Karà Mustafà legge la sua condanna a morte disposta dal Sultano

 

 

 

KARÁ MUSTAFÁ

IL GRAN VISIR

DI MAOMETTO IV

 

a cura di

 Michele E. Puglia

 

 

 

SOMMARIO: INTRODUZIONE; IL SULTANO IBRAHIM DEDITO AI PIACERI E SOSTITUITO DAL FIGLIO MAOMETTO IV; L’INIZIO DELLA CARRIERA DI KARA’-MUSTAFA’; LA SULTANA VALEDÉ PROVA VIVO INTERESSE PER KARA-MUSTAFA’; ASSAN BEGLIERBEY DELL’ASIA SI RIBELLA AL SULTANO; LA CACCIA PASSIONE DI MAOMETTO IV; KARA’ MUSTAFA’ NOMINATO BASCIA’ DEL MARE; L’EUNUCO SBAGLIA NEL DARE IL REGALO DI MUSTAFA’ ALLA SULTANA; KARA’-MUSTAFA’ CONQUISTA UN VASCELLO CON RICCO BOTTINO; ROSSELANA RIFERISCE ALLA SULTANA I SENTIMENTI DI MUSTAFA’ PER BASC-LARÍ; LA LOQUACITA’ DI ROSSELANA INCURIOSISCE IL SULTANO CHE VUOL VEDERE LA SCHIAVA SPAGNOLA;  KARA’ MUSTAFA’ NOMINATO DAL SULTANO GRAN VISIR; IL RACCONTO DI DONNA MANUELA FIGLIA DEL VICERE’ DI NAPOLI; E’ RIVELATO L’ARCANO DEL FIGLIO DEL PRINCIPE DI LIGNE’; L’INTRIGO TESSUTO DA VALEDÉ PER NON FAR SPOSARE BASC-LARÍ A MUSTAFA’; BASC-LARÍ DECIDE DI RENDERE LA LIBERTA’ A ROSSELANA; I RIBELLI UNGHERESI RINNOVANO LE LORO RICHIESTE ALLA PORTA; IL GRAN VISIR PER VEDERE BASC-LARÍ FA MARCIARE IL SULTANO ALLA TESTA DELLE TRUPPE; IL GRAN VISIR CONVINCE IL SULTANO A INIZIARE LA GUERRA PONENDO L’ ASSEDIO A VIENNA; IL GRAN VISIR SI GIUSTIFICA COL SULTANO PER LA GRAVE SCONFITTA DELLE TRUPPE TURCHE; BASC-LARÍ CONOSCIUTA LA CAUSA DELLA MORTE DEL MARITO  SCOPRE LA CRUDELTA’ DI MUSTAFA’;  IL SULTANO CAMBIA SENTIMENTO VERSO MUSTAFA’ E FA DECIDERE LA SUA CONDANNA DAL MUFTÍ; RIFERIMENTI STORICI DELLA INVAZIìSIONE DELL’UNGHERIA E DELL’ASSEDIO DI VIENNA.

 

 

INTRODUZIONE

 

 

N

el 1684 era apparso in Francia un libro inritolato  Cara Mustafà Gran Vizir, Histoire” dedicato alla vita e morte di questo personaggio (Karà era un soprannome che significava “il nero”) vissuto sotto il regno del sultano Maometto IV, il sovrano che lo aveva innalzato ai più alti fasti, concedendogli la carica di Gran Visir, la più alta carica dell’impero turco, seconda solo a quella del sultano e gli aveva concesso in sposa la propria figlia di cinque anni (come d’uso presso i musulmani, v. nota sotto).

Il libro che raccontava questa storia non portava il nome dell’autore, come non era indicato il nome del traduttore che lo aveva tradotto dal turco in francese, e  appariva chiaro che chi lo aveva scritto, fosse a conoscenza di tutti i segreti e gli intrighi che avvenivano nel Serraglio, il palazzo imperiale (v. in Speccchio dell’Epoca. le voci Harem e Serraglio in “Rosselana da schiava a moglie di Solimano il Magnifico”).

Karà-Mustafà aveva ricevuto l’ordine dal sultano, di porre l’assedio a Vienna (il secondo assedio del 1683), concluso con una disfatta dell’esercito turco, il 25 Dicembre 1683, di cui era responsabile Karà-Mustafà, seguito dall’ordine del sultano, della sua immediata esecuzione per strangolamento.

Questa traduzione francese era tanto precisa, da riportare, come si vede dalla stampa che pubblichiamo, una precisa descrizione della esecuzione dell’ ordine mandato dal sultano, dell’immediata esecuzione per strangolamento,  di Karà, eseguito con un cordone di seta e del taglio della sua testa che doveva essere portata al sultano in un sacchetto di velluto cremisi; fu invece portata ed esposta ad Adrianopoli.

I riferimenti del libro alla parte storica dell’assedio sono riportati esattamente e nel  contesto della esposizione, come si verificava nei romanzi storici, era inserita oltre alla storia degli amori di Karà e della princiessa Basc-larì, sorella del sultano, e l’avventura di donna Manuela.

Karà si era perdutamente innamorato di Basc-larì, ma per gli intrighi della sultana Validé, madre del sultano, che si era innamorata del giovane Karà, era stata destinata ad altro bascià; in questo contesto, è inserita la storia di donna Manuela, figlia di un non meglio identificato viceré di Napoli che, in viaggio su un vascello per recarsi in Spagna, dove si dovceva  sposare, era stata fatta prigioniera da Karà-Mustafà e finita nel suo harem.

L’anno successivo alla pubblicazione della traduzione francese, a Venezia, era stampata (1685) una fedele traduzione italiana, a cura di Francesco Pazzzaglia, dedicata a un inesistente Giovan Battista Donato (unico Donà riscontrato è Giovanni Donà, baylo nel 1742, non conferente!) qualificato come Baylo a Costantinopoli della Serenissima Repubblica. 

Abbiamo estratto, per i nostri lettori, il racconto che ci è sembrato di piacevole lettura in cui sono riportati gli usi e costumi dei turchi del tempo e abbiamo ritenuto  lasciare la stessa terminologia usata nel libro, specie nelle espressioni degli intimi sentimenti, a testimonianza della loro manifestazione in altri tempi, e ciò, per la totale immersione del lettore nel tempo in cui i turchi erano considerati i secolari  nemici dei cristiani; questo racconto fa il paio con l’altro, già pubblicato, su “Rosselana da schiava, divenuta moglie di Solimano il Magnifico”.

 

 

 

IL SULTANO IBRAHIM

 DEDITO AI PIACERI

SOSTITUITO

 DAL FIGLIO  MAOMETTO IV

 

 

I

brahim, come ultimo rampollo della famiglia di Osmann succedeva al fratello Murad che aveva un fisico aitante (secondo G. M. Jouannine, Turchia, VE 1840) e diversamente dal fratello, era gracile, pallido in viso, magro e sfigurato dal vaiolo (nascosto da una lunga barba).  

Ibrahom non aveva creduto alla morte, annunciatagli, del fratello, in quanto amava la solitudine e aveva ritenuto che fosse un suo espediente per metterlo alla prova; ma la madre, la sultana Kiosem (Cheussem), lo convinse facendogli vedere il suo cadavere;  durante il funerale, il feretro era stato seguito dai suoi tre cavalli montati durante la campagna d Bagdad, con la sella messa di rovescio, secondo l’uso dei re di Persia. Dopo avergli messo un alto turbante ornato con piume di airone e consegnato la scimitarra, Ibrahim fu salutato imperatore.

Nel suo breve periodo di regno (di otto anni), non fece che accrescere i mali dell’impero, tanto che il suo nome non fu più dato a nessun altro dei suoi successori;   detronizzato e strangolato per mano del carnefice, come vedremo, fu sostituito dal figlio Maometto IV.

Secondo Leonico Calcondyla (Anedoctes ou annales de la maison ottomane Lyone 1734) era debole di mente (Deli), malaticcio ed epilettico, dedito ai piaceri dell’harem e assolutamente incapace di governare; era nelle mani dei suoi consiglieri, divisi in tre fazioni, tra le quali vi era quella della regina madre Kiosem, ognuna delle quali lo usava  per favorire i propri interessi e la corruzione.

Tra le sue stranezze, gli era venuta la mania delle costose pellicce di zibellino con le quali aveva fatto rivestire il suo palazzo e si dovette ricorrere a una tassa detta delle pellicce e d’ambra per pagarle: tra l’altro faceva uso della profumatissima e costosissima ambra grigia, che usava come droga.

Al gusto degli stravizi, Ibrahim univa quello della pazza e rovinosa prodigalità.

Nella speranza di divenire genero del sultano, il Gran visir Acmed-bascià aveva ripudiato la moglie, finita nell’harem del sultano, il quale gli diede in moglie la figlia Bibi-Sultana di due anni e l’avvenimento fu festeggiato con un lusso inaudito in cui spiccavano due palme di nozze alte quanto due minareti, tempestate d’oro e d’argento.

Un forte terremoto aveva colpito la città di Costantinopoli il 21 di giugno (1640), verso le ore sette di sera così violento da abbattere diversi minareti, ritenuto  portatore di sventura che sarebbe stato il regno di Ibrahim. 

La sua vita si svolgeva in uno dei chioschi che si trovavano nel Serraglio, circondato dalle donne dell’harem, così descritti: - “Questi chioschi erano dei grandi padiglioni quadrati circondati da una galleria o portico con colonne di marmo e ve ne sono in tutto il Serraglio, come delle sale di rappresentanza dove il Gran signore gusta i suoi piaceri e i suoi divertimenti. Alle volte le sue principesse giungono in galeotte le cui poppe sono fatte di scaglie e di perle”.

Gli acquedotti, lamentava Calcondyla, non forniscono più acqua alla città per attutire la sete, in quanto queste dame si bagnano in vasche che si trovano in quattro sale che portano i nomi dei principali serragli.

Questo lusso sfrenato aveva sucitato molte lamentele di cui il sultano non teneva conto e la moglie, la sultana Validè, avendogliele riferito, era stata esiliata nel giardino di Iscander-Celebi.

Questa imprudente condotta del sultano, faceva preparare la rivolta: Bachi-Bei, figlio del Gran visir Acmed-Bassà, era stato fidanzato a una figlia del sultano di otto  anni; alla festa erano stati invitati gli ufficiali dei giannizzeri; ma costoro erano stati avvertiti che si  trattava di una trappola, in quanto sarebbero stati assassinati.

Si radunarono il muftì con il corpo degli ulema, gli spahis, i giannizzeri, che incaricarono il Nakip, capo dei discendenti del profeta che si distinguono per il turbante verde che solo loro possono portare, incaricato di dire al sultano che il cattivo governo di Acmed-Bassà non era più sopportabile e la miliizia chiedeva la sua sostituzione con Mecmet-Bassà, uomo saggio e di probità; il  Gran signore dopo qualche resistenza fu convinto dal Boustangi-Bachi.

Ciò nonostante la milizia proseguì nell’assemblea e continuò nelle negoziazioni, chiedendo in ostaggio il figlio del sovrano, il quale fece sapere che i suoi due figli erano con la madre Validé ed essi furono presi in custodia dal Boustangi-Bachi.

Intanto il Gran visir Acmed, si era recato dal vecchio Mehemet, offrendogli tutti i suoi beni e chiedendogli di ritirarsi, ma veniva preso e portato in una scuderia dove fu sstrangolato senza dargli il tempo di dire la preghiera: il suo corpo fu esposto  nudo nella piazza dell’Ippodromo detta Amedan, davanti alla moschea nuova.

Il giorno successivo, sabato mattina, la milizia si recò davanti al corpo del visir per tenere l’assemblea; vi giunse anche il corpo religioso e della legge, mentre il predicatore della moschea aveva chiesto al Gran signore di recarsi nella moschea, ma il sultano era andato su tutte le furie e si era rifiutato di andare; ciò che indusse la nilizia a dire al muftì di emettere un Ferfa, col quale si ingiungeva al sovrano di comparire  al Char-Allah, che costituiva la giustizia di Dio.

Il Ferfa fu dato al capo degli spahis e a quello dei giannizzeri, che lo portarono al Serraglio, ma il sultano lo distrusse, per cui i due ufficiali tornarono e ne fu scritto un secondo, che fu portato dagli stessi ufficiali, seguiti dalla milizia, che ritornarono al Serraglio; il sovrano questa volta, aveva deciso di parlare, ma davanti alla corte piena di militari, perse coraggio e si ritirò.

