RIVISTA STORICA VIRTUALE
Pescatori di perle e turchesi- Le livre
des Merveilles- Parigi
RACCONTO DEL VIAGGIO IN ORIENTE
DEL VENETO NICCOLO’
E DI COME SI ADDOMESTICANO
GLI ELEFANTI NELL’ISOLA DI MANGI
di
Poggio Bracciolini
Dal Libro IV Della Varietà della Fortuna
a cura di Michele E. Puglia
IL VIAGGIATORE NICCOLO’
R |
itengo, che se ogni tanto mi allontano dal filo conduttore
che mi sono imposto in questo libro, una più moderata e piacevole
varietà di eventi possa mitigare l’argomento dell’asprezza
della fortuna.
Sto per condurre l’animo del lettore su quanto sia
lecito considerare anche l’aiuto non trascurabile della fortuna, che fece
tornare reduce in Italia, sano e salvo, un uomo che era stato sballottato
per venticinque anni dagli estremi confini della terra attraverso tanti mari e
terre! Molte cose, sia dagli antichi scrittori, sia per divulgazione di notizie
a noi pervenute, vengono raccontate intorno agli Indiani, dei quali si ha
diffusamente una certa conoscenza,
essendo stato dimostrato che alcuni
di quei racconti possano essere
credibili.
Un certo Niccolò veneto, che penetrò nelle
cose più intime dell'India, si era recato in udienza dal pontefice
Eugenio (IV) (che allora si trovava per la seconda volta in Firenze), allo
scopo di chiedere perdono, in quanto tornando dalle Indie, dall' Egitto attraverso il mar Rosso, era giunto a
rinnegare la fede, essendovi
stato costretto non tanto per suo timore, quanto per quello della
morte della moglie e dei figli che aveva condotto seco (Il papa gli diede
l’assoluzione e per penitenza gli impose di dettare una relazione su
tutto ciò che aveva visto).
Io desideroso di udire costui (avevo presentito che molte
cose da lui già dette fossero
degne di essere conosciute), anche da parte degli uomini più
dotti, e a casa mia lo interrogai diligentemente su molte cose da lui
viste, che a me parve valesse la pena fossero tramandate alla memoria,
scrivendole.
Niccolò infatti dissertò con finezza e serietà
intorno al viaggio e alle genti così lontane, del paese degli Indiani
e sui loro costumi, dei vari
animali, delle piante e degli
aromi, in che luogo nascono ed era chiaro che non fingesse e raccontasse cose
vere.
Donde era partito giunse là dove leggemmo che nessun
altro in verità vi era giunto, nemmeno da parte dei Persiani. Infatti
andò al di là del Gange e molto più in là
dell'isola Taprobane (Ceylon), dove eccetto due persone, cioè il
comandante della flotta di Alessandro Magno, e quel cittadino romano del
tempo dell'imperatore Tiberio, che furono spinti dalle tempeste, nessun altro
occidentale vi era giunto. Ma
questi racconti ci sono pervenuti attraverso gli scritti.
Giovanetto, dopo aver appreso la lingua araba, da Damasco in
Siria, dove si era recato per mercanteggiare (erano in seicento e facevano
parte di quella che dal volgo viene chiamata carovana), con le sue
mercanzie, attraversò i luoghi deserti dell' Arabia Petrea, quindi
attraverso
BAGDAD
L |
a città sopra l'Eufrate è nobile parte dell'
antica Babilonia, del perimetro di quattordicimila passi, che gli abitanti
chiamano col nuovo nome di Baldacco (Bagdad ora sul Tigri mentre l’antica
Babilonia era sull’Eufrate).
L'Eufrate passa in mezzo alla città . Vi è un unico ponte
(consta di quattordici arcate) con gli archi congiunti saldamente l'uno
all' altro. Molti sono i monumenti della vecchia città ed è
ancora visibile la mole degli edifici. Sul monte vi è una fortezza e
lì si trova anche la reggia. Di qui navigando sul fiume, in venti giorni di navigazione, vide ambedue le rive molto belle e
nobili isole ben coltivate, e dopo otto giorni di viaggio per terra, giunse
alla città di Bàssora e da questa dopo quattro giorni giunse
al Golfo Persico dove il mare fluisce e rifluisce come il nostro Oceano. Navigando per cinque giorni giunse al
porto di Calcum. Quindi ad Ormuz, che è una piccola isola nel
Golfo, lontana dal continente dodicimila passi. Da essa uscì nel
Golfo rivolto verso l'India per cento miglia verso la città di Calazia,
nobile mercato dei Persiani, nella quale aveva dimorato per un certo tempo a imparare
la lingua persiana, di cui poi si giovò, e si vestì degli abiti
di quel paese, facendone uso in ogni suo viaggio.
Presa a nolo una
nave con mercanti persiani e mori che sono rispettosissimi del diritto del
contratto di società, in un mese fu condotto alla nobile
città di Combaia posta
nel secondo golfo dopo gli sbocchi del fiume Indo, nella cui regione si
trova la pietra sardonica. Quivi le mogli vengono bruciate insieme coi
mariti, una o molte per rendere
solenne il funerale. Quella che fu a lui più cara, brucia ponendosi a giacere accanto al marito, col braccio
sotto il suo collo. Le altre, acceso il rogo si buttano sul fuoco. Dell'intero
rito se ne parlerà più avanti.
DELY E PACHAMURIAN
I |
n venti giorni passò attraverso due città
marittime, l'una di nome Pachamuriam, e l'altra Dely; in queste regioni
nasce lo zenzero che viene
chiamato nella loro lingua belledi, gebeli e dely. Sono radici di
alberi dell'altezza di due cubiti, con grandi foglie della grandezza
dell' enula, con dura corteccia come quella delle canne, le quali proteggono il
frutto. Da esse si estrae lo zenzero, che mescolato con la cenere e posto al
sole in tre giorni si secca.
Partito di qui e
allontanandosi dal mare per trecento miglia, giunse ad una grande città
di nome Bisinagar con un perimetro
di sessanta miglia, situata intorno a dei monti scoscesi. Nella valle, un
muro costruito ai piedi del monte protegge la città da quella parte.
Così il suo perimetro sembra più grande. Qui si contano in
novantamila uomini che possono portare le armi. I suoi abitanti prendono
quante mogli loro aggrada e queste vengono bruciate con i mariti. Il loro
re domina su tutti. Questi prende fin dodicimila mogli, delle quali
quattromila lo seguono a piedi ovunque vada, adibite al servizio della sua cucina,
altrettante ornate con più cura vengono trasportate da cavalli. Le
rimanenti, due o tre mila, sono trasportate in lettiga. Sono prese in
matrimonio con il patto che si gettino spontaneamente nel rogo alla morte del
loro padrone per essere bruciate. E ciò è considerato il massimo onore.
La molto nobile città di Pelagonga è sotto lo
stesso re, della circonferenza di diecimila passi, dista da Bisinagar otto
giorni di viaggio, dalla quale di nuovo Niccolò si trasferì in
venti giorni di strada terrestre alla città e al porto marittimo di nome
Pudifetania. E in questo viaggio lasciò due città Odeschiria
e Cenderighisia, nelle quali nasce il saldalo rosso. Quindi Malepur,
città marittima nel secondo golfo posta al di là dell'Indo accolse
Niccolò. Qui vien reso omaggio al corpo di Tommaso onorevolmente sepolto
in una grandissima ed ornatissima basilica da parte di eretici,
chiamati Nestoriani, i quali in un migliaio abitano quella città. Costoro sono
sparsi per tutta l'India come da noi i Giudei. L'intera provincia si
chiama Mahabar.
Al di là di essa c'è la città di Cael,
dove si pescano perle, e dove si trovano alberi da frutto con foglie della
lunghezza di sei cubiti ed altrettanti pressappoco di larghezza, talmente
sottili che si possono tenere ripiegate nel pugno: delle quali fanno uso per
scrivere in luogo della carta, e per proteggere il capo contro la pioggia.
Infatti quando vanno in viaggio, si coprono aprendo una foglia che era stata
ripiegata possono ripararsi in tre o quattro
In mezzo al golfo c'è la nobilissima isola di
Toprabana (Ceylon) del perimetro di
tre mila miglia, nella quale si trovano rubini, zaffiri, granati e
pietre che chiamano occhi di gatto,
in quel luogo ritenute di grande valore. Vi nasce il cinnamomo, e si dice, in grande quantità.
