IL LIBRO
DEI TRE IMPOSTORI
COME
L’ARABA FENICE
(che vi sia ognun lo dice
dove sia nessun lo sa)
SOMMARIO; PREMESSA; GILLES MENAGE LETTERATO ED ERUDITO SOSTENEVA LA INESISTENZA DEL LIBRO; THOMAS DI CAMPINTRÉ; JAQUES CURIO E LA “CHRONOGIE” DEL 1556; LA RICHIESTA DELLA REGINA CRISTINA DI SVEZIA; POSTEL IL PRIMO AD AVER PARLATO DELL’ESISTENZA DEL LIBRO; THOMAS BROWNE RITENEVA CHE IL LIBRO FOSSE OPERA DI OCHINO; LA POLEMICA TRA DE LA MONNOYE E FILOMNESE; CONTENUTO DEL LIBRO DEI TRE IMPOSTORI; RISPOSTA DI DE LA MONNOYE CHE SMENTISCE LA PROVEMNIENZA DEL TESTO ATTRIBUITO A FEDERICO II.
PREMESSA
I |
racconti sul libro dei Tre Impostori dicevano che inizialmente
era circolato in poche copie manoscritte (una si trovava nella Biblioteca
imperiale di Parigi) e sarebbe stato stampato e diffuso in Germania e in Francia (la prima stampa sarebbe risalita
al 1553) con il titolo: “Liber de tribus
impostoribus” o “De tribus impostoribus” e attribuito prima all’imperatore Federico
Barbarossa e poi a Federico II (che lo aveva fatto scrivere da Pier delle Vigne!).
A
voler seguire le sue tracce esso costituiva una specie di araba fenice, in quanto tutti giuravano sulla sua esistenza per
averlo visto, e chi l’aveva visto, sosteneva di non averlo potuto avere in
prestito per leggerlo.
Relativamente
a questa sua esistenza ne fu coinvolta anche la regina Cristina di Svezia
(1626-1689) la quale aveva saputo che il suo plenipotenziario a Munster era in
possesso di una copia, ma non aveva ritenuto chiederlo al ministro quando era
in vita; ma quando le era stata comunicata la sua morte, aveva mandato il suo
medico Bourdelot a chiederlo alla vedova, questa le aveva risposto che il
marito prima di morire, per rimorso di coscienza, lo aveva fatto ardere nel
fuoco del caminetto della sua camera; la regina poi lo aveva fatto cercare in
tutte le biblioteche d’Europa (offrendo trentamila lire), ma era morta senza
trovarlo!
Solo
verso la metà nell’800 il libro veniva diffuso e pubblicato, suscitando un vasto dibattito; la copia stampata
a Parigi-Brusselle, 1867, risulta la più completa (il testo latino con traduzione
in francese contiene una elaborata e approfondita “Notizia filologico-bibliografica” di Filomneste junior (Pierre Gustave Brunet 1807-1896), in cui
l’autore ne fa una cronistoria, e risalendo a Rabelais, dice che Rabelais aveva
avuto l’ardire di parlarne, sotto un velo assai trasparente, ma non in tutte le
edizioni del Pantaguel (v. in Specchio dell’Epoca, L’educazione del giovane
feudatario ecc.), mettendo in ridicolo ciò che era oggetto di grande
venerazione; nel XVI secolo a seguito delle controversie religiose tra
cattolici e protestanti si era ridestata la libertà di pensiero per lungo tempo
compressa e Giordano Bruno e Giulio Cesare Vanini (che però non citano la fonte),
avevano sviluppato quelle idee nei loro scritti di calcolata oscurità, con asserzioni temerarie che costarono loro la
vita.
GILLES MENAGE
LETTERATO
ED ERUDITO
SOSTENEVA
L’INESISTENZA
DEL LIBRO
A |
lcuni
scrittori avevano condotto delle ricerche e tra questi Gilles Menage
(1613-1692) il quale, tra i sostenitori della inesitenza del libro, aveva
scritto una lettera inviata a Monsierur Bouhier, presidente del Parlamento di
Digione (pubblicata in Menagiana, IV
voll. Amsterdam 1716), contenente l’esito delle sue ricerche, il quale
raccontava di aver saputo da un amico che uno scrittore tedesco, Daniel George
Morbof, gli aveva scritto dicendogli di avere una copia del Libro dei tre impostori e che aveva
intenzione di farlo stampare. Menage non gli aveva creduto e, senza temerarietà,
affermava che avrebbe potuto dimostrare il contrario.
Nel
frattempo, Morbof non aveva potuto mantenere la parola sulla pubblicazione del
libro, perché era morto, e Menage sempre convinto della sua inesistenza faceva,
nella sua lettera al presidente Bouhier, il rendiconto aggiornato delle sue
ricerche e scriveva quanto segue.
Sapete
che di tutte le religioni professate nel mondo, le principali sono l’ebraica,
la cristiana e la maomettana, alle quali le altre si aggiungono come le specie
al loro genere.
Di
queste quattro, la pagana, ammettendo una pluralità di Dei, è del tutto
insostenibile; i libertini (da intendere: i
laici ndr.) hanno creduto quindi di combattere l’ebraica, la cristiana e la
maomettana e vi è stato chi ha subito fatto dire che il mondo è stato sedotto da
tre impostori; questo pensiero che si presenta naturalmente a persone come
queste, nemiche di tutti i culti, si trova attribuito a molti personaggi che
hanno parlato di un Libro dei Tre
impostori, come di un testo stampato.
Colomiez (Arnaud, scrittore,stampatore-libraio †1666)
nelle sue “Melanges Hisoriques” (pag.
28), scriveva che Grozio (Uig de Groot, lat. Grozius, 1583-1645) nel suo “Trattato dell’Anticristo”, si inganna scrivendo
che i nemici dell’imperatore Federico Barbarossa gli attribuivano questo libro,
ma il libro non era stato scritto da lui ma da Federico Barbarossa, come
emergeva da lettere di Pier delle Vigne, suo segretario e cancelliere.
Colomiez
inganna doppiamente se stesso, in primo luogo egli mal riferisce l’errore di
Grozio espresso in questi termini: Il libro
dei tre impostori non può essere attribuito nè al papa, nè agli avversari
del papa. I nemici di Federico Barbarossa fecero correre la voce che un tal
libro fosse stato scritto per suo ordine. Ma non si è trovato nessuno che
l’abbia visto; ciò che mi fa ritenere che fosse una favola (Grotius: Appendix ad tractatum de Attichristus).
In
secondo luogo quelli che avevano detto che era stato l’imperatore Federico II ad
essere stato l’autore del libro, erano stati i suoi nemici (*). Essi lo
accusavano con riferimento a Pier delle Vigne e Matteo di Parigi (Annales 1238) di aver detto che il mondo era stato sedotto da tre impostori,
ma non di aver composto un libro con questo titolo.
Federico
II del resto negava di aver potuto dire una cosa del genere. Egli detestava i
blasfemi che lo accusavano, dichiarando trattarsi di una calunnia atroce e per
chi non ha tenuto conto di Lipsia (Monit. & Exemp. polit. 4) e di altri
scrittori, che senza esaminare le difese di questo imperatore lo hanno
impietosamente condannato. Si sa con quale audacia un secolo prima, si fossero
burlati delle tre religioni e con quale audacia Averroé (v. Articoli: I
primordi dell’averroismo e la scuola aristotelico-averroistica di Padova) si
era preso gioco delle tre religioni, dicendo che “la legge giudaica era una legge di bambini, la cristiana una legge di
impossibilità, la maomettana una legge di maiali”.
*) In effetti l’accusa era stata fatta dal papa Gregorio IX in Collectio Conciliorum di Labbé, tomo III
e Cherrier: Histoire de la lutte des
papes et des empereurs de la maison de Suede, tomo II.
THOMAS DE CAMPINTRÉÉ
T |
rovo,
prosegue Menage, in Thomas de Campintré (1201-1272: Apud Nevizanun 1. Sylvae Nupt.
2. n.121; 2. De proprietatibus apibus 41.n. 5) che un maestro, Simon de
Tournai (1130-1201) diceva che tre seduttori, Mosé, Gesù Cristo e Maometto, avevano
infatuato con le loro dottrine il genere umano; è certamente del maestro Simon
de Chournai (sic!), che Matteo di Parigi racconta un’altra empietà, mentre Polydor
Virgile lo chiama de Thourvai, nomi l’uno e l’altro corrotti.
Alvar
Pelagio (1275-1350), cordelliere spagnolo, morto verso l’anno 1340, vescovo di
Silves in Algarvia, conosciuto per il suo libro “De planctu Ecclesiae”, ha lasciato altri non stampati, tra i quali
uno col titolo “Collyrium fidei contra
hereses & errores” (Unguento
della fede contro gli eretici ed errori). Oltre al manoscritto che Luc Vading,
dice trovarsi nella Biblioteca Vaticana,
corté
(sic) n. 2071, in quella dell’abate
Colbert.
Lo
scrittore e ufficiale Baluze (Etienne, 1630-1718) che me lo ha indicato, mi ha
fatto vedere i f. 76 & 77, dove sono annotati gli errori di Thomas Scotus,
cordelliere giacobino, rinnegato, apostata, detto in latino fratrum minorum & praedicatorum,
allora prigioniero a Lisbona per diverse empietà di cui era accusato e aver
propagato in Spagna: Una delle principali era di aver trattato come impostore
Mosé, Gesù Gristo e Maometto, sostenendo che il primo aveva ingannato i giudei,
il secondo i cristiani, il terzo i saraceni: “disseminavit etiam iste impius hereticus in Hispania”, questi sono
i termini di Alvar Pelage “quod tres
deceptores fuerunt in mundo, scilicet Moyses qui decepterat Judeus, &
Crìhristus qui decepterat Chrisitianos, & Mahomethus qui decepterat Saracennos”.