Al Serraglio si era recata la sultana Validé accompagnata dal Boustangi-Bachi, che parlò al Muftì e al Visir da donna coraaggiosa, ma non ottenne che cambiassero la decisione di deporre il sultano e si decise a consegnare il bambino che aveva sette anni e mezzo.

Riunito il Divano vi fu portato il giovane principe, incoronato con un alto turbante ornato con due ciuffi di penne di airone, il quale fu proclamato Gran signore dalla milizia e poi dagli Herauts, inviati in città, che gridavano ad alta voce “Viva il sultano Mehemet”: grida di allegria furono urlate dappertutto, la gioia si leggeva sul viso del popolo.

Il sultano Ibrahim era stato arrestato dal Boustangi-Bachi, il quale era d’accordo con la milizia e tenuto sotto stretta sorveglianza; lo sfortunaato monarca che aveva regnato in via assoluta nel più grande impero del mondo, con un Ferfa del 19 Agosto, emesso dai due capi della Religione, della Giustizia e dal Gran visir avevano deciso  la morte del sovrano che finiva i suoi giorni felici, strangolato per mano di un carnefice.

 

 

L’INIZIO DELLA CARRIERA

DI KARA’ MUSTAFA’

 

 

L

‘ educazione di Mustafà (si racconta nel libro di Carà Mustafà)  ha inizio durante il regno del sultano Hibrahim, felicemente regnante, con il suo Gran visir Orcan, il quale, avendo causato un dispiacere alla sultana madre, Kiosem, era stato strangolato; come abbiamo visto, Ibrahim era stato sostituito dal figlio Maometto IV (1642-1693) che aveva sette anni e mezzo e la reggenza era stata assunta dalla sultana Valediè, madre di Maometto.

Kiosem, madre di Ibrahim, aveva intenzione di sostituire Maometto con un suo fratello, Solimano. ma Valedé, avendo scoperto l’intrigo ebbe l’astuzia di far sollevare per una seconda volta i giannizzeri e durante la sedizione Kiosem perse la vita e Maometto fu messo sul trono e la madre Valedè fu dichiarata reggente del figlio Maometto IV.

Dopo questo avvenimento, il regno proseguì tranquillo sotto la reggenza della sultana Valedé  e la guida del Gran visir, Boinò Egri,

Ma, l’eunco che deteneva le redini del Tesoro, aveva voluto ottenere degli utili dalle paghe degli spahì (reggimento di cavalleria), e costoro si rivoltarono e strangolarono due eunuchi del Serraglio, cosa che suscitò un odio implacabile degli eunuchi, tra i quali correva un implacabile spirito di corpo, contro gli spahì (corpo di cavalleria), che attesero il momento per vendicarsi.

La sultana Valedé si interpose, promettendo che avrebbe punito i colpevoli e ne parlò più volte col Gran visir, che non avveva troppa risoluzione per intraprendere una vendetta e la sultana costretta dagli eunuchi, determinò di spodestare il Gran visir,  mettendo gli occhi su Kioprulì, stimato come uomo intrepido e di grandi capacità.

La sultana comunicò questa sua intenzione al kehajà (che era un eunuco nero), Sopraintendente  del Serraglio, al quale diede incarico di parlare con Kioprulì a suo nome, informandolo che era lei a volere l’avanzamento della fortuna che lei gli destinava.

Il giovane sultano che approvava ogni iniziativa della madre, approvò la soluzione da lei presa e Boinò Egrì fu sostiuito da Kioprulì come nuovo Gran visir. Poco dopo egli aveva trovato il modo di dividere gli spahi (che costituiva un corpo compatto) i quali si sollevarono, ma furono puniti.

Il nuovo Gran visir per queste sue azioni, soddisfatte le aspettaive della sultana Valedé, ottenne la stima del sovrano e l’amicizia degli eunuchi che contribuirono alla fortuna di Karà Mustafà, nipote di Kioprulì, il quale dallo zio fu  preso nel Serraglio, dove un gran numero di altri giovani itchoglan (paggi d’onore) vivevano la loro vita, educati nel Serraglio (v. cit. Rosselana) che per loro costituiva un carcere.

Gli eunuchi che avevano l’incombenza della loro educazione, assunsero Karà-Mustafà con il compito di itchoglan: egli era un giovane ben fatto nel fisico e non volgare ed era entrato nelle loro simpatie e in meno di dieci anni giunse alla Camera del  Tesoro, che era il posto di distinzione per il quale gli itchoglan servono la persona del Gran signore, approssimandosi alle prime dignità dello Stato.    

 

 

LA SULTANA VALEDÉ

PROVA VIVO INTERESSE

 PER KARA’-MUSTAFA’

 

 

I

n quel tempo era morto il beglierbey d’Egitto e tutto ciò che egli aveva di prezioso era stato portato nel Tesoro del sultano, il quale invitò sua madre Validé a visitare la Camera del Tesoro, cosa che non si verificava mai, alla presenza degli itchoglan tra i quali si trovava Mustafà.

Questo giovanetto si  distingueva tra tutti per la sua bella presenza e per un’aria di grandezza che non avevano gli altri, subito notato dalla sultana. Il sovrano se ne accorse e le disse che era nipote di Kioprulì e lei gli chiese un ricco smeraldo che donò a Mustafà, il quale non voleva accettare, ma, estatico nel vedersi circondato da  tante femmine che accompagnavano la sultana, rifiutava di ricevere lo smeraldo, fino a quando non intervenne il sultano che gli comandò di accettarlo.

La sultava Validè, impressionata dal giovane Mustafà, il quale le sembrava talmente amabile che, ritrovandosi sola, cominciava a ripassare con la fantasia le sue maniere;  desiderava rivederlo e accarezzava l’idea di farlo introdurre con segretezza nei suoi appartamenti, che al giovane Mustafà sarebbe costata la vita.   

Valediè fece in modo di indurre il kehajà a portargli di notte Mustafà e così una notte con la luce di una lanterna Karà-Mustaà fu portato alla presenza di Vaidié felice di vederlo, mentre Mstafà non era altrettanto contento nel vederla, in quanto non acveva alcuna esperienza in amore, rimanendo stordito nel vedere la sultana così entusiasta della sua presenza, non osava alzare gli occhi, immaginandosi che il kehajà volesse farlo morire, abbandonandolo al furore dei muti del serraglio.

La sultana non lo lasciò in questa apprensione, mostrandogli la passione che sentiva del suo travaglio e Karà-Mustafà era rimasto soddisfatto e confuso della bontà della sultana. Dopo questa visita, passato del tempo la sultana  chiamò di nuovo il kehajà il quale le manifestò che per lei avrebbe stimato una fortuna sacrificare la sua vita e avuto l’incarico di riportargli Mustafà, lo avvertì  a prepararsi per una visita. La sultana, a questo modo fece entrare più volte Mustafà nei suoi apartanenti.

Il Gran visir, meditando di far avanzare il nipote nella carriera, lo tolse dal Serraglio e lo assegnò alle truppe, perché si preparasse nell’arte militare. La sultana sensibile alla partenza di Mustafà, cercava il modo di farlo tornare alla Porta e procurargli un impiego che l’obbligasse a dimorarvi; avuto il consenso del Gran visir, il sultano acconsentì a concedergli la nomina di Primo Scudiero e Mustafà fece ritorno al Serraglio.

 

 

ASSAN BEGLIERBEY

DELL’ASIA

 SI RIBELLA AL SULTANO

 

 

A

ssan, beglierbey dell’Asia si era ribellato al Gran signore e il Gran visir Kriopulì aveva mandato in Anatolia un corpo di truppe per abbatterlo; ma Assan era possente e costrinse le truppe a ritirarsi.

Costui era già vecchio e aveva sposato la sorella nel Gran sultano che era giovanissima, appena entrata nei diciassette anni (ma era già stata sposata a tre bascià (*)); la sua nascita la faceva risentire degli indegni trattamenti che il bascià le riservava e non potendo abituarsi a sopportarli trovò il modo di far recapitare al Gran signore una lettera in cui si doleva della sua disgrazia.  

Il sultano, angustiato per il trattamento della sorella, ne parlò un giorno con Mustafà, rammaricandosi che vi fosse un uomo che mancasse di rispetto a una principessa del sangue ottomano, ricevendo da Mustafà la disponibilità a difenderla, qualora la Porta gli avesse fornito una truppa e se sua altezza gli avesse concesso un hatcherif (ordine scritto direttamente dal sultano) per il quale i turchi erano disposti a dare la loro vita e lui si sarebbe recato da Assan a tagliargli la testa.

Il sultano accettò la proposta e lo fece partire seegretamente, dopo avergli consegnato l’hatcherif.

La sultana quando lo seppe ne rimase dispiaciuta in quanto veniva esposta la vita di Mustafà e si recò a rimproverare il figlio,  il quale diede ordine a Kriopulì di inviare un corriere per far tornare Mustafà. Ma Kriopulì non ritenne che il nipote esponesse la propria vita per rendere un così importante servizio di Stato e non richiamò il nipote. Fece così credere al Gran signore che Mustafà era già entrato nelle terre del ribelle e non si era riuusciti a raggiungerlo.

Mustafà si recò da Assan e senza dirgliene il motivo, gli fece credere che vi si era recato per una visita e fu onorevolmente ricevuto da Assan. Egli, trovandosi a tavola con Assan e altri bascià, tirato fuori l’archerif, dopo averlo letto e dopo averlo baciato, si gettò su Assan e gli tagliò la testa, senza che nessuno degli altri bascià fosse  intervenuto, atteso che nella giustizia, ha più parte la religione  che la politica, per la cieca obbedienza che hanno i turchi agli ordini che direttamente giungono dal Gran signore.

La morte di Assan intimorì tutti coloro che lo sotenevano, che accettarono la pace con la Porta.

Dopo questa azione il primo pensiero di Mustafà fu di recarsi dalla principessa Basc-larì che si trovava nei suoi appartamenti con altre donne.

Basc-larì rimase sorpresa e perturbata da quanto le aveva riferito Mustafà ed ebbe il tempo di osservarla e di ravvisare che era una delle più venerabili persone della Terra, restandone così conturabato che mentre parlava, non si rendeva conto di ciò che stesse dicendo. Basc-larì gli manifestò l’intenzione di ritornare dal sultano  e Mustafà diede gli ordini per la partenza.

Durante il viaggio, Mustafà non perse occasione di vederla, non perdendo occasione di rassicurarla del rispetto dovuuto alla sorella del suo signore, che era lo stesso motivo che lo obbligava ad esserle continuamente vicino.  

La principessa si accorse di essere amata, mostrando il suo gradimento nell’accettare i doni di ghirlande (che per i turchi sostituiscono i biglietti amorosi).

La nuova della morte di Assan si era sparsa a Costantinopoli e il sultano era soddisfatto dell’ordine che aveva dato e il visir compiaciuto dell’impresa del nipote che aveva liberato l’impero da un nemico; Valediè non fu meno felice del successo del viaggio del giovane Karà-Mustafà, come se lei stessa avesse determinato il desttino del bascià ribelle; nel frattempo giungeva Mustafà, onorato da una regale accoglienza.

Il vecchio Kioprulì era malato e si profittò di questa occasione per convincere il sultano che il figlio fosse, per le sue capacità, la giusta persona che potesse succedergli. Il Gran signore, considerando che il cambio dei ministri fosse una gran jattura per lo Stato, colse l’occasione per sostituire il figlio col padre.

Mustafà, essendo  innamorato di Basc-larì, non rispondeva più ai richiami della sultana Validé, se non per quanto gli servisse per portare i suoi ragguagli alla principessa. Egli, con le sue liberlità.  riuscì s guadagnarsi la fiducia di uno degli eunuchi che lo servivano e inviò a Basc-larì un selam (ghirlanda), composto di fiori misteriosi,  che indicavano la violenza della sua passione e i crudeli spasimi che soffriva per non poterla vedere. La principessa, avendolo ricevuto con piacere, ricambiò con un vasetto di muschio che testimoniava la sua soddisfazione.

Karà-Mustafà ebbe modo di ritenere che Basc-larì non fosse meno di lui, presa dalla sua stessa passione e immaginò poterla sposare, mlgrado tutte le lunghezze che sarebbero state necessarie per un passo del genere.