Quell' albero è molto simile ai salici, ma più grossi, i rami si estendono non in alto, ma di
lato; le foglie sono assai simili, sia pure più grandi, alle foglie dell’alloro.
La corteccia dei rami è migliore e più sottile; più grossa
e di inferiore nel gusto a quella del tronco. I suoi frutti sono simili
alle bacche del lauro, dai quali si estrae un olio odoroso, per unguenti di cui
gli Indiani fanno uso per ungersi. Il legno, una volta tolta la corteccia,
viene bruciato.
C'è un lago nell'isola, in mezzo al quale c'è
una città anch'essa del perimetro di tre miglia. L’isola è
dominata dalla casta dei Bramini che sono più sapienti degli altri
uomini. I Bramini filosofeggiano per tutta la vita, tutti interessati all'
astrologia e dediti alla vita più civile.
L’ISOLA DI SUMATRA
N |
iccolò giunse a una insigne città
dell’isola di Sumatra, che nella loro lingua vien chiamata Taprobana,
nella quale città dimorò un anno, (essa ha un perimetro di sei
miglia) l’isola è un emporio nobilissimo.
Lasciata l'isola
navigò per venti giorni spinto da un vento favorevole, lasciando
alla destra l’isola Andramania, che vuol dire isola d’oro, del
perimetro di ottocentomila passi in cui abitano gli antropofagi.
Ad essa, se non spinto dalla tempesta, non approda
nessuno, ma chi vi approda è fatto a pezzi e diviene cibo dei mostruosi
barbari e si racconta che sono
uomini crudeli e di costumi inumani. Sia gli uomini sia le donne hanno
grandissime orecchie sulle quali portano orecchini dorati ornati di gemme.
Si vestono di panni di lino e di tela serica fino al ginocchio. Sposano molte
donne. Hanno case basse, per evitare l'ardore del sole. Son tutti idolatri.
Abbondano di pepe, più grande del solito e più lungo, di canfora,
e di moltissimo oro. L'albero del pepe è simile all' edera. I suoi grani
sono verdi e della forma del grano del ginepro, che, spruzzato con un
pò di cenere, viene tostato al sole. Hanno un frutto verde di nome duriano della grandezza del cocomero,
nel quale stanno cinque frutti come melarance oblunghe di vari sapori,
simile al burro coagulato.
In quella parte dell'isola che chiamano Batech abitano antropofagi,
che fanno continuamente guerra coi vicini. Tengono come tesori le teste
tagliate ai nemici. Dopo aver mangiato la carne ripongono i teschi e di essi fanno uso
in luogo di monete e se comprano qualcosa, pagano con una o più di esse,
secondo la stima. Chi ha molte teste in casa, viene stimato più ricco.
Lasciata Taprobane dopo sedici giorni, fu spinto da una
tempesta verso la città di Ternassarieri, posta sopra l'imboccatura di
un fiume dello stesso nome. Quella
regione abbonda di elefanti e di verzino. Di qui dopo molti viaggi
per terra e per mare, entrato all'imbocco del Gange, seguendo il fiume in
quindici giorni fu portato alla città di Cernovem, importante e ricca. La
larghezza del fiume è tale che chi vi naviga in mezzo non vede da nessun
lato la terra; è di quindici miglia in qualche punto, si dice. Sulle
rive ci sono canne di un'altezza stupefacente, e di una grossezza che un
pescatore riesce appena a toccarne i lembi. Da esse si fanno i battelli da
pesca e con la corteccia che è più spesso della palma si fanno
gli scafi adatti all’ uso sul fiume. Tra nodo e nodo c'è una
distanza uguale alla statura di un uomo. Il fiume nutre
coccodrilli e pesci di ogni genere
a noi ignoti. Esso è affiancato da una parte e dall' altra da giardini e
orti e da ville bellissime. In essi nascono le muse il cui frutto
è più dolce del miele, simile al fico e le noci da noi chiamate
indiche,oltre a varietà di
vari i frutti.
Da quella città risalendo per tre mesi il Gange,
lasciate dietro a sé quattro città famosissime discese a
Marahazia potentissima città, dove vi sono alberi di aloe e grande
quantità di oro e argento, di gemme e anche di perle. Lasciata questa si
diresse verso i monti posti ad oriente dove si trovano pietre dette carbonchi. Con un viaggio di tredici giorni dapprima giunse a
Chandranagor, quindi ritornò
a Putifetamina, successivamente per mare dopo un mese intero giunse allo
sbocco del fiume Kuladan e
navigando all’insù giunse in sei giorni nella città dello
stesso nome del fiume.
IL
GANGE
A |
ttraversando monti e deserti per diciassette giorni, quindi
dopo quindici giorni, attraversando
pianure entrò
nel maggior fiume Gange chiamato dagli abitanti Ava. Allora in un mese di navigazione
risalendo il fiume viene portato nella città più nobile di tutte
che si chiamata Ava, di
quindicimila passi di perimetro. In questa sola città trovò
moltissimi locali dove, lo scrivo per divertimento, (gli uomini) si danno ai
piaceri dove, come egli afferma, vengono anche donne sole.
Qui vengono vendute quelle cose che noi chiamiamo sonagli,
così detti, come credo, dal suono: aurei, argentei e di bronzo, in
forma di piccola nocciola. Lì si reca l’uomo maturo per i rapporti
o prima del matrimonio, altrimenti viene respinto. Tagliata e tolta un pò di pelle del membro virile,
questi sonagli vengono introdotti tra la pelle e la carne fino a dodici e
più, secondo come piace in vari punti. Quindi cucita la pelle, entro
pochi giorni (la ferita rimargina. Fanno ciò per soddisfare la
libidine delle donne, in quanto il nodo col gonfiore del membro arreca ad esse sommo piacere I membri di
molti mentre camminano, ripercossi dalle cosce, risuonano in modo che
vengano sentiti. A ciò Niccolò, molto spesso invitato dalle
donne, che lo deridevano per la piccolezza del membro (in testo: piccolezza di
Priapo), non volle che il suo dolore fosse motivo di godimento per gli altri.
A MANGI SI ADDOMESTICANO
GLI ELEFANTI
Q |
uesta è la provincia che gli abitanti chiamano
Mangi. È piena di elefanti, di cui il loro re in verità ne nutre
diecimila. Di essi fanno uso in guerra con sopra il dorso legate delle piccole
torrette. Da sopra otto o dieci uomini combattono con giavellotti e con archi e
con quelle che noi chiamiamo balestre. Niccolò racconta poi che gli
elefanti vengono presi normalmente in questo modo, col quale sembra concordare
con Plinio. Le femmine addomesticate, nel periodo degli amori, vengono
lasciate libere in modo che vengono avvicinate dagli elefanti selvatici.
L'elefante solo, quindi, tende verso la elefantessa solitaria, finché si
abituano a stare insieme. Allora le femmine pascolando vengono condotte a poco
a poco in un luogo chiuso da mura con due grandi porte aperte: una per
!'ingresso, l'altra per l'uscita. La femmina, entrata dalla prima, abbandonato
il maschio, esce dalla successiva. Questa e l’altra vengono poi
chiuse dall’esterno quando il maschio è entrato. Allora, da fori
predisposti nel muro, circa mille uomini entrano con grossi lacci. Quindi
qualcuno di loro si pone davanti alla bestia rinchiusa che infuriata per azzannarlo, si volge a
caricarlo. Gli altri uomini
inseguendolo, lanciano i lacci, mentre l’elefante alza i piedi nella corsa,
e preso ai piedi posteriori, lo legano a un grosso tronco fissato a terra, al
quale legano le corde. Quindi dopo aver lasciato la belva a digiuno di tre
o quattro giorni, dopo questo periodo gli somministrano un pò
d’erba ogni giorno, in dieci giorni, lo rendono mansueto come gli altri.
Altrove, racconta Niccolò, gli elefanti vengono
condotti in una piccola valle chiusa da tutte le parti, nel quale luogo fatte
uscire le femmine, domano gli elefanti rinchiusi con la fame. Dopo quattro
giorni le bestie vengono portate in luoghi chiusi, a ciò predisposti,
dove vengono rese mansuete. Quindi vengono usate. Essi sono acquistati dai re.
