e miravano solo a conservare o ingrandire i loro feudi, per questo disposti a rivolgersi  senza tanti scrupoli allo straniero o peggio al secolare nemico, i saraceni.

Le continue rivolte che si erano avvicendate nel regno, dai tempi di Federico II erano dettate da puro e semplice spirito di ribellione contro chi rappresentava in quel momento l’ “autorità”, ma solo in funzione dei vantaggi personali che  potevano derivare, e se quei vantaggi non riuscivano ad ottenere (come si era verificato con l’arrivo di Carlo VIII), tutti gli si rivoltavano nuovamente contro.

Quindi ribellione contro l’ autorità”,  fine a se stessa, non necessariamente con il fine di carpirla e detenerla per sé.

Abbiamo visto infatti che il principe Sanseverino, appartenente a una famiglia geneticamente ribelle, non combatteva per conquistare il regno per conto proprio, ma come ben inquadrato da don Federigo, “non partecipava né per l’uno né per l’altro ma pensava a signoreggiare con una guerra continua” e ciò vale anche per gli altri baroni.

 

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Quello spirito di ribellione lo ritroviamo ancora oggi nelle popolazioni che non accettano l’autorità dello Stato, come emerge dalle piccole manifestazioni della vita quotidiana: quando gli automobilisti si rifiutano di mettere la cintura di sicurezza (che serve a salvargli la vita), o rendono le città caotiche per il rifiuto di osservare la segnaletica stradale, o i ragazzi con le moto che rifiutano di mettere il casco senza essere ripresi dai genitori, o quando nelle retate della polizia gli abitanti del quartiere si rivoltano per impedire gli arresti, oppure quando i cittadini scioperano con violenza per opporsi alla costruzione di termo-valorizzatori, che sono l’unico modo per riciclare quei rifiuti che essi stessi producono e da cui sono sommersi, ottenendone dei vantaggi, che se pur soppesati con degli svantaggi, sono di gran lunga superiori).

 

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Per tornare all’argomento, quello che mancava ai baroni  imbelli era decisione e fermezza, mentre essi pensavano solo a barcamenarsi da una parte e dall’altra,  e invece di pensare a combattere per ottenere un buon esito della rivolta (se era ciò che effettivamente desideravano), pensavano all’ultima delle cose alle quali dovevano pensare in quel momento, alla salvezza dell’anima ...andando a chiedere l’assoluzione dal peccato di giurare il falso al legato papale a Benevento!

Il loro peccato era stato invece di ingenuità e superficialità nell’aver pensato fino all’ultimo momento che dopo aver congiurato per una ribellione cruenta, potessero ottenere  la restituzione dei beni e per giunta aver salva la vita con il perdono!

Abbiamo visto come il principe Sanseverino in ben due occasioni era venuto a battaglia con Alfonso e ambedue le volte si era mostrato  indeciso, e peggio, si era mostrato feroce solo contro la popolazione inerme (Mentana); e quando nella seconda Alfonso aveva lasciato di notte il campo defilandosi, mostrando la sua scaltrezza, il principe era rimasto beffato. E se anch’egli fosse stato di carattere deciso, avrebbe dovuto inseguire il duca e avrebbe dovuto regolare una volta per tutte  la rivolta, da vincitore o da sconfitto.

Abbiamo anche visto il conte di Sarno, che per veder coronata la sua sfrenata ambizione di imparentarsi con il re, era andato a buttarsi nelle fauci del lupo!

E costoro erano i maggiori dei congiurati!

A questo modo i baroni erano stati fin dall’origine dei perdenti  e certamente nessuna critica può esser mossa ai comportamenti dell’astuto Ferdinando e del crudele Alfonso che avevano avuto tutti i motivi per salvaguardare il loro regno.

 

*) L’ultimo Governo Berlusconi (2005)  è stato formato da cento elementi tra Ministri e Sottosegretari. Questo record è determinato dal fatto che nelle coalizioni formate da tanti partiti, ognuno di questi chiede la sua quota di potere con ma minaccia di uscirne. Il risultato è quello dei rimpasti, con l’elefantiaco rigonfiamento della compagine governativa da paese sottosviluppato che non sembra proprio risponda ai requisiti  di un grande paese come molti politici, senza troppa convinzione, continuano a considerarlo.

 

FINE