Questo pensiero, lusingò sì dolcemente il suo amore, che meditando incessantemente la maniera di farlo riuscire, raddoppiò le sue sollecitudini e la sua assistenza presso il sovrano, al fine che lo preferisse a chiunque altro avesse intenzione di sposarla, sapendo non esser permesso ad alcuno chiedere in matrimonio le principesse di sangue ottomano, ma fosse cura del Gram signore conferire l’onore della sua parentela.

 

 

 

*) Per questi matrimoni combinati di anziani con bambine, di cui il profeta aveva dato l’esempio sposando Aisha di dieci anni, mentre lui ne aveva sessanta; per un anno la bambina fu educata dalle sue donne edgli la sposò a undici anni ma morì al secondo anno di matrimonio, a sessantadue anni (il 632).

 

 

 

LA CACCIA

PASSIONE DI

MAOMETTO IV

 

 

L

a passione di Maometto IV era la caccia e Karà gli offrì un gran numero di cani che aveva fatto cercare per tutta l’Europa, che gli permisero di andare a caccia   più spesso col suo signore.    

Tutte le volte che il Gran signore si prendeva questo divertimento, tutti i contadini erano avvertiti per cinque o sei leghe di circuito intorno al villaggio, in modo che nessun animale potesse scappargli; ma ciò costituiva una sofferenza per i contadini che si vedevano rovinata la campagna, che eccitavano i loro sussurri, ma nessuno osava dirlo al sultano.

Il muftì, capo della Legge, spinto da alcuni bascià, decise finalmente di parlaglienee e guarirlo da una passione così violenta. E la stessa legge ordinava agli imperatori di vivere delle proprie fatiche e non del sudore dei popoli e dell’argento delle imposizioni.

Maometto era sazio di intendere simile discorso del muftì, sebbene i vari bascià cercavano di interromperlo con segni e gesti;  il muftì, resosi conto di essersi assunto un così grave compito, proseguendo il discorso cercò di addolcirlo aggiungendo che, se questo travaglio fosse di troppa fatica per il principe, bastava, per rispondere al precetto della legge, utilizzare per le frecce altra applicazione, servendosi di qualche bascià, che  non avrebbe mancato di arricchire la dispensa della sua tavola.

Il Gran signore, addolcito da queste ultime parole, potè dissimulare la sua rabbia, assicurando il muftì che si sarebbe servito dei suoi suggerimenti.

Karà-Mustafà, avendo ascoltato tutto questo discorso, conscio che il Gran signore (malgrado la venerazione che egli avesse per i ministri dell’Alcorano) lo pregava di dare ascolto alle sue parole e disse: Karà-Mustafà, il più umile di tutti gli schiavi, che non si serve delle sue orecchie, dei suoi occhi e della sua lingua, non potendo soffrire che il muftì s’abusi dell’autorità del suo carattere perché si azzardi a far delle correzioni e si ingerisca dando avvertimenti a colui che dà le leggi ove rischiara il Sole, senza sovvenirvi che tutti i beni della terra gli si appartengono, essendo grazia particolare che ne lasci una parte ai suoi schiavi.

Karà, rappresentò con tutta umiltà,  che bisognerebbe punire questo temerario, senza allontanarsi dal suo consiglio guardingo  che non rassembrasse il ben amato  Allah e del suo profeta, disprezzando la sua legge.

Tu sai, proseguiva Karà, che il muftì è il più avaro di tutti gli uomini; se vuoi mortificarlo per una strada molto sensibile tu devi ritornaare alla caccia e mandare ad esso in dono una parte delle fiere da te predate, dicendogli che per conformarti ai suoi ricordi, hai scelto il mestiere del cacciatore, trasmettendogli il frutto delle tue fatiche;  non dubitar allora che egli non ricompensi liberamente colui che porterà la tua preda e che non  ti rimandi un regalo assai considerevole per fornire la difesa della tua bocca. Così che seguendo tu il mio consiglio. non si presumerà più che egli in tutto il corso della sua vita, dia lezione al suo maestro.

Il Gran signore, ascoltato il discorso di Mustafà con gran diletto, l’assicurò di dargli testimonianza della sua veridica soddisfazione, confessandosi di essergli più obbligato per questo consiglio, che di avergli portato la testa del ribelle Assan.

Il sultano, due giorni dopo non trascurò di andare a caccia e dando effetto a quello che aveva risoluto con Mustafà, troppo tardi riconobbe il muftì l’errore commesso  di opporsi ai piaceri del suo padrone, in ordine al quale si vide in obbligo di inviare un magnifico presente, rimedio che impedì per l’avvenire di dargli simili avvertimenti

 

 

KARA’-MUSTAFA’

NOMINATO

BASCIA’ DEL MARE

 

 

M

ustafà, per la sua principessa cercava di piacere al Gran signore, il quale, estremamente contento dei suoi servizi, stabilì la sua fortuna, dandogliene attestato, col dichiaralo  bascià del Mare.

Mustafà che ravvisava questa dignità come qualcosa che gli consentiva di aspirare alla principessa, fu trasportato dal giubilo nel quale. appena si era venuti a conoscenza di come il Gran signore l’aveva onorato di quella carica, tutti i personaggi dell’impero erano venuti a complimentarsi e gli avevano inviato cospicui regali,

Fra tutti questi omaggi Karà non meditava per la sua Basc-larì che a preparare un selam  per esprimerle i veri sentomenti del suo cuore e vi mise tutti i fiori che credeva più propri per indicarle la sua violenta passione e far conoscere alla sua principessa che la carica di generale del Mare era l’occasione di rendersi meno indegno di lei e gliela trasmise per mezzo dell’eunuco che era a conoscenza del loro rapporto.

 

L’EUNUCO SBAGLIA

NEL DARE IL REGALO

DI MUSTAFA’

ALLA SULTANA

 

 

L

’eunuco, nel portare la commissione, si  comportò male, fascendosi scoprire  dal kehajà e non sarebbe sfuggito a una severissima pena se non gli avesse detto che il donativo provenuva da Karà-Mustafà, Senza dare ulteriori spiegazioni  il kehajà non dubitò che la galanteria fosse diretta alla sultana Validé.

Presa quindi la selam dalle mani dell’eunuco e riprendendolo di mai più incaricarsi di simili commissioni, si recò con tutta sollecitudine a portarla alla sultana, solita a ricevere simili presenti da parte di Mustafà e ne rimase sorptresa e nello stesso tempo consolata, nel vedere alla sua età giungere un selam così tenero che non trovando in quell’istante di ricambiare nella forma che avrebbe desiderato, diede ordine al kehajà di condurre Karà-Mustafà nei suoi appartamenti; il kehajà recatosi da lui che si trovava presso il sultano, gli disse di aver egli stesso portato la ghirlanda e la notte lo avrebbe acompagnato per ricevere i dovuti ringraziamenti.  

La preseenza del sultano non gli permise di spiegarsi molto e Mustafà con il cuore pieno della sua principessa dolcemente sorpreso per il desiderio di vederla, senza fare ulteriore riflessione, agitato dalle più dolci speranze che accompagnano l’amore, il rimanente del giorno gi parve assai lungo e non tralasciò di cambiare ripetutamente la divisa, non trovandosi soddisfatto di comparire innanzi alla sua amatissima Basc-larì.

Giunta la notte il capo degli eunuchi lo condusse nella camera della sultana Validé; quale stordimento per Mustafà che si era lusingato di vedere la principessa che ardentemente amava, mentre si trovò presso la sultana,

Ne rimase così turbato che la sultana notò questo turbamento e gliene fece rimprrovero, ma egli ebbe la presenza di spirito, ad evitare che non penetrasse la causa del suo disturbo, di dirle che la  nuova carica lo obbligava ad allontanarsi da lei per andare per mare ed era il motivo del suo turbamento. Questa spiegazione addolorò la sultana che lo assicurò che poteva sperare che in qualunque momento, lo avrebbe fatto ritornare alla Porta.

Ritiratosi, Karà-Mustafà, ritiratosi, venne a sapere esattamente come si erano svolti i fatti e come il suo selam era finito dalla sultana, occultando al kehajà i sentimenti che egli aveva per Basc-larì. Egli trovò comunque, il modo di far recapitare alla principessa un selam amoroso, come il precedente per mezzo di un ebreo che vendeva curiosità nel Serraglio e prima di imbarcarsi ebbe la consolazione di ricevere un vasetto di ambra e muschio che per i turchi sono contrassegni di benevolenza  tra i più obbliganti che una donna possa fare a un uomo.

 

 

KARA’ MUSTAFA’

 CONQUISTA UN VASCELLO

SPAGNOLO

CON RICCO BOTTINO

 

 

I

l nuovo capitan-bascià si imbarcò col desiderio di fare una gloriosa campagna, con la speranza di tornar presto vittorioso presso la sua principessa e diede la caccia a più corsari cristiani, inbattendosi in galere di Malta comìandate da un principe di casa Lorena e dopo un lungo e acerrimo combattimento il vento separava le navi, senza che fosse loro possibile proseguire nel combattimento, come le due parti stesse desideravano.

Dopo due giorni da questo combattimento, i turchi incontrarono un vascello spagnolo che attaccarono, vincendolo. Karà, venne a sapere che il vascello trasportava riccchi mobili che il vicerè di Napoli inviava il Spagna con sua figlia, una giovane di singolare bellezza che si  recava a Madrid per essere maritata.

Karà, considerando che tra tanti mobili potesse esservi qualcosa degna di essere offerta alla sua Basc-larì, comandò che niente si toccasse e volle assicurarsi personalmente del carico del vascello e vi trovò delle femmine lacrimose che circondavano la vezzosa spagnola che felicemente si ammirava per la sua bellezza e la magnificenza degli abiti, che spinsero Karà a trattare quelle schiave con molta dolcezza, rispondendo alle preghiere di una di esse che parlava l’italiano, che gli sembrò di singolare vivacità.

Si fece mostrare tutto quello che avevano di più ricco nel vascello e fu particolarmente colpito da uno specchio lavorato con molta cura, circondato da piccoli amorini che svolazzavando, dicevano l’un l’altro “felice chi è amato”  che colpì Mustafà e nel suo cuore lo destinò alla sua principessa.

Il capitano del vascello gli disse che si trattava di una manifattura, opera dei più abili maestri italiani, che doveva esser presentato alla regina di spagna in nome del viceré di Napoli da Rosselana che era la fanciulla che aveva parlato con lui in italiano  e che aveva la più bella voce che si potesse sentire.

Mustafà, incuriosito, parlò ancora con Rosselana che malgrado la situazionie in cui si trovava, non tralasciò di rispondere a tutte le domande che le faceva Mustafà. Karà giudicò che questa fanciulla potessee rendergli rilevanti servizi presso la principessas Basc-larì e la trattò con molta civiltà e volle sentire la sua voce pregandola di cantare e dopo averle dato la meritata lode per la sua voce, le offrì un bracciaetto di diamanti,

Rosselana che di nascita volgare aveva lasciato il suo paese per mettersi in condizione di acquistar, per mezzo del suo  conto, quegli utili che la fortuna le aveva negato alla nascita, si trovò felice nella sua schiavitudine e non trascurò nulla per persuadere donna Manuela (era questo il nome della bella spagnola) a non abbandonarsi ai suoi dolori;  ma questa bella afflitta, per consolarsi, non diede ascolto a niente e pianse incessantemente.

Mustafà. essendosi accorto che Rosselana era sensibile ai buoni trattamenti, un giorno la chiamò e dopo aver esagerato la stima che per lei nutriva, le promise che sarebbe stata la più fortunata schiava del mondo se fosse stata fedele nei suoi interessi, per quanto le avessse richiesto e Rosselana in cuor suo decise di corrispondere alle richieste del bascià che aveva intenzione di donarla alla principessa, non trascurando di parlarle del suo amore.

E le parlò così  favorevolmente del Serraglio e della felicità delle persone propinque alle sultante che non sarebbe stata sfortunata a trovarsi in simile situazione; e Rosselana gli promise che avrebbe eseguito tutti gli ordini che le avesse dato e ben eseguito tutti i suoi pensieri. Mustafà, soddisfatto delle assicurazioni ricevute, inviò al sultano ricchi presenti per poter destinare a Basc-larì ciò che aveva pensato e inviò donna Mnuela al Gran signore, pur conoscendo l’inclinazione del principe a cui non piacevano le bellezze brune.