Vengono nutriti con riso e burro ed altre erbe. Quelli selvatici si
nutrono anche di piante ed erbe. Poi vengono governati da una guida con un
bastone di ferro ripiegato nella parte superiore. L’animale possiede
tanta perizia che con la pianta del piede portata avanti spesso prende i
giavellotti lanciati per difendere coloro che gli siedono in groppa. Il re
viene condotto in giro da un elefante bianco dal quale pende dal collo una
catena aurea ornata di gemme fino ai piedi.
Gli uomini si accontentano di una sola moglie. Gli
uomini e le donne con uno stiletto di ferro usato di punta si dipingono i
corpi con vari colori e con figure in modo che esse vi rimangano per
sempre. Tutti adorano idoli. Alzandosi poi al mattino pregano con le mani
giunte rivolti verso oriente: “Dio trino e la sua legge ci protegge”
.
In questa terra vi è un genere di frutti simile alle
arance, succose e dolci. Vi è anche un albero di nome tal con foglie grandissime, sulle quali
essi scrivono (infatti manca in tutta l’India l'uso del papiro), eccetto
nella città di Cambaita.
Esso produce un frutto simile ad una rapa gigantesca con la buccia
e contiene un succo coagulato dal gusto dolcissimo, ma la sua bontà
è inferiore alla buccia.
Quella regione è infestata di serpenti pericolosi,
della grossezza di un uomo e senza piedi, lunghi sei cubiti. Gli abitanti
considerano i serpenti abbrustoliti uno dei cibi migliori. Oltre a
ciò vi sono delle formiche rosse della grandezza di un piccolo
gambero,che mangiano condite con pepe, considerandole cosa squisita.
Inoltre c'è un animale con la testa simile al suino,
con la coda di bue e con un unico corno in fronte simile all'unicorno, ma
più corto, cosicché si protende di un cubito, del colore e
della grandezza di un elefante, coi quali è in continuo
combattimento. L'osso del corno guarisce dal veleno, e per questo è
tenuto in grande considerazione.
Nei suoi confini verso il Cataio si trovano buoi neri e
bianchi, e questi ultimi sono di maggior valore. Hanno crini e coda equina, ma
sono più pelosi e piedi sempre protesi in avanti. I peli della coda sono
sottilissimi e come le piume degli uccelli sono valutati a peso d'argento.
Con essi poi fanno ventagli per il culto degli dei e ad uso dei re. Oppure li
collocano sopra la groppa dei cavalli in un cimiero d'oro o d'argento,
affinché coprano i posteriori del cavallo, o li pongono sotto il
mento affinché decorino il petto, che è il particolare ornamento. I cavalieri li appendono
sulla sommità delle lance portandole con sé come segno di grande
nobiltà.
IL CATAIO E LA
CITTA’ DI CAMBALU
A |
l di là di Mangi
c'è una provincia, la migliore di tutte, di nome Cataio, in cui
signoreggia colui che è Gran Cane (così è chiamato
nella loro lingua l'imperatore). La sua città regale è larga
trentadue miglia in quadrato. È Cambalu (Pechino) nel cui mezzo
c'è una cittadella munitissima e decoratissima, in cui si trova il
palazzo del re. Nei singoli angoli della città c'è una
roccaforte, che serve da arsenale, rotonda, con un perimetro di quattro miglia,
in ognuna delle quali vi sono conservate armi di ogni genere e strumenti
di guerra adatti alla conquista di città. Verso qualsivoglia di esse
dalla cittadella si protende attraverso la città un muro in volta
affinché se qualche tumulto è sollevato contro il re, degli
possa trovar ricovero. Vicino a questa vi è la città di nome
Quinsai distante quindici giorni di viaggio, costruita dall'imperatore. Essa ha
un perimetro di trenta miglia, ed è la più popolosa di
tutte.
Egli afferma che in ambedue le città vi sono case,
palazzi ed ogni altro tipo di costruzione, in tutto simili a quelle che
esistono in Italia. Gli uomini sono morigerati, urbani e più ricchi
degli altri.
Da Ava attraverso il fiume, giunse al mare dove
c’è un grande porto nominato Zaiton, dopo aver viaggiato per
diciassette giorni. Imbarcato nel fiume, in dieci giorni giunse alla
città popolatissima del perimetro di dodicimila passi, che gli abitanti
chiamano Pancovia (urbs Sericae, città della seta: Bankok), dove si
fermò per quattro mesi. Solo in questo luogo vi sono viti e se ne
trovano poche, essendovi in tutta l’India carenza di viti e di vino,
e dall’uva non ricavano vino. Hanno pini, mele cotogne, castagne, meloni,
ma piccoli e verdi, alberi di sandalo bianco, e di canfora. Questa
però è nascosta nell' albero. Esso viene inciso, se prima non
viene fatto un sacrificio alle loro divinità, sparisce; e non sempre
fuoriesce.
GIAVA E BORNEO
V |
i sono due isole nell'India interiore e quasi agli estremi
confini della terra. Ambedue si chiamano Giava (Giava e Borneo), delle quali
l'una tre e l'altra due mila miglia si estende verso Oriente. Ma la maggiore e
la minore si distinguono dal nome. Alle quali giunse attraversando il mare.
Sono lontane dal continente un mese di navigazione, e tra loro distano
cento miglia. Nelle quali con la moglie ed i figli (li ebbe compagni non di
ogni suo viaggio), rimase nove
mesi.
Le abitano gli uomini più inumani di tutti e i
più crudeli. Essi mangiano topi, cani, gatti e qualunque altro
animale tra i più sporchi. Superano tutti gli altri mortali in
crudeltà. Uccidono gli uomini per gioco, e a nessuno vien data la
punizione. I debitori vengono dati in servitù ai creditori. Alcuni
preferendo morire piuttosto che servire, afferrata la spada, trafiggono i
più deboli che incontrano fino a quando non vengono essi stessi uccisi
da qualcuno più forte che incontrano, il quale poi è fatto
chiamare in giudizio dal creditore del morto, che chiede di essere soddisfatto
del proprio credito.
Se qualcuno compera una spada nuova, o un pugnale, provano
la punta del ferro nel corpo di un passante, e la morte di quell'uomo non
è di danno a nessuno. I passanti esaminano la ferita e se usò il
pugnale correttamente, lodano la perizia dell’ assassino nel colpire.
Prendono quante
mogli desiderano per soddisfare la loro libidine. Presso di loro è assai
frequente il gioco dei galli da combattimento. Ne portano diversi per il
combattimento, ciascuno affermando che il proprio vincerà; e per la
vittoria dell'uno o dell' altro anche gli astanti mettono del denaro per il
gallo di cui auspicano la vittoria, poi prendono il denaro.
Nella più grande Giava si trova un. uccello
particolare, senza piedi, simile al colombo, di piume sottili, con coda oblunga,
sempre fermo sugli alberi, non ne mangiano la carne, ma la pelle e la coda
sono considerate preziose, e lo usano come ornamento della testa.
Al di là
di esse, con un viaggio di quindici
giorni si trovano due isole, di cui una è chiamata Sandai (Sonda), nella
quale si trovano noci moscate e macis
e l'altra di nome Badam (Batavia) nella quale si trova soltanto il
garofano; di lì si dirigono nell’isola di Giava.
A Bandan si
trovano tre specie di pappagalli: con le penne rosse e il becco arancione; multicolori, che chiamano nori, questo è splendente, ambedue
della grandezza di colombi; altri sembrano simili a galline bianche. Questi
sono i cacatua. Così son chiamati i più grandi. Superano gli altri
nella parlata degli uomini, che imitano in modo stupefacente, così anche rispondendo a chi
li interroga, imitandoli.
Gli uomini che abitano le due isole sono neri di colore. Al
di là di esse il mare non è accessibile ed i naviganti sono
tenuti lontani dal vento.
Lasciate le isole di Giava e prese le cose utili per il
viaggio, si diresse ad occidente verso una città marittima, che si
chiama Campaa, ricca di legno di
aloe, di canfora e di oro. E in quello stesso viaggio, in cui aveva impiegato
un mese, in altrettanti giorni giunse alla nobile città di Coloum,
il cui perimetro è di
dodicimila passi di ampiezza. In questa provincia che chiamano
Malabar, si raccoglie lo zenzero che viene detto colobi, il pepe, il verzino, la cannella, che vien chiamata grossa (Crasse). Vi sono inoltre serpenti senza piedi, lunghi sei braccia,
animali spaventosi , ma innocui se non vengono irritati: si dilettano alla
vista dei bambini e da essa sono attratti alla presenza degli uomini. Quando
giacciono, la loro testa appare simile alla testa dell' anguilla, quando si
ergono dilatano il capo, e nella loro parte posteriore appare
l’aspetto di un uomo e come se fosse dipinta con vari colori. Vengono presi da incantatori, di cui
presso di loro è frequente l’uso, e senza nocumento vengono
portati in giro per dare spettacolo.