Ed ecco il colmo del
ridicolo: il buon Gabriele (da) Barletta (domenicano, (prima metà del XV sec.-†dopo
il 1480) nel suo “Sermone di Sant’Andrea”,
aveva fatto dire a Porfirio (233/34-305)-: “E’
così, disse, falsa è stata la
sentenza di Porfirio che disse che erano stati i tre garrulatori che avevano attratto a sé, sovvertendolo, tutto il mondo. Il primo
fu Mosé per il popolo giudaico, il secondo Maometto, il terzo Cristo”. Da
ciò si vede come egli fosse abile cronologista, avendo messo, Gesù Cristo e
Porfirio, dopo Maometto.
Gian
Luigi Vivaldo di Mondovì, che nel 1506 tra le altre sue opere aveva scritto nel
“Trattato delle dodici persecuzioni della
Chiesa di Dio”, al cap. sesto della sesta
persecuzione, che vi sono delle persone che osano mettere in discussione chi,
dei tre legislatori, sia il più seguito, Gesù Cristo, Mosé, o Maometto? “Qui in quaestionem vertere praesumunt, dicentes”: Chi in questo mondo
tra le persone e i popoli ebbe maggior seguito, Cristo, Mosé o Maometto?
Herrman
Riffwyk, olandese bruciato a Le Haye l’anno 1512, si beffava della religione
giudaica e cristiana. Non vien detto ciò che pensasse della maomettana; ma non
vi è dubbio che all’apparenza un uomo che trattava Mosé e Gesù Cristo da
impostori, potesse avere una miglior opinione di Maometto.
Si
dovrebbe fare lo stesso ragionamento, chiunque egli fosse, per l’autore delle
empietà contro Gesù Cristo, trovate l’anno 1547 a Ginevra, tra le carte di un
soggetto di nome Gruet.
Un
italiano di nome Fausto da Longiano (1502/12-1565) aveva iniziato un’opera dal
titolo “Il tempio della Verità” in
cui diceva in una lettera all’Aretino, di non pretendere che di distruggere
tutte le religioni. Ho cominciato,
diceva, un’altra fatica la quale è
intitolata “Il Tempio della Verità”,
una fantastica faccenda. Sarà divisa,
forse, in trenta libri. Ivi si leggerà la distruzione di tutte le sette,
giudaica, cristiana e maomettana e di tutte le religioni, le quali cose sono
tutte altamente collegate ai loro primi principii.
In mezzo
a tutte le lettere che abbiamo dell’Aretino a questo Fausto, non trovo nessuna
in cui sia designata quest’opera. Può darsi che questa non sia stata mai
terminata e quando lo fosse stata, potrebbe fare la differenza dell’argomento
che stiamo trattando. Non vi è motivo di dubitare che se ciò che si dice sia
vero e vi sia una traduzione in tedesco, stampata in folio, di cui vi siano
degli esemplari nelle biblioteche di Germania. Ma niente è più inutile che
allegare una sorta di fatti ai quali non si è obbligati a credere se sono
allegati senza prove. Ma passiamo ad altro argomento.
Claude
Beauregard (1578-1663), in latino Berigardus, professore di filosofia
primieramente a Parigi, e poi a Pisa e infine a Padova (dove morì), nel suo Circulus Pisanus, cita o designa un
passaggio del Libro dei tre Impostori,
dove i miracoli fatti da Mosè in Egitto sono attribuiti alla superiorità dei
suoi Demoni su quelli dei maghi del faraone.
L’ex
giacobino bruciato a Roma il 17 febbraio del 1600 è stato accusato di aver
avanzato in uno dei suoi libri, qualcosa di simile. Beauregard che aveva dovuto
riportare questa fantasticheria, prima di giudicare come estratta dal “Trattato dei tre impostori” aveva
concluso, o che egli avesse il libro o che quantomeno l’avesse visto.
A ciò
io rispondo che nego la conseguenza su cui si potrebbe fare una speculazione
poco solida, tale che Beauregard, senza esaminare se la tradizione che egli
avesse un Libro dei tre impostori,
fosse vera o falsa, aveva supposto che i niracoli di Mosé erano attribuiti alla
magia e su questa supposizione non vi è stata alcuna difficoltà ad indicare il
libro come se egli l’avesse avuto; allo stesso modo in cui Barletta fa passare
Porfirio come empio, per ciò che aveva detto in riferimento ai tre legislatori.
Non vi
è dubbio che Beauregard, poco scrupoloso, avido di reputazione, meno filosofo
che ciarlatano, aveva prospettato questa citazione per far parlare di sé.
Ostentazione tradita essa stessa dalle circostanze. Sia che si guardi al
ragionamento attribuito al preteso autore del Libro dei tre Impostori o semplicemente la maniera di citarlo,
tutto è male inteso. Quanto al ragionamento, è credibile che un uomo che vuol dìrsi si sia beffato dei tre maestri
delle religioni abbia potuto ammettere il sistema dei differenti ordini dei
Diavoli superiori gli uni agli altri. Egli avrebbe avuto insieme nello stesso
tempo, l’incredulità e la credulità.
Quanto
al modo di fare una citazione, se Beauregard avesse, non direi in maniera
diversa, ma avendo visto qualche parte del libro in questione, è possibile che
non abbia fatto riferimento ad alcun particolare? Che egli non abbia indicato
il formato del libro? Se si sia trattato di un manoscritto o di uno stampato? Che
egli abbia riferito solo il passo indicandolo con propri termini; che per una
citazione così singolare, avrebbe dovuto sentire il bisogno di dare delle
indicazioni più particolari che sarebbero servite nel momento in cui fosse intervenuto
il diritto di negare l’esistenza dell’esemplare, fin tanto che non se ne fosse
prodotta una copia.
Oppongo
la stessa risposta a Tentzelius (Wilelm Ernest Tentzel 1659-1707, tedesco), che
sulla fede di uno dei suoi amici, preteso testimone oculare del libro, ne ha fatto
una descrizione specificando fino al numero di otto fogli o quaderni che il
volume conteneva, aggiungendo un sommario di materie: indicando che l’autore nel primo capitolo trattava dei comuni pregiudizi degli uomini;
che nel secondo, trattava del perché
gli uomini credono in un Dio che non vedono e che, secondo lui, sussiste nella
loro immaginazione. Che egli cercava di provare nel terzo che l’ambizione dei legislatori è l’unica forza
di tutte le religioni. Che egli parlava da empio di Mosé e di Gesù Cristo
ai quali aggiungeva Maometto, passando alle questioni dell’inferno, del Diavolo
e di Struvio, (Burcardus Gothelfius Struvius, autore di “Dissertationis de doctis Impostoribus”, Jena, 1706), riportando
questo dettaglio dopo Tentzelius, non trovando niente che la finzione non potesse
inventare, non sembrandogli più disposto a credere all’esistenza del libro.
Non
occorre avere più deferenza per la lettera scritta al giornalista di Lipsia,
della quale, negli “Acta eruditorum” del mese di gennaio 1709
egli aveva prodotto a pagg. 36-37, un estratto di cui ecco il senso:
“Essendo in Sassonia – è l’autore della
lettera che parla - ho visto il Libro dei
tre impostori nel cabinet de M.***; è
un volume in ottava in latino, senza che manchi il nome dello tipografo, né
dell’anno della stampa che a giudicare dai caratteri sembra stampato in
Germania. Ho cercato in tutti i modi immaginabili per ottenere il permesso di
leggere il libro per intero, il proprietario del libro, uomo di delicata pietà,
non ha voluto consentire; so di un
celebre professore di Wittemberg che inutilmente aveva offerto una gossa somma.
Essendo andato poco tempo dopo a Nuremberg, mentre mi intrattenevo sul libro
con M. André Myhldorf persona rispettabile per la sua età, mi aveva detto in buona fede che lo aveva
lui e che era stato il ministro M. Wlfer che glielo aveva prestato. Da ciò, dalla maniera in cui mi aveva descritto
la cosa nei dettagli, giudicai che fosse un esemplare uguale al precedente, per
cui conclusi indubitabilmente si trattasse del libro in questione, salvo che, se
non fosse stato in 8° e di antica stampa, non sarebbe stato autentico.
L’autore
di questa lettera mi perdonerà se gli dico di non aver saputo approfittare della compiacenza
del padrone del libro per avergli lasciato la libertà, se non di leggerlo per
intero, quantomeno di esaminarlo interamente. Tutto l’uso che egli ne aveva
fatto, si fonda su tre punti molto superficiali e come io ho già incomincianto
a far notare, sapere la misura del libro, la stampa e il titolo. I chiarimenti
che egli aveva dato a Nuremberg non ci rendono più consapevoli e supporre un
sentito dire.
La
gente urla, l’ho visto, l’ho visto ma ciò non basta. Occorre farlo vedere o
dimostrare di averlo visto. Per quanto mi riguarda, se l’avessi chiaramente,
realmente e incontestabilmente visto, avrei dato delle prove così convincenti
che anche il più incredulo si sarebbe ricreduto.
Ma
continuiamo nella storia delle false tradizioni. Il primo che io sappia che
abbia parlato del libro come esistente è stato nel 1543.
Guillaume Postel nel
suo trattato sulla “Conformità
dell’Alcorano con la dottrina dei luterani” (Alcorani & Evangelicarum concordia liber,1563) detti evangelisti ed egli chiama cénévangelisti (dal greco zainòs o xenòs), come dire nuovi, vani
o frivoli-evangelisti, nell’idea di
renderli assolutamente odiosi, egli ritiene che il luteranesimo conduca
direttamente all’ateismo e porta come prove tre o quattro libri composti,
secondo lui, da atei, che egli
ritiene siano stati i settari del preteso nuovo Vangelo. Da ciò deriva che il
nefasto trattato Villanovano “De tribus Prophetis”, “Cymbalum Mundi” (*), “Pantagruellus & Nova insulae”, erano
di autori cénévangelisti antesignani.