Basc-larì ricevette con gradimento i presenti e particolarmente lo specchio, maggiormente quando una schiava cristiana le spiegò il significato  delle parole che uscivano dalla bocca degli amorini.

La voce di Rosselana fu molto apprezzata dalle sultane che con il sultano la sentirono cantare più volte, Nel tempo che lei si ambientasse, la principessa gradiva volentieri la sua conversazione che verteva principalmente sui meriti di Mustafà, del suo buon taglio, del valore dimostrato nella conquista del vascello e della violenta passione che sentiva per lei. Ma sovente mescolava con questi discorsi, la bella spagnola, non potendo trattenersi ogni qual volta la nominava, di dilatarsi in elogi, studiando continuamente di far le lodi anche a Mustafà ed elogiare i suoi meriti nei riguardi che aveva avuto per la bella schiava; ciò che produsse un effetto differente nell’animo della principessa, che credette non essere impossibile che potesse essere adorata da Mustafà, tanto più che non l’aveva inviata per dono al sultano; per cui tutte le particolarità che Rosselana rappresentava del modo di trattare la spagnola, erano tante ferite nel cuore della sua padrona.

La sultana Validé a cui piacevano le belle voci, ricevendo piacere da quella di Rosselana, che Mustafà aveva donaato a Basc-larì, ascoltava i suoi racconti su Mustafà e finse passarr le notti senza riposo e con questo pretesto pregò Basc-larì di lasciarle per qualche tempo la cantante, perché il suo canto rendesse meno incresciosa la lunghezza delle ore.

 

 

ROSSELANA RIFERISCE

ALLA SULTANA

I SENTIMENTI DI MUSTAFA’

PER BASC-LARÍ

 

 

L

a principessa non osò negargliela e fu costretta a cederla alla sultana perché potesse averla per il tempo che desiderava. La sovrana le fece subito dei regali e fingendo di interessarsi alle sue disavventure, si fece raccontare il motivo del dono del  vasetto. La accorta Rosselana che si era adeguata, rivolgendo tutto a beneficio dei turchi, mescolò tanti racconti vantaggiosi per Mustafà, che la sovrana ne fu vivamente toccata e non ebbe difficoltà a confermarle che i racconti sul bascià le erano estremaamente cari. Non le nascose che stava cercando di fargli ottenere la carica di kaimacan che segue, subito dopo quella di Gran visir  e nell’impero è carica primiera e Rosselana proseguì nel racconto dei meriti di Mustafà.  

Quindi, accorgendosi che la sultana aveva per lui una così buona disposizione, presa dalla impazienza di vederlo in possesso della nuova carica che l’obbligava a rimanere vicino al Gran signore, ingannata dalle apparenze e persuasa che le intenzioni della sultana fossero sincere, le parlò dei sentimenti che egli provava per Basc-larì e la scongiurò di fare questo maritaggio, assicurandola che non potessse fare cosa più grata a Mustafà.

La sultana, sorpresa da una confidenza così inaspettata, le fece ripetere due o tre volte ciò che aveva detto. cercando di non far capire alla schiava il travaglio in cui lei si trovava e ritiratasi nel suo gabinetto, diede tutta se stessa a una crisi di gelosia da cui può esser presa una donna del suo rango.

Dopo aver fatto mille progetti per vendicarsi di questa infedeltà, trovò consolazione  nel pensare che avrebbe impedito il proseguimento di una passione così contrariaa al suo stato  e cercò nuovi pretesti per trattenere Rosselana per un tempo maggiore di quello che Basc-larì le aveva concesso.  

Mustafà tornò alla Porta facendo ricchi doni al sultano e alle sultane e ai primi eunuchi, chiedendo al kehajà di richiedere una visita a Valediè. La sultana persuasa della sua ingratitudine rifiutò questo appuntamento e rimandò con disprezzo l’eunuco. Ma questo gesto di fierezza fu molto debole per resistere a ciò che il cuore le stimolava e richiamando il kehajà, gli ordinò di condurgli Mustafà nella sua camera, con le stesse precauzioni delle altre volte.

Quando Mustafà fu ammesso alla sua presenza, gettandosi ai suoi piredi per baciarglieli lei, nel dargli gli ordini di alzarsi gli indirizzò termini oltraggiosi, rimproverandogli la sua perfidia. Vile schiavo, gli diceva, razza di cristiani,  fa che ti ho cavato dal fango per innalzarti alla seconda dignità di questo vastissimo impero. Credi tu che che io stia ad ascoltare i tuoi discorsi, mentre so che m’inganni? E che per ingratitudine, senza esempio, confermi i tuoi affetti per una persona, non per altro conosciuta che per il disprezzo cui Assan bascià ha avuto con essa che è indegna di entrare in paragone con me che sono assuefatta alle adorazionini del mondo.

Mustafà. stordito dei crudeli rimproveri della sultana e confuso dal trovarla sì bene informata, non solo non osò rispondere, ma nemmeno alzare gli occhi per guardarla. E lei soggiunse, parla perfido, parla, non è veero che adori Basc-larì? E’ vero, rispose Mustafà, che io merito la morte poiché ho avuto l’infelitictà di dispiacervi.

Ma puoi tu, riprese la sultana, negarmi di aver inviato a Basc-larì una schiava cristiana, dopo averle raccomandato di non tralasciare occasione di parlarle in tuo favore? Non nego, rispose Mustafà di aver donato una schiava a questa prinicpessa, ma sapendo essere i cristiani dozzinali, senza conoscere la venerazione dovuta al sangue ottomano, trascurando ogni diligenza nell’istruire questa schiava che avrà senza dubbio confuso ciò che le ho detto perché essa non ben conosce la lingua franca.   

La sultana godè tanto nel vederlo mortificato che si contentò di ciò che gli aveva detto e gli perdonò tutti i sentimenti che potesse provare per Bas-clarì; Mustafà dopo averla assicurata che sarebbe morto piuttosto che mai più dispiacerle, si ritirò.

Ma rimase così stordito sopratutto nell’averla vista così informata del suo amore, da esser rimasto per più giorni in quello stato di inquietudine. Erano diversi i motivi che lo turbavano; temeva la sultana Valediè, col più tenace affetto amava Basc-larì e non poteva vivere senza  avere sue notizie.

Tutto gli era sospetto; non sapeva se Rosselana l’avesse tradito e quando inviava un selam a Basc-larì sospettava che la sultana non ne venisse avvertita. Fra tanti pensieri decise di sfidare il destino; comprò un eunuco e le inviò un selam con cui le testimoniava di amarla. Basc-larì, che  aveva sempre in animo che Mustafò amasse Manuela, si era confermata nel sospetto, quanto più lungo era il silenzio del suo amante e che fosse anche preso dalla bella spagnola. Basc-larì era presa da questi pensieri, quando le giunse il selam, non perse molto tempo a consegnare all’eunuco un vasetto da dare a Mustafà.

Ma, nell’aprire il vasetto, Karà trovò che conteneva ruta, che significava indignazione e pensò di morire, ravvisando nella indignazione di Basc-larì una prova della sua disgazia, Dopo essere stato per lungo tempo a pensare da dove derivasse lo sdegno della sua principessa, immaginò che Rosselana l’avesse tradito. Ciò gli diede tanta avversione per i cristiani, da maltrattare tutti coloro che erano in suo potere e fatta rinchiudere in un carcere donna Manuuela, le fece credere che la sua vita avrebbe pagato la perfidia di Rosselana.

 

 

LA LOQUACITA’ DI

ROSSELANA

INCURIOSISCE IL SULTANO

CHE VUOL VEDERE

LA SCHIAVA SPAGNOLA

 

 

L

a spagnola che non comprendeva alcunché di tutto questo e sperava che i suoi parenti non avrebbero fatto passare molto tempo per cercarla, fu così spaventata dalle minacce del kaimacan, che passò diversi giorni pensando alla morte, senza alcuna consolazione e senza speranza di poter giammai riacquistar la libertà perduta.

In questo mentre, la principessa Basc-larì che aveva dimenticato le infedeltà del suo amante, non trascurava di parlare della spagnola, usando la malizia di dire in presenza del Gran signore, che tutto quello che Rosselana diceva dell’avvenenzaa di questa cristiana era veritiero e non vi era nel Serraglio persona più bella di lei. Questo bastò per metter nell’animo del sultano una tal curiosità che si dolse con Mustafà per non avergli presentato la schiava e gli ordinò di mandargliela. Karà gliela condusse, ma era così cambiata per il rammarico della perduta libertà e per gli impropri trattamenti di Mustafà, che il Gran signore non la trovò corrispondente alle lodi che Basc-larì le aveva attribuito.  

Basc-larì che la trovava con cento difetti, la interrogava per sapere come si comportasse il kaimacan con lei e lei rispose che dopo la sua riduzione in schiavitù la sua perversa fortuna non le aveva concesso una minore infelicità nello spazio di tempo che si era trovata nel Serraglio dove, permanendo, non sarebbe stata esposta alle minacce del più inumano degli uomini, così mostrando di esser risentita nei confronti di Mustafà.

La principessa ad onta di ogni disgusto che si prova nel sentire dir male delle persone che si amano, a questo punto fu presa da compassione per l’infelice spagnola, ad onta dei barbari trattamenti fatti da Mustafà alla sua schiava e servirono a meritare presso la sua padrona, che riconosciuto il fine del suo errore, si pentì di avergli mandato il vasetto di ruta e si convinse della ingiustizia dei suoi sospetti che le erano apparsi come cosa indegna del samgue ottomano.

In questo tempo il kaimacan afflitto per la collera di Basc-larì, pensava come potesse giustificarsi dal momento che il Serraglio era impenetrabile e gli eunuchi gli erano sospetti; egli vedeva insomma molti invincibili ostacoli per avvicinarsi a Basc-larì.

Ma trovò il modo  di farlo rivolgendosi alla sultana sua madre, che essendo vecchia non era sottoposta alla osservanza della cautela delle altre e considerò di farle dei presenti e sollecitò la sua vanagloria dicendole che uno dei più potenti ufficali dell’impero, ricercasse la sua amicizia.    

Mustafà la trovò ben disposta e le riferì dei sentimenti amorosi che egli nutriva per sua figlia, assicurandola che se fosse divenuto suo genero li avrebbe legati un vincolo potentissimo e la sultana si dichiarò disposta ad accontentarlo.

Il kaimacan dopo averla ringraziata la avvertì che sarebbe stato più difficile assicurarsi  del cuore della principessa, più che della volontà del Gran signore.

La sultana che vedeva sua figlia nelle straordinarie occorrenze, alla prima che si presentò le parlò in favore di Mustafà, facendole conoscere i grandi vantaggi che ne avrebbe ottenuto sposando un sì possente ministro e la principessa non si dispiacque che sua madre si fosse occupata dei suoi interessi  e le disse che non avrebbe avuto ripugnanza a sposare Mustafà, purché il Gran signore ne concedesse il permesso. Tutto fu riferito al kaimacan che provò grande gioia nel sentire che la collera della principessa era dispersa e ne provò incomprensibile gioia, inviandole un selam che conteneva tutto ciò che potesse giustificare la più sensibile passione e il piacere che gli causava il pensiero di essersi pacificato con lei.

La principessa volle subito rinmettergli un vasetto di tutte le sorti di profumi, ma avendo ponderato che apriva troppo il suo cuore, cambiò disegno e gli inviò una linea bianca, veridico contrassegno di pace; il Gran visir, pienamente soddifatto, lo fece incastonare in una ricca cornice che portandola con sè, ad ogni momento baciava.

La sultana Valediè trovava giornalmente nuovi motivi per trattenere Rosselama, per impedirle di parlare alla principessa in favore di Mustafà; la sua gelosia le faceva pensare a tanti altri modi per far del male all’imgrato, ma non avendone la forza, immaginò che se Basc-larì si fosse sposata, Mustafà avrebbe perso la sua occasione e l’avrebbe facilmente dimenticata.

Così, avendo molto credito presso il Gran signore, non tardò a proporre un matrimonio per la principessa e così, gettati gli occhi sul bascià di Aleppo, risolvè di offrirgli la sua alleanza e gli inviò un hatcherif per annunciargli la nuova, con l’ordine di recarsi prontamente alla Porta.

La sultana. contenta di questa proficua idea, non si curò più di ciò che  Rosselana avrebbe riferito a Mustafà e la rimandò dalla principessa che trovò qualche consolazione ai suoi dolori, per il crudel maritaggio minacciato. Il dolore che aveva assalito Mustafà fu immenso in quanto sapeva che gli ordini del Gran signore erano irrevocabili e si abbandonò alla disperazione, senza vedere alcuna cosa che potesse consolarlo.