C’è nella stessa regione e nella vicina
provincia Susinaria (Cocin), un altro genere di serpenti con la coda lunga
quattro piedi, pari a quella di grandi cani, che presi a caccia, costituiscono
ottimo cibo, e sono innocui come presso di noi le daine e le capre. Usano la
loro pelle multicolore per varie guaine, bellissime a vedersi.
Quella regione produce altri serpenti dall' aspetto
meraviglioso. Essi sono lunghi un cubito, alati come pipistrelli, col
corpo della lunghezza di sette teste disposte l'una dopo l'altra; abitano sugli
alberi, hanno un volo velocissimo, velenosi in confronto agli altri, al
punto che col solo alito possono uccidere gli uomini. Vi sono poi dei gatti
volanti, i quali hanno una membrana che va dai piedi anteriori a quelli
posteriori ed è fissata al corpo, che si contrae. Una volta stesi i
piedi e battendo le ali volano di albero in albero. Braccati dai
cacciatori, vengono presi in seguito alla stanchezza per il continuo volare,
quando cadono a terra.
Si trova e con frequenza un albero il cui tronco porta un
frutto simile a quello del pino, ma così grande che a mala pena si
può togliere, il quale ha una buccia verde e dura al punto che cede
solo ad un dito che prema.
Internamente ci sono duecentocinquanta o trecento frutti dal sapore
delizioso come quello dei fichi.
Sono divisi fra loro per mezzo di membrane. Il nocciolo che
sta dentro è della consistenza e del sapore della castagna,
ventoso, in modo che quando vien cotto sulla brace, se non viene un pò
inciso, salta fuori dal fuoco scoppiando . La buccia esterna vien data da
mangiare ai buoi. Sotto terra nelle radici degli alberi vengono trovati
talvolta dei frutti, i quali per sapore sono superiori agli altri, tanto che
è uso che siano portati ai re e ai tiranni; all'interno il frutto manca del
nocciolo.
L'albero è simile a un grande fico, con foglie simili
a quelle frastagliate della palma. Il legno è uguale al bosso,
e come valore è utilizzato
in molte cose. Il nome dell'albero è cachi. C'è un altro frutto di nome amba, verdissimo, assai simile alla noce, ma maggiore della pesca,
dalla buccia amara, internamente ha il sapore del miele. Prima della maturazione lo addolciscono
nell' acqua come noi siamo soliti fare con le olive verdi.
Lasciata Colena, con un viaggio di tre giorni, giunse nella
città di Cocin del perimetro di cinquemila passi, posta sullo sbocco del
fiume dal quale prende il nome. Navigando per parecchio tempo sul
fiume notò nottetempo sulla riva esservi frequenti fuochi,
ritenendo che si trattasse di pescatori, indagò che cosa essi facessero
per notti intere. Ma quelli che erano nella nave ridendo dissero: “icepe icepe”. Questi sono
esseri in forma umana e si possono chiamare sia pesci sia mostri, che nottetempo
uscendo dall' acqua, raccolta della
legna e acceso il fuoco sfregando le pietre, bruciano la legna vicino
all’acqua, quindi prendono i pesci che accorrono in gran numero attratti
dal risplendere del fuoco; questi durante il giorno sono nascosti
nell’acqua. E gli dissero che
di questi esseri se ne erano presi alcune volte e sia maschi che femmine, per
nulla differiscono dalla forma umana.
In questa regione si colgono gli stessi frutti che in
Coloen (Quilon). Colonguria
è posta allo sbocco di un altro fiume, e poi Paluria, allora Meliancota, il cui nome
presso di loro significa grande città, estesa per otto miglia, lo
accolsero. Successivamente si diresse verso Calcutta, città marittima
del perimetro di ottomila passi, la più nobile dell'intera India,
emporio fertile di pepe, lacca, dello zenzero più grosso della cannella
(cinnamomo), kebuli e gedoaria. Le donne, in questa sola regione prendono
quanti mariti desiderano, dieci o più, per soddisfare il loro piacere.
Gli uomini dividono tra sé il tempo del godimento della donna. Chi va a
trovare la donna (ciascuno ha una casa per sé), ha un proprio segno
diverso dagli altri, che mette alla porta perché se sopraggiunge un
altro, se ne vada. I figli sono
dati agli uomini secondo l'arbitrio della moglie; essi non succedono per
eredità ai padri, ma i nipoti.
LA
CITTA’ DI CAMBAIA
S |
uccessivamente, in quindici giorni si trasferì a
Cambaia, città vicino al
mare, di un perimetro di dodici miglia, verso occidente, ricca di
spiconardo, lacca, indaco, lane e
di moltissima seta. Lì vi è un genere di sacerdoti chiamati bachali, i quali si accontentano di
una sola moglie, che secondo la legge viene bruciata assieme al marito.
Essi non si nutrono di nessun essere vivente, ma mangiano
frutta, riso, latte e legumi. Vi si trovano bovi selvatici in gran numero, con
il crine come cavalli, ma con i peli più lunghi, con le corna talmente
tese in avanti che quando piegano il capo toccano la coda con le corna. Per la
loro grandezza se ne servono come
vasi per bere durante il viaggio. Tornando a Calcutta si recò
nell'isola di nome Secutera (Socotra), (essa volge ad Ooccidente, distante dal
continente cento miglia) vi giunse dopo due mesi. Essa produce aloe, succutrino (succo citrino) e si estende
per un circuito di seicentomila passi, la maggior parte coltivata dai
Nestoriani cristiani.
Dalla parte opposta, non molto più in là di
cinquemila passi, si trovano due
isole tra loro distanti cento
miglia, delle quali l’una (Darsa) è abitata da uomini,
l’altra (Samha) da donne. Alternativamente ora gli uomini si recano dalle donne, ora le
donne dagli uomini. E prima che passino sei mesi ciascuno torna alla
propria isola: se trasgrediscono al periodo e rimangono di più, quasi
che la scadenza sia fatale, muoiono all'istante.
Da qui, per mare si recò alla città di Adem,
opulenta e ricca di bellissimi edifici. Quindi in sette giorni si
trasferì in Etiopia, nel porto chiamato Barbora. Poi, in un mese di
navigazione, nel porto di Ziden (Gidda) nel mar Rosso, di seguito, per la
difficoltà del viaggio, in due mesi discese in prossimità del
monte Sinai. Attraversato il deserto, giunse alla città egiziana di
Carras (Cairo) con la moglie e
quattro figli e altrettanti servi, qui la moglie morì di peste, con due
figli e due servi. Con due figli e due servi giunse nella sua patria, Venezia,
dopo aver attraversato terre e mari con tanti travagli e pericoli.
Alla richiesta sui riti e sui costumi degli Indiani, egli
rispondeva che l’India è divisa in tre parti: una dai Persiani al
fiume Indo;. la seconda da
questo al Gange; la terza che va oltre è per ricchezza, civiltà,
lusso, eccelle di gran lunga sulle altre e per consuetudine civile, uguale a
noi. Infatti hanno case massimamente sontuose e abitazioni pulitissime e
suppellettili eleganti e indulgono a una vita raffinata lontani da ogni barbarie e
crudeltà; uomini umanissimi e mercanti ricchissimi a tal punto che
qualcuno ha un traffico di quaranta navi proprie.,ciascuna ciascuna delle quali
stimata cinquecentomila aurei.
Questi soltanto, come si usa da noi, quando mangiano fanno
uso di mense e di drappi e di vasi d'argento in gran numero, mentre gli altri
Indiani mangiano su tappeti stesi per terra. Presso gli Indiani mancano le viti
e l’uso del vino. Dal riso sminuzzato e mescolato all' acqua e con
l'aggiunta di colore rosso e col succo fornito dagli alberi,
confezionano una bevanda non diversa dal vino.