Naudé (Gabriel
1600-1653) nel cap. 14 della sua “Apologie
pour les grandes homme soupçonnez de Magie” (Apologia
dei grandi personaggi sospettati di Magia),
ha erroneamente creduto che Villanova
indicato da Postel, fosse Arnaldo di Villanova (1240-1312/13) morto
duecento anni prima e non facendo caso alla circostanza che il Villanova
da lui indicato fosse contemporaneo di Lutero e senza alcun dubbio fosse
Michel Servet (nato a Villanueva, Spagna il 1511) che sotto il nome Villanovanus aveva pubblicato diversi
libri, alcuni innocenti come l’edizione di “Geografia
di Tolomeo” stampato a Lione nel
1535; un “Traité de Syrupis”, Parigi 1537 e a Venezia 1543; altri
perniciosi come quello stampato l’anno della sua morte (1553) intitolato “Christianismi restitutio” stampato a
Vienna del Delfinato, divenuto raro in quanto si erano ricercati gli esemplari a
Genova per bruciarlo ed è da ritenere che ne rimane una sola copia che Sandius (pag.
14 Biliotheque Antitrinitar.) riferiva trovarsi nella biblioteca del langravio
in Hesse Cassel.
Tutti questi libri che apparsi sotto il nome di Michael Villanovanus, sono riportati nel
catalogo delle opere di Michel Servet e fra tali opere non si trova quello “De tribus Prophetis” che non è mai
esistito se non nell’immaginazione di Postel.
Nè Calvino, nè Beze (Theodore 1519.1605) né Alexander Morus
(1616-1670), in una parola, nessuno dei difensori del partito degli ugonotti i
quali per meglio giustificare la punizione di Servet, arso vivo, avesse
interesse a convincersi di aver scritto questo libro empio di cui non era mai
stato accusato. Postel, autore senza autorità è stato il primo e anche l’ultimo
ad averglielo attribuito.
*) Cymbalum Mundi, Il
cembalo del mondo, opera satirica scritta in francese da
Bonaventure des Périers
(circa 1515-1544), pubblicata nel 1537; contenente quattro dialoghi poetici molto
antichi, giocondi e faceti.
É una satira allegorica e complessa intorno alle credenze
religiose e alle opinioni degli uomini, che sono invece tutte vanità che
valgono quanto il suono di un cembalo. Nel primo Dialogo, Mercurio dice di
essere mandato da Giove per rilegare un libro. Ma in un'osteria questo gli vien
rubato da due allegri bontemponi, Brifane e Cartalio, che lo sostituiscono col
libro degli amori del suo padrone Giove (si son visti da alcuni, riferimenti a
Cristo in Mercurio e a Marta nell'ostessa del luogo).
Nel secondo Dialogo, Mercurio fa a pezzi la pietra filosofale,
per non crucciarsi pensando a chi debba darla, e ne disperde i frammenti tra la
sabbia. Tutti ne fanno affannosa ricerca (è palese la satira ad alchimisti e
metafisici).
Nel terzo Dialogo, si viene a sapere che il libro rubato a
Mercurio è quello dei destini: ne segue un altro frizzo satirico per gli
astrologhi e per quanti presumono di sapere le cose del futuro.
Nel quarto Dialogo, due cani conversano tra di loro. Nell'insieme
dell'opera beffe amene si intrecciano con concezioni profonde sulla tolleranza
civile e religiosa e vengono satireggiati riformatori quali Calvino, Bucer e
Lutero.
Il libro fu presentato come tradotto da un vecchio libro latino
trovato in un convento: esso fu ben presto perseguitato e bruciato. Di qui
anche la prova della sua importanza nel mondo contemporaneo (Carlo Cordié).
JAQUES CURIO
E LA “CHRONOLOGIE”
DELL’ANNO 1556
S |
i crederà forse, che sarà più difficile rispondere a Florimon de
Raemond (1540-1601), che ha positivamente scritto di aver visto il libro
stampato.
Questi termini sono
davvero troppo rimarcabili per non riprenderli quì interamente.
Jaques Curio, nella
sua “Chronologie de l’an 1556” dice
che il Palatinato si era riempito di schernitori della religione, denominati lucianisti, gente perduta che ha per
favole i Libri santi e su tutti, quello del gran legislatore di Dio, Mosé.
Non è stato visto un
libro detestabile, stampato in Germania nello stesso tempo dell’eresia che
aveva seminato questa dottrina e riportato quella orribile dei tre impostori,
prendendosi gioco delle tre religioni che sole riconoscono il vero Dio, la
giudaica, la cristiana e la maomettana?
Il solo titolo
dimostra che esso fosse uscito dall’inferno e (non sappiamo) quale potesse essere
il secolo della nascita che osò produrre un mostro così formidabile.
Non ho fatto
menzione di Hosius e Génébrard che prima di me ne abbiano parlato. Ricordo che
durante la mia infanzia avevo visto l’esemplare nel Collegio di Prèle, nelle
mani di Ramus (Pierre de la Ramé, 1515-1572) uomo molto stimato per il suo alto
ed eminente sapere che aveva arruffato il suo cervello di numerose ricerche sui
segreti delle religioni che egli maneggiava
con la filosofia. Facendo passare questo libro di mano in mano tra i più dotti
desiderosi di vederlo.
O cieca curiosità.
Dopo parole così confortanti, è un disagio, così sembra, (riferire) l’ultima
esistenza di questo libro. Io vi confesso che se Hosius (? cardinale polacco
Stanislaw Hozjusz 1504-1579) e Génébrard (Gilbertus 1535-1597), citati da
Florimond de Raemond, parlando così formalmente erano stati piuttosto
bilanciati. Génébrard per la verità parla del libro a pag. 39 della sua Risposta a Lambert Daneau stampata in 8°
a Parigi l’anno 1581, dove rispondendo alla obiezione che gli era stata fatta
toccando l’errore di Postel, egli dice che non meno dell’esempio di Calvino,
che aveva reso maomettani George Blandrat, Paolo Alciato e Bernardino Ochino,
che aveva tacciato di ateismo Geoffroi Vallée e infine dato luogo a uno
scellerato sconosciuto, di pubblicare il piccolo Libro dei tre impostori.
Non Blandrat, non Alciato,
non Ochino si erano convertiti al maomettismo; né Vallée era stato indotto a professare l’ateismo, non
altri avevano sparso e letto il libello dei tre impostori dei quali il secondo
era Cristo, il primo Mosè, e (terzo) Maometto.
Ecco cosa era stato
detto, fondato sul chiasso che era corso e che correrà ancora su questo libro,
senza stare a inseguire chi l’avesse visto.
Io mi fermo a due
riflessioni. L’una riguarda chi lo ha definito piccolo libro, libello, un’opera
che non pretende una traduzione; come ho innanzi sottolineato, è stata stampata
in folio che non deve essere eccessivamente corto per corrispondere al suo
titolo che secondo l’amico di Tentzelius, non era uno scritto di circa otto
fogli ma un grosso volume contenente critiche esatte e maligne del Pentateuco,
del Nuovo Testamento e dell’Alcorano. L’altro che se degli esemplari, come dice
Gérébrard, è usata la parola spargendum
(diffuso), era stato diffuso, sarebbe impossibile che non fosse rimasta qualche
copia.
Riguado a Florimond
de Raemond (gesuita, 1550-1601) quello che parla, come si dice, de visu, non esiterei a dirvi che la sua
deposizione non mi scuote per niente.
Io non accetto che
le persone di lettere si ricoprano di autorità. Non oserei citare le parole indicate
e sovente ripetute, che essi facevano tre cose memorabili: produceva fine danaro; creava fine confidenza; scriveva fine scienza.
Io credo, in effetti,
che egli non faceva che prestare il suo nome a P. Richeome (Louis, 1544-1625,
autore del “De Origine heresium”), gesuita,
che sapendo come i suoi fossero odiosi ai protestanti, si nascondeva sotto il
titolo di Consigliere di Bordeaux per scrivere contro di essi. E chi non sa che
P. Richeome, cercava di scrivere cose sorprendenti piuttosto che veritiere; vi sono delle persone che per
mettersi in vista suppongono di aver visto certi libri rari, singolari, che si
ritengono perduti.
Testimone Francesco
Veneto, che fece credere a un grammatico di Fano, commentatore dei primi sei
libri che ci restano dei “Fasti” di
Ovidio, che gli ultimi sei erano nella Biblioteca del re di Francia dove li
aveva visti e letti.
Testimone, senza
andare troppo lontano, colui che nel 1690, si vantava di aver recuperato
l’intero Petronio ed ebbe la sfrontatezza di far stampare un preteso
supplemento, non solamente indegno di questo autore, ma anche più che mediocre.
Erano stati promessi
a Jean Sturm (Johannes,1507-1589) i sei libri della Repubblica di Cicerone, alla ricerca dei quali il cardinale Polo
aveva speso duemila scudi d’oro, inviando espressamente una persona in Polonia,
dove gli avevano fatto sperare che si trovasse il manoscritto. Era stata
promessa la stessa cosa a Vives (Juan Luis 1492.1540), per l’opera gli “Anti-Catone di Cesare”.
Queste favole non
avevano toccato anche Tito Livio? Sono più di venticinque anni che l’attendono
da Chio. Qualcuno ha detto (cit. da Antoine de la Faye nella Prefazione di Tito Livio) che si trova completo in Arabia alla Goletta.