La sultana gli era divenuta odiosa, sapendo che solo lei aveva potuto consigliare questo matrimonio; la sua stessa fortuna l’opprimeva, già che non poteva sacrificarla alla sola persona che gli faceva amare la propria vita: insomma, non ravvisava che orrori e nel turbamento in cui si trovava, immaginò che la principessa fosse in travaglio per non potersi dare a lui. Questo pensiero che gli dava debole consolazione, gli parve così gradito che prese la risoluzione di chiedere udienza particolare alla sultana Valediè che impose al kehajà di condurlo di notte nello stesso modo delle altre volte.

E così,  Mustafà introdotto di notte nel Serraglio, fu condotto dagli eunuchi, con finto abbigliamentio di itchoglante, nell’appartammento di Basc-larì dando l’impressione che fossero mandati dalla sultana Valediè e gli lasciarono la libertà di avvicinarsi alla principessa che si trovava nella stessa afflizione del  suo amante.

Lei rimase attonita nel riconoscere Mustafà e nonostrante la sua sorpresa e l’alterazione in cui si trovava che le impedirono di ravvisare l’estremo pericolo in cui Mustafà si trovasse, non tardò a farglielo notare. Ma egli rispose che sarebbe morto di dolore nel vederla nelle braccia di un altro e avrebbe preferito morire per le mani dei muti del Serraglio, che essere esposto a uno spettacolo tanto funesto. Ora, aggiunse, che ho avuto l’onore di dirvi che muoio per voi, sarò felice della mia morte. Si intenerì la princiopessa e le lacrime bagnarono il suo viso.

Nel frattempo la sultana che attendeva Mustafà, meravigliata nel non vederlo comparire, fece chiamare il kehajà il quale assicurò che Mustafà era entrato da tempo nel Serraglio ed egli stesso lo aveva accompagnato nel vicino apartamento. Allora, nella sultana, si risvegliò tutta la gelosia, non dubitando che Mustafà fosse stato portato nell’appartamento della principessa e sentendosi vilipesa si recò presso il kaden (intendente del Serraglio) per dirgli che un uomo era entrato nel quartiere delle donne e fece avvertire i muti di prepararsi a punire il temerario.

Il sovrano, informato rimase sdegnato per l’ardimento inaudito  e non volle fosse strangolato, non parendogli questo supplizio sufficientemente crudele per un simile delitto, per cui ordinò fosse pubblicamente impalato la mattina seguente nella prima corte del Serraglio.

Il kehajà fu parimenti arrestato in quanto a lui spettava il controllo del quartiere delle donne. Il supplizio di cui Mustafà era minacciato sembrò alla sultana troppo crudele per un delitto di cui lei era la causa e decise di attendere il far del giorno per chiedere a suo figlio la grazia.

Recatasi nell’appartamento del figlio gli disse che l’uomo arrestato con le vesti di uno itchoglante era il kaimacan e la passione che aveva per la spagnola lo aveva portato a rischiare di perdere la testa ed io sono angustiata perché per i suoi servigi merita il perdono essendo un ministro pieno di zelo, Il sultano, sorpreso di sentire il nome del reo si sovvenne dei servigi che gli aveva reso e dichiarò nello stesso tempo che perdonava Mustafà ma per il kehajà non provò la stessa indulgenza poiché volle fosse strangolato; ma la sultana per lui chiese la grazia, che fu concessa, ma fu cacciato dal Serraglio.

Il sultano ritenendo che Mustafà amasse la spagnola, gliela restituì e da quel momento Mustafà la trattò con maggior considerazione come schiava del Gran signore, ma egli sentiva che il suo amore per Basc-larì non era diminuito e lo addolorava il sentire che lo sposo, al quale era stata destinata stava par partire da Aleppo e sarebbe giunto alla Porta.

 

 

KARA’ MUSTAFA’

NOMINATO DAL SULTANO

GRAN VISIR

 

 

 

M

ustafà pensava a qualche espediente per impedire il matrimonio di Basc-larì e aveva mandato ad Aleppo un suo uomo fidato, il quale gli inviò una relazione di tutte le tirannie che quel bascià aveva esercitato nel suo governo e tutto fu riferito durante un divano, in presenza del Gram signore  e senza dar tempo al Gran visir di riferire di ulteriori delitti, fu inviato un chiaus con un hatcherif per privare della testa questo sventurato.

Il bascià di Aleppo fece condurre il chiaus in una sala preparata magnificamente con esposizione delle ricchezze per ricevere la principessa, ma il chiaus gli presentò il suo ordine e senza dargli tempo di dire alcunché, gli gettò la corda al collo e lo strangolò.

Basc-larì, senza conoscerlo e senza averlo mai visto ebbe in eredità i suoi beni e Mustafà si lusingò che non avrebbe trovato ostacoli alla sua felicità e prese le sue misure con la sultana, madre della principessa, al fine che al primo bayram, che è il periodo dell’anno in cui le sultane vedevano il Gran signore, gli proponesse il matrimonio che tra di loro avevano progettato.

Dopo la disgrazia del capo degli eunuchi, sebbene Mustafà non avesse più intrighi segreti con Valediè, per continuare ad avere la sua protezione,  non omise di inviarle un selam per dimostrarle il suo dispiacere di non vederla; questa testimonianza di un residuo attaccamento, persuadevano poco la sultana, la quale non dubitava che Mustafà non avesse contribuito alla morte del bascià di Aleppo.

In questo periodo moriva il Gran visir e tutti coloro che ricoprivano cariche nell’impero avevano gli occhi aperti per tributare gli onori a colui che sarebbe stato scelto per ricoprire questo posto; le sultane e i capi eunuchi avevano i loro nomi da proporre, ma il Gran signore per l’inclinazione che aveva per Mustafà, lo nominò Gran visir.

Tutto i mondo si affaticò a nanifestargli i giubilo della sua esaltazione, quegli stessi che gli erano stati contrari, le sultante che stiamìvano loro interesse avere buona intelligenza con questo primo ministro, si complimentarono con segreti messaggi, non tralasciando di fargli intendere di aver avuto parte nella elezione.

Mustafà era pervenuto alla più alta dignità a cui un suddito dell’impero ottomano potesse aspirare e non dubitò di poter aspirare alla mano della principessa Basc-larì. Essendo giunta la festa del bayram, la sultana Kralj che era ambiziosa e sperava di avere qualche parte negli affari di governo,  se il Gran visir avesse sposato sua figlia, profittò di questa occasione per insunuare nell’animo del Gran signore il matrimonio che meditava; il monarca ottomano la ricevé con molta civiltà e dopo aver asserito che non disapprovava il suo pensiero, promise che entro poco tempo ne avrebbe veduto gli effetti.

Lo stesso giorno la sultana Kralj partecipò alla prospera novella del Gran visir che diede la libertà a tutti i suoi schiavi. La bella spagnola fu la sola che non potè godere di questa grazia, perché una volta entrata nel Serraglio del Sultano, il visir non poteva più rimetterla in libertà senza un preciso suo ordine. Ma questo ministro aveva cotanti riguardi per lei, che la servitù sarebbe apparsa dolce a tutti eccetto a questa lacrimevol figlia che ogni giorno piangeva la sua malaugurata sventura.

Quando il Gran visir aveva concesso la libertà ai suoi schiavi, si trovò un giovane cristiano di molto ragguardevole aspetto che la rifiutò. Il Gran visir attribuendo questo disprezzo a un grande attaccamento per il suo servizio, gli offerse vantaggi conoìsiderevoli se avesse voluto rinunciare al cristianesimo. Lo schiavo gli rispose di esser così soddisfatto della sua condizione, che si sarebbe schifato di mutarla con qualsiasi bascià della Porta. Una così ardita risposta, sorprese il visir che lo fece osservar segretamente.

Quello che era stato incaricato di tale incombenza  lo avvertì, poco tempo dopo, che quel giovane schiavo passava le notti intere a piangere sotto le finestre della bella spagnola. Il Gran visir, giudicando esser costui amoroso di costei, lo fece caricar di ferri e facendo chiamare donna Manuela, le disse con disinvolte maniere come uno schiavo cristiano, l’amasse con tal passione che passava piangendo le notti sotto la sua finestra. Soggiunse che egli avrebbe saputo privarla con cinquecento colpi di bastone, di questo amante , che lo avrebbero guarito da questa follia. Donna Manuela impallidì a queste ultime parole; un torrente di lacrime sgorgarono dalle umide pupille che accrebbero la curiosità del visir che la scongiurò di dirgli se consceva lo schiavo. La vezzosa  spagnola giaccché i suoi Fati l’avevano quivi traghettata, si risolvé di scoprire il suo segreto e prese a dire.

 

 

IL RACCONTO DI

DONNA MANUELA

FIGLIA DEL VICERE’

DI NAPOLI

 

 

L

’infelice di cui mi avete parlato si chiama don Gaspardo di Toledo; egli appartiene a una delle più illustri Case di Spagna; donna Maria de Mendoza, sua madre, fu allevata con la mia presso la regina; ambedue come dame d’onore e ancorché la bellezza facesse nascere qualche gelosia tra le persone che usufriscono di qualche distinzione nei palazzi reali, si trovò una grande uniformità tra di esse che lealmente si amarono. Furono maritate ambedue nello sstesso anno e continuarono ad amarsi, benché congiunte a mariti, conme avevano fatto quand’erano fanciulle.

In capo a un anno, donna Maria partorì l’infelice don Gaspardo, ma mia madre non fu gravida che tre anni dopo; io fui il frutto della sua gravidanza e donna Maria ebbe un estremo giubilo nel sentir che avesse partorito una figlia e mi richiese per suo figlio quasi subito che fui nata.

I nostri parenti strinsero reciproci nodi  per perpetuare in noi l’amicizia che era tra di loro e io sentivo così sovente parlare di don Gaspardo che sapevo dire il suo nome prima che io sapessi profferire il mio. Egli era sempre con me; giornalmente mi mandavano da lui. La nostra stella secondò le intenzioni dei nostri genitori, facendo mettere fra noi una tal simpatia che preferivamo il piaceere d’essere insieme a tutti i divertimenti che si potevano proporre.

La cura che prendevano le nostre madri che ci istruivano a vicendevolmente amarci, supplì molto all’innocenzaa della nostra età. Noi ci amavamo e quelli che avevano la nostra tutela si rallegravano nel sentircelo dire innanzi a tutti. Ma la mostra felicità finì quasi appena cominciammo a conoscerla.

Don Gaspardo essendo sui dodici anni  quando ero negli otto, quando mio padre fu nominato ambasciatrore a Roma, onde sentimmo da don Gaspardo che vi menava la sua famiglia e che il viaggio era prossimo, rimanendone sensibilmente afflitto.

Per me, ne fui travagliata, parendomi cotanto acerba questa separazione, che rimasi ad ogni momemto dolente. Ci promisero i nostri padri, che questo viaggio non sarebbe durato a lungo e per consolarci in qualche maniera stabilirono il nostro matrimonio con le fortunate formalità.

Don Gaspardo passò lungo tempo senza potersi conssolare della mia assenza; ma i suoi camerati si beffavano di lui, sul titolo di marito che tal nome gli fosse oltraaggioso, onde sfuggendo di profferire il mio nome, usò non più favellar di me.

Durò sei anni l’ambasceria di mio padre e in cambio dei suoi benefici gli si donò per ricompensa la vicerealità di Napoli.

Mia amadre giudicando che non saremmo tornati in Spagna, scrisse a quella di don Gaspardo, pregandola di incamminar suo figlio in Italia, alle quali istanze, datogli equipaggio proporzionato ai suoi natali, lo lasciarono partire. Ma don Gaspardo non aveva più un barlume delle nostre prime inclinazioni e avendo sentito che nei Paesi Bassi s’infervoriva la guerra, prese il cammino per le Fiandre e trascurò recarsi a Napoli.

Mia madre seppe subito che era partito dalla Spagna e non vedendolo arrivare fu presa da grandissima inquietudine, fin quando ci scrissero da Madrid che egli si trovava in Fiandra. Mio padre fu così preso dal poco rispetto o per dir meglio, del disperezzo che don Gaspardo aveva mostrato per me, che volle rompere tutti i contatti per il nostro accasamento; ma mia madre lo distolse, con non poca fatica, mentre la guerra cessava, in quanto interveniva la pace tra le due corone della cristianità.