SUMATRA
I |
n Taprobane (Sumatra) incidono i rami di un albero, e si
dice che dall’alto scenda un succo dal gusto gradevole usato normalmente
come bevanda.
C'è un lago fra l'Indo e il Gange, la cui acqua dal
sapore meraviglioso, viene bevuta con somma voluttà. Per berla vi
giungono da tutta la regione, anche quelli che vivono assai lontano. Essendo
organizzati con corrieri a cavallo, in pochi giorni ricevono acqua fresca;
mancano per tutti frumento e pane.
Ma vivono di farina, riso, carni,
latte, formaggio; abbondano di galline, capponi, pernici, fagiani e di
altri volatili selvatici. Praticano l’uccellagione e la caccia. Non
lasciano crescere la barba, ma una lunga chioma. Alcuni portano i capelli
sparsi sulle spalle, li legano dietro la nuca con una corda serica, e in quel
modo partono per la guerra. Si servono di barbieri, come noi. Gli uomini sono
per statura e brevità di vita
uguali a noi. Dormono su letti ornati d'oro su cui è posto un
materasso di bambagia.
L'uso delle vesti varia secondo le regioni. Perlopiù
tutti scarseggiano dell’uso della lana, abbondano di lino e seta e con
queste confezionano le vesti, ma quasi tutti, uomini e donne, vestono di
lino fino alle ginocchia; in luogo di cosciali succinti indossano un'unica
veste di lino o serica, gli uomini
sino agli stinchi, le donne fino ai talloni. L’ardore del caldo impedisce
che abbiano più vesti e
così tengono lontano la calura. Hanno legacci di porpora e d’oro, come
vediamo nelle statue antiche. Alcune donne in certi luoghi hanno calzari di
leggero cuoio segnati con oro e seta. Portano cerchi d'oro alle braccia,
intorno alle mani, al collo e alle gambe del peso di tre libbre, pieni di
gemme, come ornamento.
Prostitute, per chi le cerca, si trovano ovunque sparse per la città nelle
proprie dimore, e allettano gli
uomini con profumi, unguenti, lusinghe, con il loro aspetto e per
l’età, tutti gli Indiani sono propensi al piacere, e quindi l'uso
dei maschi è sconosciuto (citazione inesatta essendo al contrario
l’omosessualità piuttosto diffusa).
L'ornamento del capo è di vario tipo, e per la
maggior parte lo coprono con un fazzolettino intessuto d'oro dopo aver
legato i capelli con un coarda di seta: alcuni luoghi torcono i capelli a forma
di piramide con in mezzo uno stilo d’oro, da cui pende un cordoncino
d’oro; drappi d’oro di vario colore pendono intorno ai
capelli. Alcune aggiungono capelli
altrui, anch’essi neri (infatti presso di loro è il colore
più diffuso); altre ornano il capo con foglie di alberi colorate, ma non
colorano il viso, come invece fanno quelle che abitano nel Cataio.
Nell’'India interna, agli uomini è permessa una sola moglie. La
maggior parte del resto si diletta con abbondanza di mogli, che le prendono per
libidine, eccettuati quelli che, Cristiani, trassero origine dall'eretico Nestorio, i quali sparsi in tutta l'India
trascorrono la vita con un'unica moglie.
Il culto delle tombe non è lo stesso presso tutti.
L'India anteriore eccelle su tutti nella cura e nella magnificenza della
sepoltura. Scavano e adornano antri sotto terra chiusi da un muro. Dentro
mettono il morto con vesti preziose in un letto bellissimo con sostegni
aurei; inoltre lo dispongono con anelli, in modo che il morto possa usarli
presso gli inferi. Chiudono l’ingresso della spelonca con un muro robusto
in modo che non si possa entrare; al di sopra vi pongono dei tetti convessi con
grande spesa e rivestimenti che tengano lontano l'acqua dal sepolcro
perché possa durare
più a lungo.
Nell'India di
mezzo i morti vengono bruciati, e con essi per lo più le mogli
vive; nello stesso rogo con gli
uomini vengono sacrificate una o molte, secondo gli accordi di matrimonio. La
prima, e quella che è la preferita viene bruciata secondo legge.
Poi per rendere solenne il funerale vengono prese anche le altre mogli,
ciascuna secondo gli accordi, e ciò per loro non costituisce poco
onore. Il defunto vien posto sul catafalco con i suoi migliori vestiti. Una
grande pira di legni odoriferi a forma di piramide, è costruita sopra di
lui. Acceso il fuoco, la moglie,
con la più elegante acconciatura fra trombe, flauti e canti, essa stessa
danzante secondo l’uso, con solerzia gira intorno al rogo con un grande
seguito. Assiste frattanto anche il sacerdote (questi si chiamano bacali) posto su un palco. il
quale promette in modo suadente che
il disprezzo della vita e della morte procureranno moltissimi piaceri con
l’uomo, grande opulenza, moltissimi ornamenti; dopo aver girato
più volte intorno al fuoco, essa si ferma vicino al palco e togliendosi
secondo l’uso, le vesti di loto
e indossata la tunica di bianca mussolina, all’esortazione, si getta sul fuoco.
Molo spesso avviene che le più paurose alla vista
delle altre, riluttanti e inorridite, rimangono come stordite, ma vengono dagli astanti con
forza gettate nel rogo. Dopo ciò raccolte le ceneri, le
pongono entro vasi e provvedono al sepolcro.
Piangono i morti in vari modi. Gli Indiani dell'interno si
coprono fino alla testa. Alcuni
innalzano alberi nelle vie con carte dipinte e traforate
fluenti dalla sommità fino a terra, suonando per tre giorni certi
strumenti di bronzo. Danno cibi ai poveri in onore a Dio. Altri congiunti della
stessa famiglia mantengono il lutto anche per due giorni e tutti i vicini del
defunto rimangono stanno in casa, dove nulla si cuoce. Ma i cibi vengono
forniti dall’esterno.
Gli amici (di defunti) in segno di lutto portano in bocca una foglia amara.
Coloro ai quali siano morti il padre o la madre, non cambiano veste
per un anno intero, e non prendono cibo se non una sola volta al giorno, e
oltre ai capelli e alla barba non curano nemmeno le unghie .Quelle che piangono
i morti (e sono molte) stanno intorno al cadavere nude fino all' ombelico e si
percuotono le mammelle e il petto gridando lamentosamente heu heu; una recita cantando le lodi del
morto, e le altre percuotendosi il petto, rispondono. Le ceneri della
maggior parte delle donne dei principi vengono poste in vasi d’oro e
d’argento, e, su loro ordine vengono gettate in un lago che dicono
consacrato agli dei, attraverso il quale, sostengono, si apra
l’aldilà.
I loro sacerdoti detti bacali
si astengono da ogni animale,
particolarmente dal bue, in quanto animale che ha forza, in grado di essere
utile agli uomini più di qualunque altro. Infatti lo usano anche
come animale da soma.
Ritengono sia cosa nefasta ucciderlo o mangiarlo. Si nutrono
di riso, erbe, frutta, legumi, e hanno un'unica moglie, la quale col marito,
quando muore, viene bruciata giacente accanto a lui, col braccio posto sotto
il suo collo così
sopportando il fuoco senza mostrare nessun segno di dolore.
I BRAMANI
P |
er tutta l'India
vi è quel tipo di pensatori che sono i bramani, i quali si
dedicano alla astronomia e alla predizione del futuro che fanno con molta cura
e sono dediti a costumi di vita irreprensibile.
Niccolò raccontò di aver visto fra costoro un uomo di trecento
anni; e ciò presso di loro è cosa straordinaria,
cosicché per la novità della cosa, ovunque egli andasse i
fanciulli lo seguivano per rispetto. Tra
molti è diffusa
quella che chiamano geomanzia
in cui sono esperti, che consiste nel predire il futuro come fosse il presente
e si affidano alle formule magiche, in grado di provocare tempeste, come
hanno il potere di calmarle. Per questo motivo molti mangiano di nascosto per
non essere disturbati da occhi
indiscreti.
Con serietà Nicolò riferì che essendo a
capo di un’unica nave,
trovandosi in mezzo al mare da sette giorni, il vento era cessato, e i
marinai temendo che la bonaccia
durasse più a lungo, apparecchiata la mensa in prossimità
dell’albero e ballando
intorno, facendo vari sacrifici, avevano invocato ripetutamente il nome del dio
Mutia; nel frattempo un arabo, preso dal demone, danzando in modo
straordinario, incominciò a girare per tutta la nave come un pazzo.