Altri hanno detto che si trova nella stessa lingua nella Biblioteca
dell’Escurial.
LA RICHIESTA
DELLA REGINA
CRISTINA DI SVEZIA
A |
llo stesso modo si è
voluto dire che il Libro dei tre
Impostori si trova presso Monsieur Salvius, plenipoptenziario di Svezia a
Munster e che la regina Cristina, non aveva voluto chiederglielo quando era in
vita sapendo bene che lo avrebbe chiesto inutilmente e quando era morto, aveva
mandato M.eur Boourdelot, suo primo medico, pregando la vedova di soddisfare
questa curiosità; ma le era stato risposto che il malato, preso dai rimorsi di
coscienza, alla veglia della morte, nella camera, aveva fatto gettare il libro
nel fuoco del caminetto.
Era press’appoco
nello stesso tempo che la regina aveva fatto cercare il “Colloquium heptaplomeres” (*) di Bodin, manoscritto allora raro.
Dopo una lunga quiete riuscì infine a trovarlo, ma per la passione che essa
aveva avuto per il Libro dei tre
Impostori e le ricerche che aveva fatto fare presso tutte le Biblioteche
d’Europa, alla fine essa è morta, senza averlo potuto ottenere, per cui non
faccio alcuna difficoltà ad affermare assolutamente che esso non esiste, perché
se fosse esistito, Cristina lo avrebbe certamente scoperto.
Chrétien Korthoit
che ha dato il titolo “De tribus
Impostoribus” al suo libro contro Herbert, Hobbes e Spinoza, non ha omesso
di dire, con molta sicurezza, nella sua Prefazione,
di aver visto il vero “Trattato dei tre
Impostori” nelle mani di un libraio di Basilea.
*) “Coloquium heptaplomeres
de rerum sublimium arcanis abditis”: Dialoghi delle sette parti sugli
arcani misteri. Sette personaggi (parti, come in una causa giuridica)
discutono, nella libera Venezia, su problemi religiosi e specialmente sulla
tolleranza; essi sono Salomone Barcassia saggio ebreo; Diego Toralba,
Portoghese, in difesa della religione naturale; il calvinista Curtius; il
misterioso e antitrinitario Senamus, imbevuto degli ideali del Rinascimento; il
luterano tedesco Frideric Ponamicus; il cattolico veneziano Paolo Coronaeus e
il Lucchese convertito all'islamismo Ottavio Fagnola.
In particolare, per bocca di Barcassia, Bodin lotta contro il
verbo di Cristo (in quanto esso avrebbe spezzato una tradizione millenaria già
esistente) e, senza pur unirsi per le sue affermazioni agli “atei” dell'epoca, combatte il
trinitarismo e ogni legge religiosa che si allontani dai dettami del Vecchio
Testamento.
La ragione fa sentire la sua voce, dopo la prima rivelazione di
un Dio trascendente e unico: né Cristo, né Maometto, né l'antichissimo Giove
possono recare alcun contributo a chi già è nella Legge. Così nei contrasti dei
vari personaggi (in cui si è anche voluto vedere il riflesso di diversi
atteggiamenti spirituali dell'autore, o almeno dei vari momenti della sua vita
di pensatore e di polemista) spiccano le affermazioni in lode della scienza e
della natura, pur combattuta direttamente contro il Machiavelli del Principe. Notevole
la necessità di una Chiesa organizzata con severità e rigore giuridico come
quella calvinista, e anche una simpatia assai viva verso la tolleranza intesa
quale modo di convivenza sociale (Carlo Cordié).
POSTEL IL PRIMO
AD AVER PARLATO
DELL’ESISTENZA DEL
LIBRO
P |
ostel (Guillaume,1510-1581), che
come ho detto, è stato il primo ad aver parlato del libro come esistente, lo
aveva annunciato nel 1543; Florimond de
Raemond non lo fa comparire che nel 1556;
altri, come farò rilevare più avanti, indicano altre epoche.
A chi di essi si
dovrà attribuire il tempo della scoperta? Per me, sono persuaso che essa non sia
mai stata che immaginaria.
Il “quodlibet”, il motivo per il quale il mondo è stato sedotto da tre bari,
continuamente ribattuto dai libertini, avrà dato a qualcuno di essi l’occasione
di dire che aveva un buon motivo per
esercitare il suo spirito e che sarebbe stato un buon soggetto del libro.
Questa idea essendo piacevolmente accolta non ha avuto bisogno, per diffondersi
nel mondo, di far rumore sul preteso Libro
dei tre Impostori.
L’avidità
dei curiosi ha fatto loro raccogliere
certe novità con tanto maggior piacere, da farle ritenere veritiere. Gli uomini
più increduli non potevano liberarsi da certe immagini delle pene che si
apprendevano inflitte nell’alro mondo e trovavano in questi racconti, cercati
nel libro, il modo di liberarsi delle loro paure. Alcuni fingevano di averlo
visto; esso era come il segreto della pietra
filosofale che erano in molti a cercarla e qualcuno si vantava di averla
scoperta, ma nessuno l’ha vista realmente.
Una
ragione che dopo qualche anno può aver aiutato a far credere che il Libro non fosse una chimera e che era
stato veramente stampato, è stato che il libro fu utilizzato da Kortholt l’anno
1680, contro i tre autori che ho nominato innanzi, ventisei anni prima dal
medico e matematico Jean Baptiste Morin (1583-1656), sotto il nome di Vincentius Panurgus, contro tre dei suoi
avversari, Gassendi, Neudé e Bernier.
Da
dove viene che degli uomini senza erudizione ai quali, qualcuno, abusando della
loro credulità, abbia mostrato, come di sfuggita, la parte superiore del titolo
dell’uno o dell’altra di queste opere, assicurando arditamente di aver visto il
libro di cui si tratta e prima di esserne così ingannati abbiano ingannato
altri che si sono fidati della loro testimonianza.
Senza arrestarmi all’epoca della scoperta del libro, che mi dice
poco se nel tempo in cui è potuto apparire, è possibile che nessuno si sia
levato a confutarlo?
Abbiamo visto i Pre-Adamiti di La Peyrére (Isac,1596-1670) il “Traité Theologico-politque” di Spinoza,
combattuto da non so quanti autori che hanno voluto come soffocarlo fin dal
momento della nascita.
La stessa opera di Bodin, tanto rara e manoscritta com’è, non ha
potuto sottrarsi alla critica. Il Libro
dei tre Impostori il cui solo titolo
fa paura, meritava una maggior grazia? Come si spiega che non è mai stato
censurato? Che non è mai stato riportato alcun passaggio sicuramente estratto
dall’originale? Come mai non è mai stato inserito nell’Index? Che non vi è mai stato nessuno che abbia emesso l’ordine di
soppressione degli esemplari? Che non è mai stato bruciato? I libri contro i
buoni costumi, qualche volta sono tollerati, ma quelli come questo, che
attaccano il fondo della religione non rimangono mai impuniti. Non vi è dunque
nessuna apparenza che il libro abbia visto la luce del giorno. Non si insiste
sulle circostanze dedotte da Florimond de Raemond. Esse mi rendono la cosa più
sospetta. Egli ha tenuto a riferire di essere ancora un ragazzo quando ha visto
il libro, per evitare di rispondere su particolari che avrebbero potuto
domandargli. Egli cita Ramus, che essendo morto da trent’anni non era più in
grado di convincerlo con le menzogne. Egli cita Hofius e Génébrard, ma in
termini vaghi senza specificare i titoli delle loro opere. Egli dice che
facevano passare di mano in mano questo libro che mi sembra che avessero voluto
tener chiuso sotto chiave per non volerlo lasciar vedere che in segreto senza
consegnarlo.
THOMAS BROWNE
RITENEVA CHE IL LIBRO
FOSSE OPERA DI OCHINO
T |
homas Browne (1605-1682) nel suo libro intitolato “Religio Medici”, tradotto dall’inglese in latino da Jean
Merrivheather, riteneva (rimarcandolo con asterisco) che secondo lui il libro
fosse opera di Bernardino Ochino morto piuttosto come deista, che ateo.
Moltkius, in una sua nota su questo argomento di Browne, non
assicura che questo libro fosse di Ochino; rilevando che il libro era scritto
in latino e che Ochino non scriveva che in italiano e se si dovesse supporre
avesse preso parte a quest’opera, i suoi avversari che avevano fatto tanto
rumore per qualcuno dei suoi Dialoghi,
che avevano toccato la Trinità e la poligamia, non gli avrebbero perdonato il Trattato dei tre Impostori.
Per di più, come mettere insieme Browne e Génébrard? Ochino,
secondo Browne non era settario di Mosè, né di Gesù Cristo, né di Maometto e
poteva fare un processo ai tre legislatori, ma secondo Génébrard che tratta di
Maometto, egli era obbligato a fare grazia a Maometto. Sarebbe in verità molto
piacevole rilevare la poca conformità che si riscontra tra gli autori ai quali
si pretende di attribuire il Libro.
Da una parte, come abbiamo notato, Naudé per un ridicolo
disprezzo, credeva che esso fosse di Arnaud de Villeneuve scrittore rozzo e
barbaro. D’altra parte, Henri Ernstius, dichiara, trovandosi a Roma, di aver
sentito dire da Campanella che fosse opera di Muret (Marc’Antoine 1526-1585),
srittore elegante e di lingua latina, posteriore di più di due secoli di Arnaud
de Villeneuve.
Se la testimonianza di Ernistius è sincera, o Campanella ha
cambiato allorché nella Prefazione del suo “Atheismus triunphans”, ma più espressamente ancora nella sua
questione del “Gentilissimo non
retinendo”, egli ha detto che l’opera sia partita dalla Germania; o è da
supporre che egli non avesse che l’edizione della Germania, ma che la composizione
fosse di Muret, ciò che fa ritenere che il Libro fosse stato creato in Germania
dove era stato stampato.