Don Gaspardo, non trovandosi più nell’occasione di procacciarsi la gloria, provò qualche impazienza di rivedermi, e desideroso di soddisfaare la propria curiosità si recò a Milano ove comunicava la sua intenzione al principe di Ligné, governatore di Milano, perché scrivesse a mio padre.

Il principe considerava  don Gaspardo come proprio figlio, al fine di essere accetto (a Napoli) e don Gaspardo giunse a Napoli in incognito, passando come figlio del principe di Ligné; egli era così cambiato nelle sue fattezze che nessuno era in grado di riconoscerlo; mio padre lo ricevé nel suo palazzo e non trascurò fargli conoscere la stima che aveva per la sua Casa.

La prima volta che lo vidi a Napoli riconobbi in esso qualità soprannaturali, da provar  dispiacere per quello che sentivo di troppo favorevole per lui, ritenendo che non dovevo stimare che don Gaspardo. La diligenza che egli usava nell’incontrarmi in tutti i luoghi dove sperava vedermi, mi facevano credere che aspirasse a piacermi.

Ciò mi faceva contenta, ma poi riflettendo sugli impegni che avevo con don Gaspardo, non potevo, senza mostrare infedeltà, gradire i favori dell’altro ed ebbi rimorso dei sentomenti che  mi ingannavano e risolsi di sfuggire un cavaliere che mi sembrava cotanto dannoso.

 

E’ RIVELATO

L’ARCANO DEL FIGLIO

DEL PRINCIPE DI LIGNE’

 

 

M

entre mio padre non sentiva più parlare di don Gaspardo, io ero talmente soddisfatta del giovane, creduto principe di Ligné, in cui trovavo maniere così nobili, che mia madre aveva espresso più volte il desiderio di averlo come genero, ma ciò che la allontanava da questo pensiero era il figliolo della sua amica.

E mentre mio padre mi diceva  di fissare i miei pensieri su don Gaspardo, mia madre mi faceva considerar delitti i pensieri che potesssi avere per altri, fuor di colui che mi era stato destinato, onde trovai contrarietà nei miei sentimenti e non potevo difendermi dall’aver stima per il principe di Ligné e gradire tutto ciò che faceva per piacermi.

Io non riferirò tutti i sotterfugi che egli faceva per  impegnarmi a corrispondere ai suoi affetti e procurò di farmi avere delle lettere che rifiutai di ricevere  giornalmente; occultai così bene i segreti moti del mio cuore, che non contrassegnò già mai in me cosa veruna che potesse dargli una minima speranza.

Poco tempo dopo mio padre ricevé lettere del Governatore di Milano  che lo pregava di condonargli il piccolo inganno che gli aveva fatto, scrivendogli per raccomandargli don Gaspardo di Toledo, sotto il nome di suo figlio, sollecitandolo  ad avere un genero così compito. Egli, con simpatia aveva indicato come principe di Ligné, non altri, che don Gaspardo di Toledo.

Appena lo vide, mio padre lo abbracciò con tenerezza e dopo avergli mostrato le lettere del Govermatore di Milano, gli disse che approvava la sua galanteria e che gli permetteva di continuarla. Don Gaspardo, confuso di essere stato scoperto, rispose di essere felice di sposarmi dopo avermi conosciuta, per timore di cascare nell’inconveniente in cui casca la maaggior parte degli spagnoli, che disprezzano le loro mogli perché non le hanno conosciue prima del matrimonio.

Quello stesso giorno lo feci mangiar (lei lo credeva ancora il principe!) con mia madre e con me, ancor che ciò non si pratichi che raramente, e mia madre si era opposta, ma vedendo che suo marito consentiva, cessò con gli ostracoli. Questa familiarità che è straordinaria fra le persone della nostra nazione, mi meravigliò; non perché ne fossi rimasta infastidita e che non mi facesse piacere di poter osservare un cavaliere che trovassi fuor di modo gradito, ma per il modo di guardarmi e i motteggi di mio padre che mi intimorirono a tal punto che aìbbassai gli occhi per tema di incontare i suoi.

Finito il pranzo, mia madre trovandosi nella mia canera diceva, con le lacrime agli occhi, di non capire la condotta di suo marito che mi scongiurava di ricordarmi di essere impegnata con don Gaspardo e fingessi di essere malata piuttosto che trovarmi a tavola col princiope di Ligné.

Finalmente mio padre mostrò a mia madre le lettere del Governatore e svelò che il principe fosse don Gaspardo di Toledo e mia madre. felice, abbracciò mio padre, meravigliandosi che per sì lungo tempo fosse stata in sì lunga fallacia. E mia madre disse che voleva rivedere don Gaspardo per abbracciarlo, ma mio padre le disse di voler mantener (nei miei confronti) ancora per qualche tempo, l’incognito su don Gaspardo.

Mia madre mi avvertì della confidenza che le aveva fatto mio padre, e mi raccomandò di non lasciarmi uscir di bocca quanto le era stato riferito; risolsi subito di vendicarmi, ma non fu possibile contraddirmi  per lungo tempo, poiché provavo piacere a pensare, senza mancare agli imprgni con don Gaspardo, soddifare l’inclinazione che avevo per il principe di Ligné, che non ebbi la forza di mostrargli alcun risentimento per ciò che mi era stato riferito.

Non mi ingegnavo più di evitarlo, ammiravo tutto quello che mi diceva, ero con lui tutto il tempo che la convenienza poteva permettere e quando ero obbligata a ritirarmi, provavo sempre una impazienza esttrema di tornare a rivederlo.

La sua passione divenne così violenta che pregò mio padre di condurlo nella mia camera per dirmi il suo vero nome e stabilire il nostro accasamento. Io ne fui così stupefatta che non saprei ricordare i complimnti che don Gaspardo mi fece, ma so che tutta la città di Napoli si preparava ad onorare con magnifiche feste il nostro maritaggio, quando venimmo a conoscenza , con lettere mandate dalla Spagna, della morte del padre di don Gaspardo.

Questa infelice nuova, troncò tutti i nostri disegni per la necessità di don Gaspardo di recarsi a Madrid per consolar la madre e io mi sarei dovuta recare in Spagna tre mesi dopo, dove ci saremmo sposati. Ma giunto in Spagna scrisse a mio padre di farmi partire senza aspettare i tre mesi che erano stati convenuti.

Infine mi imbarcai e dopo lunga e laboriosa navigazione i nostri marinai  vedevano le riviere di Spagna, quando vi rendeste padrone del vascello e don Gaspardo apprese la mia angosciosa disavventura, con tutto l’immaginabil dolore.

La sua generosità o piuttosto il suo amore, non gli permise aspettar alcun soccorso da mio padre, ma egli ammassò una considerevole somma e si imbarcò con due religiosi che tutto l’anno si dipartono di Spagna per venire a comprar dei cristiani schiavi negli Stati del Gran Signore.

Giunto a Costantinopoli  presentì che non si poteva più riscattarmi per esere entrata nel Serraglio. Tutti gli amici lo consigliarono a ritornarsene, ma non ascoltando i loro consigli, dimorò in Costantinopoli ancor senza speranza di vedermi.

Per mezzo di certi giudei ai quali offerse di compensarli liheramente, potevano farlo entrare al vostro srvizio; ma dopo aver tentato tutte le strade, gli dissero che non era possibile che un musulmano avesse al suo servizio dei cristiani che non fossero schiavi. Questa difficoltà non lo rimosse e acconsentì senza rammarico, che i giudei lo vendessero al vostro kiaià e con questa apertura, trovò il mezzo di vedermi e ad onta della mutazione del suo stato, io non ebbi fatica a riconosceerlo. Vedete, signore, continuò donna Manuela, se egli merita il trattamento che avete disegnato di fargli.

Il Gran visir rimase molto fortemente toccato da questo discorso e dopo aver dato ordine di togliere i ferri a don Gaspardo, assicurò donna Manuela cha la sua condizione non era così infelice come si imamginava, poiché il Gran signore di cui era schiava, poteva permettere di sposare il suo amante e donare beni considerevoli quanto quelli che avevano perduto, purché lasciassero la loro Legge e si facessero istruire in quella di Maometto. Così, senza attendere la risposta, inviò all’uno e all’altro dottori, per istruirli dei precetti dell’Alcorano, persuadendoli che si amavano troppo teneramente per rifiutare il partito offerto.

Ma i due amanti, rimanendo nella loro religione, dopo  essersi dati mille reciproche asserzioni che il loro amore durerebbe quanto la loro vita, si risolverono in presenza dei Dottori, piuttosto di morire, che rinunziare al cristianesimo.

Il Gran visir, informato della loro decisione, parlò ancora a donna Manuela e le fece intendere che non doveva più pensare di rivedere don Gaspardo se lei si ostinava a persistere nella sua religione, onde egli stesso andava a imbarcarlo sul primo vascello che sarebbe partito per il suo paese.

Queste minacce non scossero punto la sua coscienza e il Gran Visir costrinse i giudici a pagare la porzione di don Gaspardo, poiché lo avevano venduto senza che fosse loro schiavo e lo fece imbarcare mandandolo in Spagna; mentre il Gran visir attendeva con estrema impazienza che il sultano dichiarasse la sua volontà sul preteso maritaggio.

 

 

L’INTRIGO TESSUTO

DA VALEDÉ

PER NON FAR SPOSARE

BASC-LARÍ A MUSTAFA’

 

  

 

Q

uesto monarca che non prendeva già mai risoluzione, particolarmente sulle cose che riguardavano i principi o le principesse della sua Casa, senza consultare la sultana Valedé, gli comunicò il disegno che aveva di maritare il suo Gran Visir con Basc-larì e le addusse tutte le ragioni che la sultana Kralì gli aveva portato, per obbligarlo a risolversi nella decisione.

 La sultana Valedé, fingendo di approvarlo, gli consigliò di concluderlo e gli soggiunse inoltre varie ragioni per confermarlo nella sua decisione. Tuttavia, un principe che condivideva la sua condotta nella amministrazione dello Stato, le aveva suggerito che il sultano, per legarlo maggiormente a sé, avrebbe fatto meglio che farlo maritare a sua sorella, di dargli in moglie la figlia, ancor che non avesse che cinque anni. Essa corroborò queste sue idee con tante altre ragioni, da convincere il Gran signore a rimanerne persuaso e acconsentire a effettuarlo.

Questa sultana, la quale non operava che per rompere i progetti dei due amanti, non fu soddisfatta nel veder che il sultano era risoluto di fare di Mustafà suo genero, richiedendo la sua gelosia, una vendetta ancora ancora maggiore.

Finse infatti di interessarsi dell’accasamento della principessa e persuase il monarca a prevenire le istanze della sultana, madre di lei, maritando Basc-larì al bascià Azafs, a cui propose l’investitura del governatorato di Buda, uno dei più considerevoli dell’impero.

Il Gran signore, avendo approvato i consigli di sua madre, la ringraziò dello zelo che lei aveva dei suoi interessi. La mattina dopo, fatto venire il Gran visir, gli dichiarò di aver preso la risoluzione di onorarlo, facendolo sposare a sua figlia che era quanto di più caro potesse avere e la più sicura testimonianza che potesse dargli della sua soddisfazione per i  suoi servizi.

Mustafà restò così sorpreso e stordito da questo crudele discorso, che il sultano si sarebbe accorto del disordine che gli appariva sul viso, se non avesse trovato modo di occultare i suoi sentimenti, gettandosi ai piedi del suo padrone, abbracciandoli per lungo tempo, senza aver la forza di pronunciar parola.

Il Gran signore che attribuiva questo rispettoso silenzio al giubilo  che gli cagionava una così buona nuova, lo informò, nello stesso tempo, del maritaggio di sua sorella col bascìà Azafs, che nominava governatore di Buda.

Il Gran visir, non ritrovando in tutto il mondo condizione più miserabile della sua, si abbandonò alla sua disperazione, e il sultano, vedendo che  Mustafà era proteso ai suoi piedi, senza alzarsi, volle risparmiargli la confusione di rispondergli su un affare così delicato e,  visto che egli non diceva niente e glielo impediva l’eccesso di giubilo, si ritirò.