Dopo essersi avvicinato alla mensa e postosi sopra di essa, divorando
alcuni carboni, chiese di bere il sangue di un gallo, che dopo aver strozzato e
portato alla bocca, bruciò. Nel frattempo, chiedeva che cosa volessero
da lui: gli fu chiesto, il vento, e quello promise che dopo il terzo giorno
avrebbe dato il vento favorevole dal quale sarebbero stati condotti in
porto; e mostrando come faceva a dare il vento, mise le mani dietro la schiena,
avvertendo che i venti avrebbero cominciato a soffiare con moderazione. Poco
dopo mezzo morto, cadde a terra. Dimenticò tutto ciò che aveva
detto o fatto. Come aveva predetto, essendosi alzato il vento giunsero in porto
pochi giorni dopo.
Gli Indiani navigano vedendo le stelle dell' altro polo; per
cui raramente vedono la costellazione dell'Orsa. Son privi dell'uso della
bussola e non conoscono l’elevazione e l' abbassamento del corso del
polo. Dei luoghi misurano la distanza e con questa misura sanno dove si
trovano.
Costruiscono navi, alcune di gran lunga maggiori delle nostre,
con cinque vele, ed altrettanti alberi. La parte inferiore viene rivestita
con tre ordini di tavole per sopportare gli impeti delle tempeste da cui spesso
vengono colpite). Vi sono poi navi disposte con camere stagne così
costruite in modo che se una parte venga colpita, con la parte rimanente il
viaggio è portato a termine.
Nell'intera India vengono venerate divinità per
le quali ci sono templi molto simili ai nostri decorati internamente con
varie figure. Essi sono adornati nei giorni solenni e gli idoli sono ora
di pietra ora d'oro e argento e avorio, alcuni di sessanta piedi di altezza.
Essi hanno vari modi di adornare e di sacrificare. Si lavano con acqua pura,
quindi entrati nel tempio sia di mattina sia di sera, si stendono con il corpo
e con le mani e i piedi e pregando a lungo baciano la terra, oppure sacrificano
agli dei bruciando legno di aloe e aromi.
Gli Indiani al di qua del Gange non hanno campane, ma
ricavano un suono da piccoli vasi di bronzo alternativamente percossi. Offrono
inoltre cibi agli dei allo stesso modo degli antichi pagani, cibi
che distribuiscono in pasto
ai poveri.
Nella città di Combaia i sacerdoti davanti ai
loro idoli tengono una predica al popolo invitandolo al culto e raccontano che
la cosa più grata che possano fare per conseguire un premio nella vita
futura sia il sacrificio della vita. Convinti dalle parole dei sacerdoti al
sacrificio, vengono portati su un palco, mettono un largo collare di ferro
attorno al collo, con la parte esterna rotonda e la parte interna con un
acutissimo filo tagliente; dalla parte anteriore pende sul petto una catena,
messisi a sedere, con le gambe contratte, piegato il collo, inseriscono i piedi
e stese improvvisamente le gambe e
nello stesso tempo raddrizzata la testa, se la staccano. In questo modo, costoro
sono considerati santi.
In Bisingar si trova un idolo che in un determinato periodo
dell’anno con due carri, in cui fanciullette
adornate cantano un inno al dio, girano per la città, con un grande concorso di popolo. Molti,
spinti dal fervore della fede, pongono i loro corpi prostrati per terra,
cercando la morte schiacciati sotto le ruote., che, dicono, sia assai accetta
al dio. Altri per adornare i carri, forati i fianchi del loro corpo in cui
introducono una fune, si fanno trascinare dal carro e seguono l’idolo
penzolanti ed esanimi. Ritengono ciò un ottimo sacrificio ed assai
gradito al loro dio.
Hanno tre festività particolarmente solenni durante
l’anno. Nella prima uomini e
donne di ogni età, indossate vesti nuove e lavato il corpo nei fiumi o
nel mare, per tre interi giorni, con canti e danze corali e banchetti
fanno festa. Nell’altra dispongono nei loro templi, dentro e fuori e
sulle sommità infinite luminarie con olio di susimanno, splendenti
notte e giorno. Nella terza per tutte le strade innalzano legni grandi come
alberi di una piccola nave e legano dall' alto al basso vari e bellissimi panni
intessuti d'oro e sulla sommità di essi, per nove giorni pongono un uomo pio e devoto, dedito
alla religione che prega il dio per il popolo. A questo uomo lanciano pomi,
arance, frutti odoriferi e gustosi, che sopporta con estrema pazienza.
Vi sono nell’anno, altri tre giorni festivi nei quali
si buttano addosso acqua crocea, già pronta per le strade
cosicché innaffiano anche lo
stesso re e la regina e ciò viene accolto con riso di tutti.
Celebrano le loro nozze con canti, conviti, trombe.
flauti, e altri strumenti che hanno in uso, simili ai nostri, eccettuato
l’organo.
Hanno di giorno e di notte conviti sontuosi, nei quali si
canta, si suona si danza. Cantano con danze corali in cerchio, secondo il
nostro costume. Danzano in un unico ordine in fila l'uno dopo l'altro con
piccolissimi bastoncini dipinti, che portano doppi, scambiandoseli con
quelli che vengono loro incontro; la qual cosa è, racconta
Niccolò, bellissima a vedersi.
Inoltre terme e bagni non sono in uso, se non
nell’India superiore al di là del Gange. Gli altri più
spesso durante il giorno si lavano con acqua fredda. Mancano di olio e di
frutti naturali, come pesca, pere, ciliegie, pomi. La vite vi è
rara. E questa, come già dicemmo, è in un solo luogo.
Nella regione Pudifetania cresce un albero che non
dà alcun frutto, alto tre cubiti da terra, che chiamano della vergogna.
Quando un uomo gli si avvicina, si contrae e stringe i rami a sé e
quando si allontana, si allarga di nuovo.
BISINAGAR
I |
n quindici giorni di viaggio, Niccolò, raggiunse
verso settentrione la città di
Bisinagar. Vi è un monte di nome Abenigaro, circondato da pozze d'acqua e da animali
velenosi e all’accesso è infestato di serpenti ed è pieno
di diamanti. Esso dà
diamanti. Per quanto sia difficile accostarsi al monte, l’astuzia degli
uomini ha trovato il modo di avvicinarsi per trovare i diamanti estraendoli
da quel monte. C’è un altro monte accanto a quello poco
più alto. In un determinato periodo dell’anno, gli uomini del
paese vi salgono; tagliati a pezzi dei buoi che conducono seco, con adatte
balestre a ciò fabbricate, lanciano le carni ancora calde e sanguinanti
sul cocuzzolo dell’altro; cadendo per terra i diamanti si attaccano alla
carne; allora avvoltoi ed aquile che volano sopra, prese le carni, volano
altrove per mangiarle in luoghi sicuri dai serpenti In quel luogo giungono gli
uomini che prendono i diamanti caduti dalle carni.
Delle altre pietre che dicono preziose, è
più facile il rinvenimento. Scavano infatti appena vicino ai monti
arenosi, in luoghi nei quali esse si trovano, fin a dove trovino l'acqua
mescolata a sabbia. Quindi posta la sabbia in un crivello apposito la lavano.
Scendendo la sabbia attraverso il crivello, le pietre, se ci sono,
rimangono sopra.
In verità questa maniera di scavar pietre viene
osservata dovunque. È gran cura dei padroni che quelli che lavorano e i
servi non rubino qualcosa; infatti vengono posti dei custodi che
impediscono i furti e le frodi e scuotendo le vesti degli operai esaminano le
parti più segrete del corpo.
L’anno è di dodici mesi, che denominano dai
segni del cielo. Computano gli anni in modo vario. La maggior parte prendono
inizio dall’imperatore Ottaviano, nel cui tempo nel mondo intero
vi fu la pace. Dicono che sia il 1490 (Poggio, scriveva intorno al 1440).
In alcune regioni non hanno moneta, ma in suo luogo usano
pietre che noi chiamiamo occhi di gatto. In qualche luogo al posto di monete
usano un ferro fatto a forma di un grosso ago. Altrove vengono usate carte
intitolate col nome del re. In alcune parti dell'India anteriore sono in
uso ducati veneti. Alcuni hanno monete d'oro che pesano il doppio dei nostri
fiorini ma alcuni di meno e in altri d'argento e di rame. In altri luoghi
è usato come moneta l'oro confezionato secondo un certo peso.