Muret accusato di falso, come proverò alla fine di questa
Lettera, non ha bisogno di alcuna apologia. In verità la sua avventura di
Toulouse gli ha fatto torto essendo la sua religione stata giudicata dai suoi
costumi. Gli ugonotti sapendo che egli apprezzava la loro dottrina, lo avevano
abbandonato definitivamente senza prestargli aiuto nel momento del bisogno.
Beze (Theodore, 1519-1605), nella sua “Historia Ecclesiastica”, gli ha rimproverato due crimini di cui il
secondo è l’ateismo. Joseph Scaliger (1540-1609) indispettito nei suoi
confronti per una bagatella di erudizione, non gli aveva reso maggior
giustizia. Muret, aveva detto maliziosamente, sarebbe il miglior cristiano del
mondo se egli credesse in Dio così bene da farsi ritenere credente.
Dei
compilatori idioti che non hanno alcuna idea
di ciò che si chiama critica, a torto
hanno espresso la prima che si era loro presentata; un Etienne Dolet d’Orleans,
un Francois Pucci di Firenze, un John Milton (autore di Paradiso Perduto 1608-1674) di Londra un, io non so qual Merula, falso
maomettano. Qualcuno, senza considerare che Pier Bacci d’Arezzo, detto
volgarmente l’Aretino, uomo di grande ignoranza, senza studi e senza letture,
che non conosceva che la lingua materna e parlava come uno scrittore molto
licenzioso, era desideroso di renderlo autore del
libro.
Quelli che hanno detto che fosse stato Poggio (Bracciolini,
1380-1459) si sono fondati sullo stesso motivo. Altri sono risaliti fino al
Boccaccio (Giovanni, 1313-1375), senza dubbio a causa del terzo racconto del
Decamerone dove è riportata la parabola dei tre anelli collegati, di cui fa una
pericolosa applicazione alla religione giudaica, alla cristiana e alla
maomettana, insinuando, così sembra, che si possa abbracciare indifferentemente
l’una delle tre, facendone motivo di preferenza.
Sono sorpreso che siano stati dimenticati Machiavelli e Rabelais,
ma poi ho trovato che Rabelais non era sfuggito a Decker; che l’olandese che ha
tradotto in francese il libro di
religione del medico Browne, nelle sue note
sul cap. 20, oltre a Machiavelli nomina
anche Erasmo. Egli sarebbe stato meno stravagante se acesse indicato al posto
di quest’ultimo, Pomponazzi o Cardano.
Pomponazzi (Pietro, 1462-1525) nel cap. quattordicesimo del suo “Trattato sull’immortalità dell’anima”, ragionando
da puro filosofo e ipotizzando la creazione cattolica, alla fine del libro osa
dire che la dottrina dell’immortalità dell’anima è stata inserita da tutti e
tre i fondatori delle religioni per contenere i popoli nei loro doveri, nei
quali tutti o parte di essi sono divisi
in due: poichè è da supporre, aggiunge, che non vi sono che tre religioni,
quella di Gesù Cristo, di Mosé e di Maometto: se tutte e tre sono false, è
tutto il mondo ad essere stato ingannnato; se ve ne sono due false è la più
gran parte del mondo ad essere stato ingannato.
Ragionamento scandaloso che nonostante tutte le precauzioni di
Pomponazzi ha dato a Jaques Charpentier (1524-1574) la possibilità di
ricredersi: Quid vel hac sola dubitatione
in Christiana schola cogitari potest perniciosus? (Che cosa può essere considerato pernicioso
nella scuola cristiana solo con questa esitazione?).
Cardano
(Gerolamo, 1501-1576), fa ancora di più di Pomponazzi; nell’undicesimo dei suoi
libri sulla “Sottigliezza” (“De
subtilitate Libri XXI”) egli paragona succintamente le quattro
religioni generali, dopo averle fatte disputare
l’una contro l’altra, senza che si dichiari per qualcuna di esse, egli chiude
bruscamente il discorso dicendo: Igitur
his arbitrio victoriae relictis (lasciandoli quindi al capriccio della
vittoria). Ciò che significa in buon francese che egli lascia al caso decidere
della vittoria.
Parole
che correggerà egli stesso nella seconda edizione sulle quali si lasciarono
passare tre anni quando furono riprese aspramente da Jules Scaliger (Giulio
Cesare Scaligero 1484-1558) a causa del terribile senso che esse mostravano e
dell’indifferenza che marcavano dalla parte di Cardano, riguardo alla vittoria
che uno dei quattro partiti, chiunque esso fosse, potesse riportare sia per la
forza della ragione sia per la forza delle armi.
Mi
degnerò di citare, signore, Naudeana (et
patiniana, ou singulariez remarquable di Gabriel Naudé e Guy Patin; il
libro tocca diversi argomenti di conversazione e riflessione, ndr.).
E’ una
rapsodia di sviste e falsità, l’ultimo articolo delle quali contiene delle ricerche confuse sul libro dei
tre impostori. Vi è detto che Ramus l’attribuiva a Postel: ma, ritengo, non si
troverà nessuna indicazione negli scritti di Ramus. Poiché Postel ha una
singolare opinione e Henri Etienne riferisce (Traicté preparatif a l’apologie d’Herodote, pag. 106 edit. 1566) di aver sentito dire che delle tre religioni,
giudaica, cristiana e maomettana, ne può uscire una buona e lui in nessuna
delle sue opere ha attaccato la missione di Mosè e non ha dubitato della dìvinità
di Gesù Cristo; non ha neanche difeso in termini precisi la religiosa
ospitaliera veneziana che egli chiamava madre
Giovanna la quale era redentrice delle donne, come Gesù Cristo era
redentore degli uomini. Solamente dopo aver detto che nell’uomo la parte
maschile era l’animo, e l’ anima la femminile, aveva avuto la
follia di aggiungere che queste due parti che erano state corrotte dal peccato
(originale), la madre Giovanna aveva redento l’anima femminile, come Gesù
Cristo aveva redento l’animo maschile.
Il
libro in cui parlava di queste stravaganze era stato impresso a Parigi, in
16ma, l’anno 1553 sotto il titolo delle “Trois
merveilleuse victoires des femmes”,
e non è divenuto così raro che non si trovino facilmente molti esemplari; per di più è stato visto chi ha pubblicato i Tre Impostori, se è vero che sia giunto a questo eccesso di
empietà. Nel 1543 aveva dichiarato che l’opera era di Servet che non si era
fatto scrupolo per vendicarsi degli ugonotti, suoi calunniatori, di imporre con
una lettera che scrisse a Mafius l’anno 1563, d’aver fatto stampare il libro a
Caen.
Ora
ritorno a Naudeana. Si parla di un
certo Barnaud in termini così intricati da non far capire niente, a meno di
aver visto un libro inttitolato “Le Magot Genevois”. E’ un in 8,° di 98
pagine stampato nel 1613 senza nome del luogo. L’autore che non si nomina
affatto ma che io credo si tratti di Henri de Sponde, poi vescovo di Pamiez,
che dice che in quel tempo un medico di nome Barnaud, convinto di arianesimo,
aveva scritto il Libro dei tre Impostori
che era di fresca data. Ciò che vi è di più ragionevole in quest’ultimo
articolo di Neaudeana è di far dire a
Naudé, uomo di esperienza infinita in materia di libri, che egli non aveva mai
visto quello dei tre impostori che riteneva non fose mai stato stampato e che
riteneva una favola tutto cio che vi si raccontava.
Io posso
aggiungere a questo catalogo il famoso ateo Giulio Ceare Vanini, bruciato a
Tolosa nel 1619 col nome di Lucilio Vanino accusato di aver sparso questo libro
in Francia qualche anno prima del suo supplizio. Non vi sono degli scrittori
semplicemente creduli, gente priva di senso comune che possa ammettere queste
impertinenze e assicurare che il libro si vendeva pubblicamente in diverse
parti d’Europa non rendendosi conto da ciò che le copie non dovevano essere
tanto rare. Una sola copia avrebbe risolto la questione. Ma non se ne vedeva
nessuna che si supponeva fossero state stampate, sia da Chretien Wechel a
Parigi, verso la metà del secolo sedicesimo, sia da parte di Nachtegal a Le
Haye nel 1614 o 15.
Il
Padre Theophile Raynaud, dice che il primo, ricco che fosse, cadde per
punizione divina in estrema povertà. Mullerus dice che il secondo fu scacciato con ignominia. Bayle, nel suo dizionario, alla parola Wechel
ha solidamente rifiutato la favola che gli attribuisce questo imprimatur. Riguardo a Nachtegal,
Spicelius riferisce che quest’uomo che era di Alcmar fu cacciato da Le Haye non
per aver pubblicato il libro dei tre impostori, ma per aver profferito qualche
blasfemia di certa specie.
Io
concludo col dire che dopo aver letto con molta pazienza e attenzione ciò che
Vincent Placcius (1642-1699), nell’edizione in
folio della sua vasta opera “De
Anonymys et pseudoanonuymis”, Chretien Kortholt (1709-1751) nel suo libro “De tribus Impostoribus”, rivisto da suo
figlio Sebastiano e infine Struvio (Georg
Adam Struve, 1619-1692) nell’edizione del 1706 della “Dissertazion de doctis impostoribus”, hanno scritto sullo stesso
soggetto, io non ho trovato niente, nelle loro ricerche che mi abbia obbligato
a rilasciare tanto poco dei miei sentimenti.