Nello stato in cui si trovava il Gran visir, aveva trascurato di inviare gli usitati presenti alla figlia del Gran signore, se gli amici, informati dell’onore che gli faceva il monarca, non l’avessero obbligato a presentare alla giovanissima principessa i doni d’uso quali schiavi, telette, vesti e gemme. Egli passò più giorni senza dare udienza e non trovò consolazione che nel far conoscere a Basc-larì e asserirle, che malgrado l’ingiustizia del Gran signore, avrebbe messo in pericolo la propria vita per dimostrarle di amarla fino all’ultimo respiro.

Ma il bascià Azasf aveva avuto l’accortezza di mandare doni alla sultana Kralì, che parlò alla figlia ed ebbe la destrezza di farle intendere che il Gran visir, essendo padrone dell’impero, avrebbe preferito essere genero del sultano anzicché cognato, per cui la principessa, trovando verosimili le ragioni della madre, rimase offesa di questo disprezzo e risolse di dimenticare il Gran visir,

Ma tutti gli sforzi che fece furono inutili, tuttavia cercò di soffocare l’istintiva inclinazione che sentiva per lui; ma il suo cuore si rivoltava contro la sua ragione e quanto aveva sentito dalla ingratitudine del suo amante, non bastò per cancellarlo dalla sua mente.

Sebbene Basc-larì avesse in estrema ripugnanza il matrimonio con il bascià Azasf, malediva la sua destinazione, ma sua madre la fece risolvere ad obbedire agli irrevocabili ordini del Gran signore. La sultana Valediè, che non meditava altro che ad allontanarla per liberarsi più presto che poteva di una rivale sì molesta, suggeriva al sultano di far eseguire la cerimonia matrimoniale al più presto, ciò che fu eseguito con tanto rigore che le si permise appena di passare dal vecchio Serraglio per prendere congedo dalla madre.

Il Gran visir non tralasciò di mandare un selam alla principessa il giorno del suo fatale accasamento, che essa ricevé senza sapere cosa stesse facendo, essendo agitata da una infinità di sentimenti confusi e opposti, mentre ad onta del suo sdegno, provò qualche consolazione nel ricevere il regalo del suo amante.

E provando qualche impazienza per ritrovarsi sola per esaminarla e per capire se avesse potuto dargli una buona ragione per giustificare la sua perfidia. Ma, riconobbe, dalla qualità dei fiori che componevano il selam, essere Mustafà alla disperazione e che l’assicurava di amarla per tutta la sua vita e ciò non servì che a inasprire il suo dolore e farle più vivamente sentire il rammarico che provava nel separarsi da lui.

Rosselana, che aveva sempre parlato in favore del Gran visir, con la speranza di ottenere la sua liberazione, dopo il suo matrimonio, era così afflitta, come la principessa.

Questa uniformità di sentimenti era data dal piacere che la principessa trovava nel parlare di Mustafà con questa schiava della perfidia del visir, che dopo averla sacrificata alla sua ambizione, volle renderla infelicissima, inviandole, mentre la perdeva, ghirlande appassionate, con cui le diceva che non avrebbe mai cessato di amarla. Rosselana non dimenticò di dire alcuna cosa per giustificare il Gran visir e la principessa era così disposta ad ascoltare uttto ciò che riferiva in suo favore e credé che il sultano l’avesse forzato a sposar sua figlia.

Ma lei venne a pensare che il Gran visir, come padrone assoluto dell’impero, avrebbe potuto prendere altre misure per non perderla, per cui giudicò che egli non avesse avuto giammai che una passione molto tiepida per lei per non essersi opposto al suo maritaggio col bascià Azasf. Mentre faceva queste riflessioni, ella ne fu talmente oppressa da non dare più nuove di se stessa e si assuefece a soffrire gli omaggi di suo marito che  la trattava con tutto il rispetto che potesse desiderare.

Il Gran visir, non potendo conolarsi, abbandonò tutto e passò mesi in una mestizia che fece disperare della sua vita; tuttavia il tempo e i rimedi dei più sperimentati medici dell’impero ristabilirono la sua salute in modo che riprese l’amministrazione degli affari.

Non così la sultana Valedé che, non più temendo la rivale, era tornata alla carica nei confronti di Mustafà, per riprendere i rapporti che aveva in precedenza, il quale non sapeva perdonarle il matrimonio di Basc-larì e non si interessava più degli inntrighi del Serraglio; anzi aveva insinuato al sultano che veniva meno alla sua gloria e alle regole della politica, tutte le volte che egli seguiva i suggerimenti di una femmina che ne abusava in più occasioni.

La sultana, offesa dal disprezzo del Gran visir, cambiò in odio tutta l’amicizia che aveva nei suoi confronti ed entrava in furore ogni qualvolta le sovveniva che lo stesso uomo che le doveva la vita e che aveva  innalzato alla prima dignità dell’impero, la disprezzasse, la considersse come un mostro di ingratitudine e pensava alla sua vendetta. Il Gran visir, dal suo canto,  si cautelò a tal punto presso il sultano e maneggiò sì destramente l’animo di quel principe, che rese inutili tutti gli artifizi della madre e dopo quel tempo fu più assoluto nel suo ministero, come non lo era mai stato fino a quel momento.

 

 

 

 

 

 

Gran Dama Turca

 

 

BASC-LARÍ DECIDE

DI RENDERE LA LIBERTA’

A ROSSELANA

 

 

I

ntanto la principessa, dimorando in Buda con  suo marito, viveva in apparenza felice. Poiché nononstante le deferenze che il bascià aveva per lei, ciò non impediva di lusingarsi di Mustafà, tal che sentiva piacere di parlarne qualche volta con Rosselana.

Lei si sforzava di persuadere questa schiava di averlo completamente dimenticato, per cui Rosselana, che non penetrava troppo nei suoi sentinmenti, non stava dietro a ciò che lei le diceva: La principessa essendo infastidita dall’idea, o piuttosto, dalla conoscenza del suo amore per Mustafà, che non poteva neanche nascondere, risolse di concederle la libertà, per non avere sempre davanti agli occhi una persona la cui presenza le rimproverava sempre continuamente la sua debolezza, e immaginò di persuaderla che non pensava più a Mustafà, sì che le ordinò di ritornare a  Costantinopoli, di vedere il visir e dirgli che lei se ne viveva felicissima e che le aveva dato la libertà per liberarsi di un oggetto che poteva ricordarle la compiacenza un tempo provata nel gradire le sue adorazioni; e giudicò  un vanto far sapere al Gran visir che lei viveva felice e senza alcun pentimento.

Quest’ultima riflessione le fece prendere con suo marito e sotto altri pretesti,  la decisione di rimandare Rosselana a Costantinopoli. Così, quando  Rosselana giunse alla Porta, non mancò di vedere Mustafà che la ricevette con testImonianze infinìte di benevolenza.

Ella gli rese conto dei sentinmenti di Bascc-larì, ma con tanta desstrezza che il Gran visir restò peruaso che avesse nel suo cuore meno infifferenza che amore; onde in quel momento si credé meno infelice e cominciò a pensare al modo per rivedere la principessa.

Tenne più conferenze con Rosselana, facendole conoscere che l’affezione con cui studiava di parer felice, rimarcava piuttosto una passione mal sofferta, che un’anima tranquilla. Il Gran visir ne fu tanto trasportato, che, frammischiando la sua passione non trascurò occasione di testimoniare a Rosselana la sua gratitudine, fino a prometterle di fatrla tornare al suo Paese.

Quella, non volendo lasciar scappare una congiountura così propizia, lo  supplicò di rendere la libertà a donna Manuela; ma egli le rispsose che ciò non era in suo potere,  atteso che una schiava che aveva goduto dell’onore di essere destinata ai piaceri del Gran signore, non poteva già mai esser liberata. Rosselana, vedendo essere impossibile ottener favori per donna Manuela, profittò per se stessa delle parole del Gran visir  e se ne ritornò nel suo Paese più ricca che in avanti che fosse fatta schiava.

 

 

I RIBELLI UNGHERESI

RINNOVANO LE LORO

RICHIESTE ALLA PORTA

 

 

I

 seguaci del conte Teckeli, capo dei ribelli di Ungheria, inviarono le loro istanze alla Porta per ottener soccorsi contro l’Imperatore. Il Gran visir avrebbe ben voluto approfittare di un così favorevole pretesto per rivedere la principessa, ma nell’intento di concludere la pace con la Polonia, aveva fatto sorgere il desiderio nel sultano, di fare altre conquiste, essendogli pervenuta, da segreti negoziati avuti con la Casa d’Austria, la notizia che la maggior parte dei principi d’Europa erano uniti sotto il comando dell’imperatore per muovere guerra alla Francia.

Il Gran signore aveva la possibiltà di sorprendere la Provenza per mezzo del suo capitano, nominato bascià del Mare, il quale si lusingava che una guerra tra principi cristiani gli dava il pretesto di recarsi in Ungheria e passando da Buda, di vedere la sua principessa.

Mustafà mandò persone confidenti presso le corti dei principi cristiani, per essere informato; e tutti unanimi, gli riferirono che le cconquiste di Luigi il Grande (Luigi XIV) e la condotta di quel monarca, fosse ammirevole mentre il disordine regnava fra i suoi nemici.

Il Gran visir, riconoscendo che ciò che era stato detto dell’imperatore era artifizio, informò il sultano, che aveva rinseccato le sue finanze col pensiero di distruggere la Francia e che era tempo di far la guerra all’Ungheria e profittarsi delle diminuite forze dell’imperatore.  

Si fecero preparativi così formidabili da parte degli ottomani, che i popoli credettero che il Gran signore volesse conquistare l’intera cristianità.  

La sultana Valedé non fu molestata dalla idea di questa guerra, prevedendo di far uccidere più facilmente il Gran visir, quando si fosse allontanato dalla Porta.

L’imperatore, avvertito dai preparativi dei turchi, inviò il conte Caprara ad Adrianopoli, per trattar la pace, ritenendo che le condizioni della cristianità fossero disperate, ma furono rigettate con disprezzo.

Assemblate le truppe nei dintorni di Adianopoli, il Gran signore, dopo aver fatto la rassegna, toltasi dal turbante una penna bianca, con le costumate formalità, la pose sul turbante di Mustafà,  per asserire che riponeva in lui tutta la sua autorità.

Prima di partire, Mustafà, che era sempre a conoscenza di segreti, fu avvertito che la sultana Valediè si vantava di farlo morire; egli aveva già pensato a una simile possibilità, in quanto prevedeva che durante la sua assenza, la sultana, avrebbe ripreso l’ascendente che aveva sull’animo del Gram signore.

Gli amici gli suggerivano di non allontanarsi dalla Porta, ma il Gran visir era troppo innamorato per seguire i loro consigli e gli incanti della principessa affascinavano il suo cuore e la speranza di rivederla gli dava tanta consolazione, che non temeva di perdere la vita per poter avere questo piacere.

 

 

 

IL GRAN VISIR

PER VEDERE BASC-LARÍ

CONVINCE IL SULTANO

A MARCIARE ALLA TESTA

DELLE TRUPPE

 

 

 

P

er poter fermare lo spirito vendicativo della sultana che gli poteva nuocere, il Gran visir ebbe l’idea di isprirare nel sultano il desiderio di marciare alla testa delle sue truppe e gli rappresentò come la presenza del principe desse sempre molta reputazione alle armate e che i cristiani, sapendo che sua altezza avanzava con le truppe, avrebbero cercato di implorare la sua clemenza, piuttosto che resistere. Insomma la sua passione lo spinse a convincere il sultano  a recarsi in Ungheria e il Gran visir mettendosi al coperto dalle vendette della sultana, si approssimava a rivedere la sospirata principessa e per aumentare il proprio splendore, dispose di comdurre seco il treno dei suoi schiavi e del suo harem, in cui si tovava donna Manuela, la cui beltà non facena sorgere alcuna gelosia nelle altre donne.

Il Gran signore, alla testa di duecentomila uomini, partiva da Adrianopoli, ma una pioggia insistente che parve di cattivo augurio, aveva oppresso le truppe dal primo giorno della loro partenza; quando le milizie giunsero a Belgrado, il sovrano le trovò così affaticate e in disordine che credette dover fare un lungo soggiorno per dar loro agio di ristabilirsi.

 Il Gran visir, impaziente di vedere Basc-clarì non mancò di pretesti per recarsi a Buda con un grosso distaccamento, dove, sentendo che la pricipessa fosse imbarazzata dalla presenza di suo marito, inviò ordine al bascià di congiungersi al conte Teckeli pre soccorrere Neuchatel minacciata dai cristiani.