In guerra gli Indiani della parte anteriore fanno uso di
giavellotti, di spada, bracciali, scudo rotondo e di arco, ed elmi,
corazza sul petto. Gli Indiani che seguono, hanno in uso balestre e quelle che
noi diciamo bombarde, e altre macchine belliche adatte alle espugnazioni
di città. Costoro ci chiamano Franchi e, mentre chiamano cieche le altre
genti, dicono che essi hanno due occhi mentre noi ne abbiamo uno solo:
considerandosi superiori quanto a prudenza. In Cambaia hanno soltanto
l'uso del papiro. Tutti gli altri indiani scrivono sulle foglie degli alberi,
dalle quali ricavano bei libri. Scrivono poi non come noi o gli Ebrei di
fianco, ma conducendo la penna in lungo dall' alto in basso.
Presso gli Indiani vi sono moltissime lingue fra loro
diverse. Abbondano di servitori, e il debitore che non ha la possibilità
di pagare si offre come schiavo al creditore. Ai rei di delitto e a colui che
non può trovare un testimone, viene imposto il giuramento.
Vi è una triplice forma di giuramento: Nella prima,
colui che deve giurare viene posto davanti a un idolo: e giura per l'idolo di
essere innocente; dopo il giuramento vi è un ferro come
un’accetta, rovente, se lambendo con la lingua il ferro ne esce illeso,
viene assolto. Nel secondo, dopo il giuramento, il reo porta davanti
all’idolo per alcuni passi con le mani nude un ferro o una lamina
rovente; se in qualche parte si brucia, viene punito come colpevole, se rimane
illeso viene liberato; c'è una terza consuetudine di giuramento ed essa
è più comune: hanno davanti all'idolo una pentola piena di
burro bollente. Giurando di non avere alcuna colpa, intinge due dita nel burro
e, immediatamente, queste vengono strette in un panno di lino, sopra il
quale viene impresso un segno affinché essa non possa esser tolta
dalle dita; il terzo giorno viene sciolto il legaccio. Se si trova qualche
ferita, egli subisce la pena meritata; se le dita sono illese, l’uomo
è liberato.
Presso gli Indiani non c'è nessuna pestilenza
né quelle malattie che spopolano di uomini la nostra terra, e là
il numero di popoli e delle genti è più grande di quanto si possa
credere.
La maggior parte di questi popoli raccoglie un esercito di
oltre dieci centinaia di migliaia di uomini. Niccolò racconta di una
battaglia i cui vincitori portarono a casa, in conseguenza del trionfo,
dodici carri pieni di corde di oro e di seta con le quali i capelli dei morti
erano legati dietro la nuca. Aggiunge, inoltre, che una volta che egli si era
trovato, tranquillamente a osservare una battaglia e che essendo stato
riconosciuto da entrambe le parti
come straniero, aveva potuto allontanarsi senza alcun pericolo.
L'isola di Giava, quella che vien detta maggiore, produce un albero rarissimo, in mezzo al quale si trova
uno stilo di ferro sottilissimo e lungo quanto il tronco dell' albero. Chi ne
strappa una sua particella così da farla aderire alla carne, diventa
immune alle ferite del ferro, e
molti tagliata la pelle la inseriscono sotto di essa. E ciò
è tenuto in grandissima considerazione.
(Tutto ciò che si racconta usualmente intorno alla
fenice e che da Lattanzio viene descritto in versi, non sembrano essere cose
fantasiose).
L’INDIA
A |
i confini dell'India interna Niccolò racconta che
c'è un uccello raro di nome semenda
con un becco fatto come un rostro con varie canne con più fori
distinti. Quando è vicino il tempo della morte esso raccoglie rami
secchi nel nido, sui quali giacendo canta con tutte le canne così
soavemente che attira in modo mirabile e allieta gli ascoltatori; quindi
scuotendo le ali attizza il fuoco tra i rami e si lascia bruciare. Poco dopo
dalle ceneri sorge un verme dal quale nasce il medesimo uccello. A somiglianza
del suo becco gli abitanti avevano ricavato uno strumento dal suono tanto
soave, che allo stupito Niccolò narrarono quella che io dissi
sull’origine della zampogna.
Nell'India anteriore, nell'isola Zeylam (Ceylon) c'è
anche un fiume, che vien chiamato Arotanim, così pieno di pesci che si
possono prendere con gran facilità con la mano. Ma in verità, se
qualcuno tiene per un po’ il pesce preso in mano, viene immediatamente colpito dalla
febbre; ma lasciato il pesce, ritorna in salute. La causa di ciò, egli
raccontò, la attribuiscono a
una favola intorno ai loro dei. Ma essa pare che sia dovuta alla natura,
poiché anche presso di noi se qualcuno abbia tenuto in mano il pesce
detto torpedine, subito la mano si intorpidisce e viene colpita da un
certo dolore.
Queste cose riferite da Nicolò intorno agli Indiani,
da considerare degne di fede, avendo io preso nota con coscienza, sopraggiunse
poco dopo anche un altro dalla parte superiore dell'India verso settentrione,
il quale asseriva di essere stato mandato presso il pontefice per investigare su
coloro che per fama venivano detti Cristiani là dove il sole tramonta,
come se fossero in un altro mondo.
Racconta che
c'è un regno presso il Cataio, lontano venti giorni di viaggio, il cui
re e gli abitanti tutti sono cristiani ma eretici, cioè Nestoriani; e
che il patriarca della loro gente aveva designato lui affinché riferisse
cose sicure di noi. Asseriva che le chiese presso di loro sono più
grandi e più adorne delle nostre e che le costruzioni sono a volta. Che
il patriarca è ricco di oro e di argento, in quanto percepiva
un’oncia d'argento dai singoli capi famiglia secondo il censo annuo.
Avendo parlato con lui tramite l'interprete armeno, che
conosceva la lingua turca e la latina, lo interrogai quindi sulla distanza dei
viaggi e sui luoghi. Infatti le rimanenti cose: costumi, riti, animali ed altre
cose che recano piacere a sentirle narrare, vidi che erano le più
difficili a conoscere per la ignoranza dell'interprete, il quale era efficente
nella sua lingua e non nella nostra.
Quindi affermò il grandissimo potere di colui che di
tutti è l'imperatore, cioè il Gran Cane, il quale riferiscono che
dominava su nove potentissimi re. Avendo viaggiato per vari mesi attraverso gli
Sciti superiori, i quali oggi sono chiamati Tartari, e i Parti, dopo vari mesi di
viaggio, giunse finalmente all'Eufrate, quindi, entrato in mare a Tripoli, a
Venezia. Quindi partì per Firenze. Disse di aver visto molte
città sia con edifici pubblici che privati più belli che in
questa nostra. Infatti le più erano di un perimetro di venti o dieci
miglia. Egli non sembrava persona mendace. Costui, dopo che ebbe parlato col
Pontefice, visitata la città di Roma per devozione, se ne partì
senza chiedere nulla di oro e di argento.
Egli si presentò come colui che era venuto non per
chiedere favori come molti sono soliti fare mentendo, ma come colui che era
venuto per incarico ricevuto.
Quasi nello stesso tempo essendo da me interrogati a mezzo
di un interprete, alcuni che erano partiti dall'Etiopia per venire a visitare
il Pontefice per fede, intorno ai
luoghi del Nilo ed alla sua sorgente e se fossero da loro conosciuti, due di
loro affermarono che abitavano in luogo prossimo alle sue fonti per.
Fui allora preso da un forte desiderio di conoscere quelle
cose che, agli stessi antichi scrittori e filosofi e a Tolomeo, che sulle
sorgenti del Nilo scrisse per primo, sembrava fossero ignote. I quali, sulla
sorgente del Nilo e sulle sue inondazioni erano incerti, facevano molte congetture. E quelle cose non
conosciute di cui essi mi avevano fatto relazione e molte altre, che avevano
narrato quando li interrogavo, sembrarono degne di essere conosciute e di
essere scritte.
LE SORGENTI DEL NILO
E |
ssi attestarono che il Nilo sorge vicino alla regione
dell’equinozio alle radici di altissimi monti le cui sommità sono
sempre riempite da nebbie, da tre sorgenti non grandi, due delle quali distano
fra loro quaranta passi; e cinquecento passi più sotto l'acqua , si
congiungono e danno vita al fiume che non può essere passato a guado.