Sono
molto meravigliato di Struvius il quale, malgrado le prove, le più specifiche
menzionate che gli ha potuto offrire Tentzelius dell’esistenza del libro, si è
sempre mantenuto, come ho precisato più avanti, fermo sulla negativa, si è poi,
non so come, dedicato alla più frivola delle ragioni che si possa immaginare.
Ecco
il fatto: In una Prefazione anedottica dell’ “Atheismus triunphatus” di Campanella, che gli era caduta tra le
mani, aveva trovato che l’autore, per discolparsi del crimine che gli si
imputava, di aver scritto il Libro de
tribus impostoribus, rispondeva che questo libro aveva visto il giorno trent’anni
prima che egli venisse al mondo. Cosa meravigliosa. Questa risposta campata in
aria, a Struvio era parsa tanto dimostrativa che Struvio aveva cessato di dubitare
dell’esistenza del libro, concludendo di esserne ora sicuro, per cui non era
più permesso di ignorare il tempo della pubblicazione che, avendo preceduto di
trent’anni la nascita di Campanella avvenuta nel 1568, cadeva di conseguenza
nell’anno 1538.
Da
questa data, andando con le sue scoperte più lontano, egli si era convinto di ritenere
Boccaccio autore del Libro, ciò che
egli cerca di provare con una cattiva interpretazione di un altro indirizzo di
Campanella, che non ricordava o non voleva ricordare, che questo aveva detto a
Ernisius che l’opera era di Muret. Ma che Struvio scegliesse Muret o Boccaccio
egli non guadagnava di più dall’uno o dall’altro.
Se in
effetti fosse stata di Boccaccio ne sarebbe seguito che secondo Campanella il
libro dei tre impostori non sarebbe stato che la terza novella del Decamerone.
Se fosse stato di Muret si trovava che essendo nato nel 1526 egli non poteva
aver composto il libro nel 1538, preteso anno della sua stampa, quando aveva
dodici anni, età in cui non si può pensare avesse potuto comporre un tale
scritto.
Io
penso dunque di non aver avuto il torto di dire che Struvius, per il suo onore,
dovrebbe tornare alla sua prima opinione. Per quanto mi riguarda io persisterei
invariabilmente nella mia, fino a quando non si stabilisca con migliori prove,
l’esistenza presente o almeno passata del Libro di cui si parla.
Io
parlo di esistenza passata; poiché si è costantemente affermato che il libro
era stato certamente stampato, oggi ne resterebbe qualche esemplare. Tali sono
per esempio le opere di Servet, per mezzo delle quali si può trovare Sandius
nella biblioteca degli Anti-Trinitari e M. Simon, la sua “Histoire critique des commentateur du Nuveau Testament”.
Ad
Amsterdam era stato stampato il “Cymbalum
mundi”, libro che Bonaventure Périers (1515-1544), aveva stampato col nome
di Thomas du Clavier, scritto in Francia, che nella Prefazione dice di averlo tradotto dal latino.
Tale
infine, per non entrare in un più lungo elenco, è il piccolo volume intitolato “La béatitude des Chretiens, ou le fleau de
la foi” (La beatitudine dei cristiani o la disgrazia della fede), dal quale
l’autore Geoffroi Vallée d’Orleans fu appeso e bruciato in Gréve il 9 febbraio
1573, dopo aver abiurato i suoi errori (*).
Libro
di tredici pagine in 8°, stampato senza nome del luogo, molto criticato, ma per
il resto così raro che l’esemplare posseduto dal signor abate d’Estrées si può dire che oggi sia l’unico.
Quando
io dico che questi libri sono totalmente periti, non si può dubitare che essi
non esistano perchè la loro storia è vera mentre quella del libro dei tre
impostori è apocrifa.
Ecco,
signore, ciò che ho inteso dirvi su quest’ultimo. Voi siete, senza dubbio il
giusto soggetto che mi possa comprendere. Io ho promesso di dirvi poche parole e
sono alla ventiduesima pagina. Ho trascritto, veglia su veglia, su questi fogli,
ciò che confusamente era nella mia memoria. Ho finito col ricavare e
sbrogliare, ricorrere alle fonti, verificare articolo per articolo; in buona
fede non credevo di aver avuto tanto da
dire.
Vi
chiedo scusa, Signore, e vi assicuro di non essere stato così accorto da cadere
in questa colpa.
Parigi
il 16 di Giugno 1712.
*) Menage in nota chiarisce che il fondo della dottrina di questo
Vallée, indicato anche come Francois Godefroi du Val, tradotto in latino come
Godefridus ou Gothofredus a Valle, non è l’ateismo propriamente detto, ma un deismo comodo, che non consiste nel
riconoscere un Dio senza crederlo e senza aspettarsi alcuna pena dopo la morte.
Su ciò, Maldonat, contemporaneo de la Vallée, avendo detto nel suo “Commentario” al cap. 26 di S. Matteo che
un libertino del suo tempo aveva scritto un “Traité de l’Art de ne croire” (Ttrattato dell’arte di non credere),
“libellum
de arte non credendi”, molti prendendo le sue parole alla lettera,
hanno creduto che essa fosse latina e avesse per titolo “Ars” o “De arte nihil
credendi”, non potendo intuire che Maldonat avesse voluto, per propria
iniziativa, esprimerlo in francese con “Fleau
de la foi” (disgrazia della fede).
LA
POLEMICA
TRA DE LA
MONNOYE
E
FILOMNESTE
P |
ietro
Federico Arpe di Kiel nell’Holstein, autore della “Apologia di Vanini”, stampata a Rotterdam nel 1712, sotto il nome
di Filomneste il Giovane, aveva pubblicato un articolo, sotto forma di lettera,
con la quale diceva di rispondeere “a una
specie di dissertazione” (pubblicata in Menagiana,
IV, 1716) “su un argomento sul quale
pareva che in questo paese tutti gli eruditi volessero esercitare la loro
critica e nello stesso tempo discolpare molti uomini valenti che si facevano
passare per autori del libro”.
Tale
dissertazione era attribuita al signor de La Monnoye (Bernard, avvocato, poeta,
filologo e critico letterario,1641-1728), il quale gli dava l’occasione di
parlare del libro “De tribus impostoribus”,
che de La Monnoye riteneva non
esistesse e, affermava Filomneste, “si
industriava di provare la sua opinione con congetture, senza addurre alcuna prova atta a colpire un animo abituato a non
sopportare che si voglia dargliela a intendere”.
Senza
stare a confutare punto per punto questa dissertazione, scriveva Filomneste,
che nulla contiene di ciò che non sia stato già detto in una dissertazione
latina di Burchard Gottheffie Struve, stampata per la seconda volta a Genova da
Muller nel 1706 (vista dall’autore che la cita).
Io
possiedo un espediente, proseguiva Filomneste, ben più sicuro per confutare la
dissertazione di La Monnooye, di aver visto
“meis oculis” il famoso
libricciuolo “De tribus impostoribus” e
che ho qui, nel mio studio, e racconterò il modo in cui sono venuto a scoprirlo
ed esaminarlo di cui darò un breve e fedele sunto.
Nel
1706 mi trovavo a Francoforte sul Meno e un giorno ero nella bottega di uno dei
librai meglio provveduti di libri di ogni genere, insieme a un ebreo e a un
amico chiamato Frecht, allora studente in teologia. Stavamo esaminando i
cataloghi del libraio, quando vedemmo entrare nella bottega, una specie di
ufficiale tedesco il quale, rivoltosi al libraio, gli diceva in lingua tedesca
che voleva concludere quel loro affare, altimenti sarebbe andato altrove.
Frecht che conosceva l’ufficiale che si chiamava Trawsendorff, gli chiese che
affare avesse da concludere con il libraio.
Trawsendorff
gli rispose che possedeva due manoscritti e un libro antichissimo e voleva
realizzare un piccolo peculio e che
il libraio la stiracchiava per cinquanta risdalleri,
volendo sborsarne quattrocentocinquanta, invece dei cinquecento richiesti.
Questa
grossa somma per due manoscritti e un libriciattolo, eccitò la curiosità di
Frecht che chese all’amico se non si potessero vedere i libri che voleva
spacciare a così caro prezzo. Trawsendorff trasse subito di tasca un pacchetto
in pergamena, legato con un cordoncino di seta che aprì, traendone i libri.
Entrammo nel magazzino del libraio per esaminarli più liberamente e il primo
che Frecht aprì era quello stampato che portava il titolo scritto a mano al
posto del titolo vero che era stato lacerato.
Il
titolo era “Specchio (vedi sotto!) della Bestia trionfante” la cui stampa non pareva antica: io
ritengo che si trattasse della stessa copia di cui Toland pubblicò una
traduzione inglese, da qualche anno, i cui esemplari si sono venduti a caro
prezzo.
Il
secondo, un vecchio manoscritto latino, di scrittura piuttosto intralciata, non
portava alcun titolo, ma in cima alla pagina, con caratteri abbastanza grandi, era
scritto: Othoni illustrissimo amico meo
carissimo F.I.S.D. e l’opera cominciava con una lettera, della quale ecco
le prime righe: Quod de tribus
famosissimi nationum deceptoribus in ordinem jussu meo digessit doctissimus
ille vir, etc. .
L’altro manoscritto era pure latino e senza titolo e cominciava con queste parole, che
sono di Cicerone, nel primo libro del “De
natura deorum”: Qui vero Deos esse
dixerunt tanto sunt in veritate et dissensione constituti, ut eorum molestum
sit annumerare sententias [...].
Frecht,
dopo aver sfogliato in fretta e furia i tre libri, si fermò al secondo, di cui
aveva spesso sentito parlare e intorno
al quale aveva letto storie diverse e senza più curarsi degli altri due, tirò
in disparte Trawsendorff e gli disse che avrebbe trovato dovunque chi sarebbe
stato disposto a comperargli quei tre libri.