Della terza che è la più abbondante, e dista dalle precedenti un
miglio, dopo diecimila passi l'acqua si congiunge alle altre due fonti. Il Nilo
viene accresciuto maggiormente con le acque di mille fiumi, da entrambi i lati
in esso affluenti. Nei mesi di marzo, aprile, maggio sopraggiungono piogge con
grandi acquazzoni che incrementano il Nilo e provocano l’ inondazione.
Dicono, che le acque del Nilo prima che si mescolino con
quelle degli altri fiumi sono dolcissime e sapidissime, e coloro che vi si
lavano vengono mondati dalla scabbia e dalla lebbra. Per un tempo di
quindici giorni al di là delle sorgenti del Nilo; che vi sono fertili
regioni abitate, e là e in esse, moltissime ed eccellenti città.
Vicino alla sorgente del Nilo è sorta una città di nome Varnaria
di venticinquemila passi di perimetro, esattamente perfetta. In essa di
notte mille cavalieri sono di guardia per tener lontani i tumulti della
popolazione. Questa regione è gradevole per l'aria temperata e per il
suolo più fertile degli altri, cosicché produce tre volte in un
anno erbe e due volte biade; quella regione abbonda di frumento e di vino,
benché la massima parte degli Etiopi usi acqua confezionata con orzo in
luogo di vino (birra). Vi si trovano fichi, pesche, mele, melarance e alcuni
simili ai nostri cocomeri. E dicono
che presso di loro vengono raccolti limoni e cedri e tutti quei frutti,
eccettuate le mandorle. Riferirono che moltissimi sono gli alberi mai sentiti
nominare e a noi sconosciuti. Ma per la difficoltà dell'interprete, che
conosceva soltanto la lingua degli Arabi, la traduzione da poterli trascrivere
non fu facile. Ne scrivo tuttavia uno. E’ dell' altezza di un uomo, largo
quanto un uomo possa abbracciare, con una corteccia molteplice: l'una sopra
l'altra. I frutti sono simili a quelli che stanno nascosti nelle castagne, dai
quali una volta pestati si ricava un una farina bianca dal sapore dolcissimo,
di cui si servono nei banchetti: le foglie dell’albero sono larghe
un cubito e lunghe il doppio.
Il Nilo fino all'isola di Meroe è molto frequentato.
Disceso per sassi aspri, non essendo navigabile al di là di Meroe ai
navigli fino all'Egitto vero e proprio. Ma attraverso i molteplici suoi
meandri dicono che la navigazione si protrae per sei mesi. Quelli che abitano
quelle regioni, dalle quali deriva il Nilo, vedono il sole rivolto verso
settentrione; poi nel mese poi di marzo, dalla regione viene visto sopra il capo. Tutta l'Etiopia ha comunque
lo stesso alfabeto, ma per la vastità delle province, lingue diverse. La
regione marittima India è rivolta verso Zanzibar, dissero che si trovano
chiodi di garofano, e ciò da cui si ottiene lo zucchero, e noci che sono
chiamate muscate.
Tra l'Etiopia e l'Egitto si trovano luoghi deserti per
cinquanta giorni, che si attraversano con
cammelli che portano cibo e acqua. In molti luoghi in verità vi
è la minaccia di selvaggi che hanno forma umana, i quali attraversano il
deserto nudi, quasi come belve attraversano il deserto vagando su cammelli dei
quali consumano le carni e il latte,
spogliano i viandanti dei cammelli, del cibo e dell’acqua; e
questa è la causa per cui molti, chiunque siano muoiono di fame, per cui
raramente tornano vivi da quelle parti. Tutti gli Etiopi hanno vita molto
più lunga di noi. Infatti vivono oltre i centoventi anni; molti vivono
anche fino al centocinquantesimo
anno. In alcuni luoghi oltrepassano il duecentesimo anno. La regione è
tutta molto popolata, in quanto non
sono mai colpiti dalla pestilenza e per mancanza di malattie e per la lunga
età la popolazione si accresce. Per la varietà delle regioni hanno diversità di costumi.
Portano vesti di lino e di seta; (infatti sono privi di lana) tutti gli uomini
e le donne in alcuni luoghi portano dietro di sé lunghe vesti nella
parte della cintura della
larghezza di un palmo adorne di oro e di gemme. Alcune coprono la testa con
fazzoletti intessuti d’oro, altre
con capelli sparsi, molte cammino con capelli legati dietro la nuca. Sono
più ricchi di noi di
oro e gemme.
Gli uomini portano anelli, le donne bracciali d'oro ornate
da varie pietre preziose. Dal sesto giorno della Natività del Signore
fino al quarantesimo passano ogni giorno piacevolmente in banchetti e danze
corali. Fanno uso di piccole mense cosicché mangiano in due o tre,
fanno uso di salviette e tovaglie secondo il nostro uso. Hanno un solo re, il quale si chiama dopo
Dio, Re dei Re. Dicono che sono molti i re sotto di lui.
Vi sono vari generi di animali. I loro buoi sono gibbosi
allo stesso modo del cammello, con le corna estese dietro il dorso per tre
cubiti cosicché uno solo è usato come un’ anfora di vino; i
cani sono della grandezza dei nostri asini; alcuni superano a caccia i leoni.
Hanno moltissimi e grandi elefanti,
parecchi per mostra e godimento; alcuni sono allevati li nutrono in
quanto utili in guerra. Questi sono quelli presi da piccoli durante le cacce e
addomesticati, dopo avere ucciso quelli più grandi. I loro denti si
protendono fino a sei cubiti. Inoltre educano i leoni addomesticati per
bellezza e spettacolo, Vi è un genere di belva di vario colore, simile
all'elefante, ma è privo di proboscide e ha piedi di cammello, avente
due corna acutissime alla sommità, della lunghezza di un cubito. Uno in
fronte l'altro sul naso. Un altro animale di poco più lungo e del tutto
simile a una lepre, di nome zibetto;
di un odore così intenso che se se qualcuno di essi si sia sfregato
su un arbusto vi rimane impresso un
odore soave, i passanti sono colpiti
dal profumo e spezzando
quella parte profumata la vendono a
piccoli pezzi a prezzo più
caro dell’oro.
I viaggiatori riferirono che c'era un altro animale, lungo
nove cubiti, alto sei, coi piedi fessi di bue, grosso di corpo non
più di un cubito, assai simile nella pelle al leopardo, con la testa di
cammello, col collo lungo quattro cubiti, con la coda pelosa. Le sue pelli sono
pagate a gran prezzo e le donne le portano pendenti dalle braccia e
adorne di varie gemme.
Parimenti vi è un altro animale selvatico preso a
caccia che viene mangiato. Esso
è della grandezza di un asino, listato di rosso, con le corna di
color verde, di tre cubiti, contorti alla sommità. Un altro simile alla
lepre, con piccole corna, di colar rosso, salta più di un cavallo.
Inoltre un altro simile alla capra, con due corna sopra il dorso protese per
più di due cubiti, che, poiché il loro sudore allontana la febbre, si vendono
per quaranta monete d'oro. Un altro simile al primo e senza le corna, ma di
pelo rosso e con un collo lungo due cubiti. Narravano inoltre, di un altro della grandezza di un cammello,
del colore del leopardo, con il collo di sei cubiti proteso in avanti, la testa
di un capriolo.
A questi aggiungevano un uccello alto sei cubiti da terra
con sottili gambe, coi piedi anserini (piedi d’oca), con il collo e
la testa pure piccola, ed un becco simile a quello della gallina, vola
allo stesso modo, ma nella corsa supera la velocità dei cavalli
(struzzo).
Omisi a causa della abbondanza delle molte cose
riferite, che nei luoghi deserti
abitano serpenti, a volte lunghi
cinquanta cubiti, senza piedi, con la coda di scorpione, e che divorano un
intero vitello (serpente boa).
Questi racconti, così importanti e meravigliosi, non
essendovi motivo di raccontare menzogne (poiché sembravano veritiere), ho
ritenuto degni di essere messi per iscritto per essere trasmessi ai posteri per il bene comune.
Termina
Felicemente
il
quarto libro della Varietà della Fortuna di Poggio Bracciolini,
uomo
illustre.
FINE