Non si
parlò più del libro italiano e quanto all’altro concludemmo, leggiucchiando quà
e là qualche frase che conteneva un sistema di ateismo. Poiché il libraio si
tenne fermo alla prima offerta e non volle accordarsi con l’ufficiale, uscimmo
e ci recammo nell’abitazione di Frecht il quale, avendo le sue mire, fece
portare del vino e pregato Trawsendorff di raccontarci come quei libri erano
caduti nelle sue mani, mentre lo inducemmo a vuotare tanti bicchieri che vi
annegò la ragione e Frecht ottenne senza molta fatica che gli lasciasse il
manoscritto “De tribus famosissimis
Deceptoribus”, non senza vincolarci con esecrabile giuramento, che non lo
avrenno copiato. A tali condizioni divenimmo possessori dalle dieci della sera
del venerdì, sino alla sera della domenica, quando Trawsendorff sarebbe tornato
a riprenderlo e vuotare alcuni fiaschi di quel vinetto che gli era andato tanto a sangue.
Poiche
non ero meno smanioso di Frecht di conoscere il libro, ci mettemmo tosto a
leggerlo, deliberati di non dormire fino alla domenica. Il libro era voluminoso?,
domanderete. Niente affatto. Era in 8° grande, di dieci fogli, senza la lettera
posta in principio, ma scritto con carattere minuto e zeppo di tante
abbreviature, senza punti né virgole, che arrivammo a gran fatica a decifrare
la prima pagina in capo a due ore; ma poi la lettura si fece man mano più
agevole.
Allora
mi venne in mente di proporre al mio amico Frecht un espediente: di equivoco
alquanto gesuitico per procurarci una copia, senza violare il giuramento fatto
(ad mentes interrogantis) di non
copiarlo. Era presumibile che Trawsendorff, esigendo che il libro non fosse
copiato, intendeva che non fosse trascritto; la scappatoia consisteva nel farne una traduzione. Frecht, dopo
qualche esitazione acconsentì e ci ponemmo a tradurre il testo.
A
mezzanotte il libro era copiato e passai a limare quella frettolosa traduzione
e ciascuno ebbe la sua copia, concertando di non parlarne ad anima viva.
Quanto
a Trawsendorff, ebbe i suoi cinquecento risdalleri
dal libraio che lo acquistava per conto del principe della Casa di Sassonia il
quale seppe come questo libro era stato sottratto dalla biblioteca di Monaco,
quando, dopo la sconfitta dei francesi e bavaresi a Hochstet, gli alemanni si
impadronirono di questa città, dove Trawsendorff, come egli stesso ci raccontò,
essendo entrato d’appartamento in appartamento sino alla bibloteca di S.A. l’elettore,
cadutogli sotto gli occhi quel pacchetto di pergamena con quel cordone di seta
gialla, non seppe resistere alla tentazione di cacciarselo in tasca,
sospettando potesse contenere qualche oggetto prezioso; e non si ingannava!
Per
compiere la storia di questo libro, restano da dire le congetture di Frecht e
mie intorno alla sua origine.
Inanzitutto
ci trovammo d’accordo nel ritenere quel “carissimo
Othoni” della dedica, non fosse che Ottone l’illustre duca di Baviera,
figlio di Ludovico I e nipote di Ottone il Grande, conte di Shiven e Witteelspach
al quale l’imperatore Federico Barbarossa aveva ceduto la Baviera in
riconoscimento della sua fedeltà, togliendola a Enrico il Leone per punirlo
della sua ingratitudine.
Ora
questo illustre Ottone, successe a suo padre Ludovico I nel 1230, durante il
regno di Federico II, nipote di Federico Barbarossa, nel tempo in cui questo
imperatore aveva rotto con la corte romana, al suo ritorno da Gerusalemme; ciò
che ci fece congetturare che il monogramma F.I.S.D. che seguiva l’ amico meo carissimo, significasse Federicus Imperator salutem dicit. Congetture dalle quali dover
dedurre che il trattato “De tribus
Impostoribus” fu composto dopo
l’anno 1230, per ordine di questo imperatore, aizzato contro i cattivi
trattamenti ricevuti dal suo capo, allora Gregorio IX, dal quale fu scomunicato
prima che partisse per la terra Santa, e perseguitato fino alla Siria dove, a
forza di intrighi indusse l’esercito ad ammutinarglisi.
Questo
principe, al suo ritorno, pose l’assedio a Roma saccheggiando le province
circostanti; in seguito concluse una pace che non durò a lungo, ma fu seguita
da una violenta animosità fra imperatore e sommo pontefice che non si spense se non con la morte di
quest’ultimo che morì di dolore(1241) nel vedere Federico trionfare dei suoi
vani fulmini e smascherare i vizi del santo padre nei versi satirici che fece
divulgare in Germania, Italia e Francia.
Ma non
ci venne di scoprire chi fosse i doctissimus
vir con cui Ottone si era intrattenuto intorno a quella materia, nel
gabinetto reale e probabilmente in compagnia dell’imperatore, se non si dica
che sia stato il celebre Pier delle Vigne, segretario, o come altri vogliono,
cancelliere, di Federico II.
Il
trattato di costui “De potetsate
imperiali” e le “Epistole” ci
fanno sapere quanto grande fosse la sua erudizione, lo zelo che aveva per gli
interessi del suo signore e l’astio che lo animava contro Gregorio IX, gli
ecclesiastici e le chiese del suo tempo.
E’
vero che in una delle sue epistole si studia di scolpare il suo signore, accusato
sin d’allora di essere l’autore di questo libro; ma ciò potrebbe appoggiare la
nostra congettura e far credere che egli forse non abbia patrocinato Federico,
perché non fosse posta a suo carico un’opera così scandalosa; forse egli stesso
ci avrebbe tolto ogni pretesto di fare simili supposizioni, confessando la
verità, se, quando Federico, sospettando che avesse cospirato contro la sua
vita, non lo avesse condannato ad essere accecato e abbandonato nelle mani dei
pisani, suoi acerrimi nemici e la disperazione non avesse accelerato la sua
morte in una infame prigione, dove non poteva comunicare con anima viva.
Ed
ecco distrutte tutte le false accuse contro Averroé, il Bocacccio, Dolet,
l’Aretino, Serveto. Ochino, Postel, Pomponazzi, Campanella, Poggio, il Pulci,
il Mureto, il Vanini, Milton e diversi altri; e risulta che il libro fu
composto da un dotto di prima levatura, alla corte e per ordine di Federico, e
si ritenne che esso fosse anche stampato (sic! la stampa era ancora di là da
venire! ndr.), ciò che non e molto
probabile, poiché si può credere facilmente che Federico, circondato com’era da
nemici, non avrà voluto divulgare un tal libro che avrebbe offerto una bella
occasione di propalare la sua irreligiosità. E può darsi che non ne sia
esistito mai altro che l’originale e
questa copia mandata ad Ottone di Baviera.
E ciò
mi pare possa bastare per quanto riguarda la scoperta del libro e il tempo in
cui fu scritto; ora ecco cosa contiene.
CONTENUTO
DEL LIBRO
DEI TRE
IMPOSTORI
I |
l
libro è diviso in sei libri o capitoli, ognuno di quali è diviso in diversi
paragrafi; il primo capitolo ha per titolo “Di
Dio” e contiene sei paragrafi in cui l’autore, per farsi conoscere spoglio
da qualsiasi pregiudizio e di educazione o di partito, mostra che, sebbene gli
uomini abbiano interesse peculiare di conoscere il vero, non pertanto essi non
si pascono che di opinioni o di immaginazioni e che essendovi persone cui torni
conto di intrattenerli in ciò, vi restano invischiati, perché possano facilmente scuoterne il giogo,
non facendo che piccolissimo uso della loro ragione.
Quindi
passa alle idee che abbiamo della divinità e prova che le recano ingiuria, come
quelle che fanno di Dio l’essere il più spaventoso ed imperfetto che vi possa
essere; se la prende con l’ignoranza dei popoli o piuttosto con la loro goffa
credulità che presta fede alle visioni di profezie di apostoli, dei quali fa un
ritratto conforme all’idea che egli si è formato.
Il secondo
capitolo tratta delle ragioni che hanno spinto gli uomini a figurarsi un Dio: è
diviso in undici paragrafi nei quali si prova che dall’ignoranza delle cause
fisiche derivò un naturale timore alla vista di mille terribili casi, il quale
fece nascere l’idea che esista qualche potenza invisibile; tema e sospetto,
dice l’autore, di cui i sagaci politici seppero far uso a norma dei propri fini
e diedero voga all’opinione di detta esistenza, confermata da altri che vi
trovavano il loro tornaconto e radicatosi negli animi per la stoltezza della
moltitudine sempre ammiratrice dello straordinario, del sublime, del
meraviglioso.
Poi
esamina qual sia la natura di Dio e atterra la volgare opinione delle cause
finali, come contrarie alla sana fisica: finalmente prova come l’uomo non si
sia fornmata questa o quella idea della divinità, se non dopo aver giudicato ciò
che è perfezione, bene, male, virtù, vizio; giudizio fatto dall’immaginazione o
spesso il più falso che sia; donde poi derivarono le false idee che ci formiamo
e conserviamo intorno alla divinità.
Nel
decimo paragrafo l’autore spiega a modo suo ciò che Dio è e ne dà una nozione
conforme al sistema dei panteisti, dicendo che la parola di Dio ci rappresenta
un ente infinito, uno degli attributi il
quale è di essere una sostanza estesa e per conseguenza eterna e infinita.
Nell’undecimo
volge in beffa l’opinione volgare che si fugura Dio in tutto simile ai re della
terra e, passando ai libri sacri, nel parla in modo molto svantaggioso.
Il
terzo capitolo ha per titolo ciò che significa la parola religione, come e perché ne sorse sulla terra numero così grande.
Questo
capitiolo conta ventitre paragrafi. Nei primi nove l’autore esamina l’origine
delle religioni e con esempi e ragionamenti stabliisce che, ben lontane
dall’essere divino, sono anzi tutte opere della politica.
Nel
decimo pagarafo pretende svelare l’impostura di Mosé, mostrando chi egli fu e
quale fu il modo adoperato per fondare la religione giudaica,
Nell’undicesimo,
esamina le imposture di alcuni uomini politici come Numa e Alessandro. Nel
dodicesimo passa a Gesù Cristo del quale esamina i natali; nel tredicesimo e
seguenti, parla intorno alla sua politica; nel diciassettesimo e in quello che
segue, esamina la sua morale che non trova molto più pura di quella di molti
antichi filosofi; nel decimonono esamina se la fama che ottenne dopo la morte,
abbia contribuito a deificarlo e, finalmente, nel ventesimoterzo parla
dell’impostura di Maometto del quale non dice grandi cose, perché non si
trovano tanti avvocati della dottrina, come di quella degli altri due.
Il
quarto capitolo contiene verità sensibili e manifeste e non conta che sei
paragrafi, dove l’autore dimostra ciò che è Dio e quali sono i suoi attributi;
e rigetta la credenza di una vita avvenire e dell’esistenza degli spiriti.
Il
quinto capitolo parla dell’esistenza dell’anima, è diviso in sette paragrafi
nei quali, esposta l’opinione volgare, l’autore reca quella dei filosofi
dell’antichità, come anche quella di
Cartesio (sic!); finalmente dimostra qual sia la natura dell’anima, secondo il
suo sistema.
Il
sesto e ultimo capitolo ha sette paragrafi nei quali si fa parola degli spiriti
chiamati demoni e si chiarisce
l’origine e la falsità dell’opinione volgare circa la loro esistenza.
Ecco
l’analisi del famoso libro in discorso; l’avrei potuta fare più per esteso e
più partitamente, ma, oltre ad essere questa lettera già di soverchio prolissa,
ho creduto che tanto basti per farlo conoscere e far vedere che si trovi effettivamente
in mia mano.
Pertanto,
sebbene questo libro possa essere stampato anche subito, non per questo credo
che sarà mai reso di pubblica ragione. Quanto a me, non voglio espormi allo
stiletto teologico, che temo quanto (san) Paolo temeva lo stylum romanum; pure sul letto di morte non sarò tanto
superstizioso da farlo gettare alle fiamme, come aveva fatto Salvius,
plenipotenzario di Svezia; coloro che verranno dopo di me, ne faranno ciò che
vorranno, senza conturbare minimamente la pace del mio sepolcro.
Nel
frattempo, mi dichiaro, signore, con sentita stima, il vostro obbedientissimo
servitore.
Da
Leida, addì 1 gennaio 1716.
RISPOSTA
DI DE LA MONNOYE
CHE
SMENTISCE
LA
PROVENIENZA DEL TESTO
ATTRIBUITO
A FEDERICO II
B |
ernard
de La Monnoye rispondeva con l’articolo pubblicato nelle Memoires de litterature (L’Aja editore Enrico Sauzet, 1716) e
riprodotta in Biblioteca Rara, De Tribus
Impostoribus (1862), nel modo seguente, contestando specificamente la
provenienza del manoscritto, ritenuto da Filomneste proveniente da Pier delle
Vigne e rilevano i madornali errori fatti in riferimento alla posssibile stampa
del libro, che sarebbe arrivata tre secoli dopo e il riferimento al titolo del
testo di Giordano Bruno indicato per “Specchio”, anziché “Spaccio della Bestia
trinfante”, mentre non indica l’altro errore grossolano sulla esistenza
dell’anima, con riferimento a Cartesio (v. in Specchio dell’Epoca “Sum, ergo cogito” ecc.) che non aveva
nulla a che fare con l’epoca di Federico II e Pier delle Vigne! (ndr.).
Nella
mia dissertazione (prosegue de La Monnoye), sul preteso libro “De tribus Impostoribus”, dimostrai che
sebbene in diverse età, si siano dati empj diversi che ardirono asserire che il
mondo fu sedotto da tre impostori, non pertanto le voci corse intorno a un
libro scritto sull’argomento, che non cominciarono a diffondersi che verso la
metà del sec. XVI. Si può anzi fissare la data nel 1543, tempo nel quale
Guglielmo Postel parlò di quest’opera come già essistente. L’autore anonimo
della risposta alla mia dissertazione ha del tutto errato, sostenendo che
questo libro sia stato scritto per ordine dell’imperatore Federico II.
Intorno
a ciò non si trova nulla all’infuori che i nemici di questo imperatore
l’accusarono di aver detto, parlando di Mosé, di Gesù Cristo e di Maometto, che
essi furono tre seduttori che ingannarono il mondo; empietà della quale si
discolpò, protestando contro siffatta calunnia.
Non
pertanto, se questo libro al presente
esiste, come assicura il mio critico, tal quale egli vuole che questo
imperatore l’abbia fatto comporre in latino, egli non ha che mostrarne il
manoscritto; e quando abili giudici, dopo averlo esaminato, avranno dichiarato
che non vi è frode, allora confesserò pubblicamente che, in luogo di negare
l’esistenza del libro, avrei dovuto dire semplicemente che esso non fosse
consociuto.
Ma,
fintantoché si spaccerà una storiella senza fondamento e non vedremo allegare
che una traduzione al tutto recente dell’originale antico, che non sarà mai
pubblicato, io persisterò nella mia opinione; e se arriverà, cosa che io non
credo, a quella di pubblicare la traduzione di cui parliamo, sosterrò altamente
che essa sia una composizione dell’editore, non già una versione fatta sul
manoscritto che si pretende tolto dalla biblioteca di Monaco.
Il
libro dei tre impostori, trovato da un ufficiale tedesco dopo la battaglia di Hochestedt, rassomiglia
molto al Petronio completo trovato nell’assedio di Belgrado da un ufficiale
francese.
Queste
due scoperte sono veramente una più bella dell’altra. Il falso Petronio si
riconobbe a primo tratto per la differenza manifesta dello stile. Si
riconoscerà il falso libro dei tre Impostori con la stessa pietra di paragone.
E’ certo che la lingua latina al tempo di Federico II era tutt’altro che
elegante; non aveva né periodo, né numero, nè purezza. Si può giudicarne dalle
epistole di quel Pier delle Vigne che si vuol far passare per autore dell’opera
di cui si tratta. Chi le lesse ben sa quanto siano barbaramente scritte.
Giusta
questa norma, vediamo il principio dfella lettera che si spaccia come scritta
da Pier delle Vigne, al nome del signore.
L’anonimo,
tuttoché impegnato da esecratìbile giuramento a non copiare il manoscritto, non
giudicò che tale obbligo si estendesse anche all’epistola preliminare, della
quale grazie a questa giudiziosa distnzione, potè comunicarci le prime linee. Othoni illustrissimo, amico meo carissimo
F.I.S.D.- Quid de tribus famosissimis nationum deceptoribus in ordinem ...
(omissis).
Questo
esordio nulla ha del torno, né della dizione di Pier delle Vigne. La formula “salutem dixit” a quel tempo non era in
uso. “Museum” era parola sconosciuta
nel sec. XIII. Altrettanto dico di “exscribo”;
e io adduco questi fatti senza tema di essere smentito da nessun esempio
tratto da autori contemporanei a Federico.
L’anonimo
per fermo dirà che l’imperatore in questa occorrenza, ordinò al suo cancelliere
di usare lo stile più puro che l’ordinario, e questo essere appunto il senso di
quelle parole: “codice illum stylo aeque
vero ac puro scriptum”; il che significa che la lingua di questo libro era
del pari pura e sincera. Rispondo che
questa scappatoia è inutile, perché l’imperatore e il suo cancelliere non avevano né l’uno, né l’altro, idea della
buona latinità, più che il cieco nato, dei colori .... .
Passo
all’anonimo il granchio d’aver letto “specchio”,
per “spaccio” parlando del libro
stampato che si vendeva con i due manoscritti.
Esso è
un libro italiano in 8°, intitolato da Giordano Bruno, suo autore: “Spaccio della bestia trionfante”. Meno
buono altresì è il confronto ch’egli fa
della mia dissertazione con quella di Struvius, scritta dieci anni dopo la mia,
della quale nel 1654 in Olanda fu pubblicato un riassunto citato dallo stesso
Struvius. Neanche starò a chiarire il modo di spiegarsi, ove dice che non è
probabile che il libro dei tre impostori sia stato impresso, poiché Federico si
sarebbe guardato dal presentare ai suoi nemici una sì bella occasione di
divulgare la sua empietà; espressione che sembra supporre che la stampa fosse
conosciuta ai tempi di Federico.
L’anonimo
vuol essere creduto ed egli non dice il suo nome; egli non nomina la libreria
di Francoforte. Nomina soltanto Trawendorff e Frecht, due uomini sì poco
conosciuti che tornava lo stesso non nominarli. Lo scopo principale del suo
scritto è di annunciarci la sua pretesa versione, la quale, checché ne dica,
consisterà forse il quel compendio che egli ci offre, sì facile ad essere immaginato;
non dandosi empio che con mediocre abilità non possa concepirne ed esporne uno
simile in men di un’ora; di maniera che così fatti disegni di ateismo potranno
in pochissimo tempo moltiplicarsi, e il mondo udrà parlare ogni tanto dei tre
impostori, e senza mai vedere il libro, si vedrà andare in volta, grandissimo
numero di riassunti.
FINE