La principessa, che aveva mille ragioni di essere soddisfatta di suo marito, avvertita che il Gran visir si avvicinava a Buda, immaginò subito che la sua vista gli avrebbe cagionato dolore e diffidò del suo cuore e per timore di non risentir tenerezza per un uomo che le era apparso degno della sua stima, si rammentò con quale ingratitudine Mustafà l’avesse potuta sacrificare alle sue mire ambiziose e nello stesso tempo agli obblighi che aveva per suo marito, che avendo molto rispetto per lei, non trascurava alcuna diligenza per piacerle.

Questi tumultuosi pensieri, le cagionarono una tal fierezza, che ben lontana dal considerare l’arrivo del Gran visir, decise, nel vederlo, di testimoniare la sua assoluta indifferenza. Insomma, egli giunse e chiese di vedere la principessa da parte del Gram signore.

Fu ricevuto con abiti da cerimonia e con ornamenti che aggiungevano splendore alla natural bellezza, da rendere il Gran visir maggiormente toccato; egli espresse i complimenti del sultano e, seguitando, aggiunse di non aver mai avuto tanta compiacenza nell’eseguire gli ordini di sua altezza.

La principessa gli rispose con molto contegno, rassicurandolo, artatamente, che il più gran rimarco di considerazione che il sultano suo fratello le potesse rendere, sarebbe stato di renderle al più presto il suo consorte.

Mustafà, sorpreso per una risposta così contraria al suo amore, finse aver avuto ordini di riferire disegni di guerra. Le femmine e gli eunuchi della principessa, si erano nel frattempo un poco allontanati, ed egli si dolse dell’indifferenza che gli mostrrava, impiegando termini più dolci che fossero sufficienti ad esprimere la sua passione. La principessa gli rispose di aver appropfittato del suo esempio, ora però si trovava obbligata a non esser riconoscente, poiché ora era felice di esser caduta nelle mani di suo marito, che senza dubbio era il più onesto uomo del mondo.

Il Gran visir, trafitto dal dolore, reclamò contro l’ingiustizia che gli faceva, credendo fosse capace di mutar sentimenti e nel discorso scoprì tutti gli artifizi con i quali  la sultana Valedé aveva impedito il loro matrimonio, aggiungendo essergli insopportabile la vita, senza il piacere di vederla e aveva impegnato il Gran signore a far la guerra all’Ungheria per avere l’occasione di morire ai suoi piedi, mentre era infelice nell’avvertire che lei non prendeva più parte a ciò che più gli premeva.

Basc-larì che aveva ignorato così essenziali circostanze che giustificavano il suo amante, fu toccata dalle ragioni che le addusse, nonostante la fierezza della Casa ottomana, si trovò soddisfatta  di veder che a una passione da essa causata, fosse stata messa  l’Europa e l’Asia in armi e. malgrado quanto dovesse a suo marito, la sua tenerezza si rese superiore a tutte le convenienze.

Parlò in modo schietto al visir, assicurandolo che oltre all’odio che avrebbe portato per la sultana Valedé in eterno , sarebbe stata imbarazzata per resistere alla sua passione e per sminuire il concetto che aveva espresso per il suo consorte; pronunziando queste ultime parole, versò un torrente di lacrime, pregando Mustafà di ritirarsi, chiamò le sue femmine e disse loro non potersi trattener dal piangere considerando i ragionamenti del Gran visir sulla guerra che sarebbe sanguinosa e suo marito, fortemenete esposto con i cristiani.

Ancor che Mustafà avesse una sensibil gioia per essersi giustificato nell’animo dell’adorata principessa e che aveva ragione d’esser contento dei particolari che gli aeva detto di avere nel proprio cuore per il bascià di Buda, ora riguardato conme un glorioso rivale entrato nell’agone della gelosia, che lo necessitava a cercare un modo per allontanarlo da lui.

Ripassò mille volte la conversazione che aveva avuto con la princiopessa la quale, conoscendola molto inclinata al marito, immaginò che stando al comando dell’armata sarebbe stato felice di adombrarlo con qualche azione di grido. Con questo pensiero usò la diligenza di recarsi ai piedi del Gran signore e lo persuase a dimorare a Belgrado e lacsciasse a lui la cura della guerra.

 

 

IL GRAN VISIR CONVINCE

IL SULTANO

A INIZIARE LA GUERRA

 PONENDO L’ASSEDIO

DI VIENNA

 

 

I

l sultano ebbe molta fatica a risolversi, ma gli abili ministri non mancan mai di giungere ai loro fini e il Gran visir rappresentò al sultano che, avanzandosi nel territorio dei cristinai, il suo allontanamento dalle coste di Costantinopoli avrebbe potuto dare occasione di qualche invasione, mentre stando a Belgrado non zveva nulla da temere per i suoi Stati e nello stesso tempo sarebbe stato vicino alla sua armata, per avere la gloria delle conquiste che sarebbero state fatte.

Approvate dal sovrano le ragioni di Mustafà,  impaziente di far qualcosa che gli acquistasse la reputazione presso la princiopessa Basc-larì, risolse di cominmciare ponendo l’assedio a Vienna (*).

Inviato l’ordine al bascià di Buda di investire quella piazza, marciò alla testa di centottantamila uomini per iniziare l’impresa. Le sue truppe, per diffondere lo spavento a tutta la cristianità, uccisero e predarono tutto ciò che si trovava sulla loro marcia.

Posto l’assedio, il Gran visir fece chiamare il conte di Starembergh, governatore di Vienna, che comandaava la Piazza, di renderla, con l’assicurazione della benevolenza del sultano, se obbediva ai suoi ordini; al contrario se fosse stato così temerario di resistergli e l’avesse obbligato ad esporre il sangue dei musulmani, avrebbe passato tutti a fil di spada, senza risparmiare età e sesso e per lui, in particolare, sarebbe stato inventato un nuovo supplizio.

Il conte di Starembergh di fronte a simili minacce non si scompose e preparò le difese della città, dando fuoco ai sobborghi esterni, animando con l’esempio e le parole così coraggiosamente soldati e abitanti, che gli promisero di spargere fino all’ultima goccia di sangue per difendere la città.

I turchi l’attaccarono subito, con molto valore, ma furono respinti con perdita di gran numero di truppa.

Il Gran visir, che era meno occupato in questa guerra, che immerso nel suo amore, aveva un’estrema avversione per il bascià di Buda, gli parve che ciò non fosse bastante ad allontanarlo da sua moglie in quanto la sua gelosia gli domandava un maggior sacrificio e meditava di farlo morire e si immaginò che la guerra gli potesse servir di pretesto per disfarsi di questo rivale, senza che egli potesse prevedere  questo suo particolare diegno.

Un giorno, raccolse il consiglio di guerra e dopo essersi doluto della lunghezza dell’assedio, fece risolvere un assalto generale contro i sentimenti  dei più sperimentati ufficiali; il bascià di Buda ebbe l’ordine di eseguire l’impresa e marciare alla testa delle truppe che sarebbero state distaccate. Ancor che fosse stato tra coloro che avevano dannato tal risoluzione, si cimentò con molto valore, ma i cristiani incoraggiati dai buoni successi, ne uccisero un grandissimo numero e forzarono il bascià a ritirarsi per non perdere le poche truppe del distaccamento che gli erano rimaste.

Il Gran visirr non tralasciò di vituperare la sua condotta e di addossargli i cattivi successi, affliggendosi molto meno dei soldati che erano stati ammazzati, che per essere il bascià stesso ritornato. In quel momento giunse l’avviso che il re di Polonia marciava per soccorrere Vienna, onde il bascià di Buda, che era uomo di guerra, propose di  inviare un corpo di truppe per impedire il congiungersi all’armata imperiale facendo vedere come i polacchi non potevano approssimarsi alla Piazza senza passare in sfilata, per cui sarebbe stato facile impedirgli il passaggio con pochi uomini. Ma il Gran visir non accolse i suoi suggerimenti e rispose aspramente di lasciarli venire per vendicare gli eccidi che erano stati provocati durante l’assedio.

Insomma, il dodici settembre 1683 l’armata cristina apparve sui monti di Vienna e il Gran visir, sicuro del suo esercito, ritenne di poter battere i cristiani e di poter continuare l’assedio.

Lasciò duemila giannizzeria nelle trincee e un corpo di truppe per sostenerle ed egli marciò alla testa dell’armata per combattere i nemici; indi, giudicando che malgrado l’inegualità delle forze, il primo attacco non sarebbe stato efficace, credé che questa occasione non sarebbe stata favorevole per soddisfare la sua gelosia, facendovi perire il bascià di Buda. Pertanto diede ordine di affrontare i cristiani e non ritirarsi per qualsiasi motivo e che avrebbero avuto l’aiuto di tutta l’armata ottomana. Era così persuaso di vincere, che volle che le femmine dcl seguito salissero sui cammelli  per assistere da una maggiore altezza alla disfatta dei cristiani.

Queste si rallegrarono anticipatamente della pretesa vittoria e lodavano il Gran visir; la sola donna Manuela, che non aveva sentito parlar di altro che dei funesti progetti alla cristianità, pangeva di continuo; una delle favorite del Gran visir, che giornalmente temeva che la sua bellezza non desse negli occhi al suo padrone, dal momento che si trovava così male con i musulmani, le propose di passare nel campo polacco; donna Manuela le rispose che ciò non sarebbe stato impossibile se lei avesse favorito la sua fuga. La moglie del Gran visir, consolata di potersi liberare di una persona che poteva contendergli i vantaggi della beltà, promise di contribuire con tutto il suo potere e lo comunicò ad altre due che avevano uguale interesse alla partenza di donna Manuela.

Intanto, il bascià di Buda era stato respinto e la truppa che comandava, ritiratasi  con timore e disordine, trascinanva con sé una parte dell’armata ottomana; i cristiani proseguirono, incalzandola e i turchi non avendo la possibilità di riordinarsi in battaglia, perdettero molte truppe.

Lo spavennto fu generale e vi furono molti squadroni che si ritirarono senza combattere e senza l’ardire di avvicinarsi ai cristiani. Il Gran visir, fece molta fatoca a trattenere i soldati che dalla sua parte fuggivano; la confusione lasciò occultare il disordine delle sue truppe e i giannizzeri furono lasciati nelle trincee per il timore che approfittassero della ritirata delle sue truppe.

Donna Manuela, che aveva preso le sue misure con le favorite del Gran visir, per scappare all’avvicinarsi della notte, approfittò della costernazione dei turchi e passò nel campo cristiano.

Fu condotta davanti al re di Polonia, mentre i turchi si ritiravano dandosi a una fuga precipitosa, abbandonando le tende con tutto il grosso bagaglio ed anche le armi e i cannoni alla mercé del nemico.

Il re ammirò la decisione di donna Manuela e poiché non conosceva l’idioma spagnolo, mandò a ricercare nell’esercito imperiale se vi fosse un cavaliere di quella nazione; il duca di Lorena fece subito partire uno spagnolo di nascita, che lo serviva come aiutante di campo; il re lo aspettava con impazienza, per ricevere molte spiegazioni e appena lo vide gli ordinò di interrogare la giovane; in quel momento,  donna Manuela, dopo aver gettato gli occhi su questo interprete, riconobbe il suo caro don Gaspardo e cadde svenuta ai piedi del re di Polonia; ma non stette molto tempo svenuta. Don Gaspardo rimase sorpreso, non avendola subito riconosciuta ed ebbe a morir di gioia nel rivedere l’amata;  il re, stupefatto della straordinaria avventura di donna Manuela, che gli fu presentata, volle conoscere la loro storia.

La presenza del re non permise che i due si scambiassero parole affettuose; donna Manìuela riferì dello spavento dei turchi e di tutto ciò che si operava nel campo e il re di Polonia  ne approfittò  per accanirsi contro i turchi e fare a pezzi i giannizzeri che guardavano le trincee e si rese padrone del bagaglio e delle tende, caricando e maltrattando la retroguardia.

Mustafà, che aveva creduto di poter fare la sua ritirata senza che i cristiani l’inseguissero, venendo a conoscenza della fuga di donna Manuela e delle circostanze in cui essa era avvenuta, non dubitò che avesse avvertito il re di Polonia del disordine in cui era il suo campo; ciò lo mise in tanto furore contro coloro che avevano spalleggiato la fuga, che fece tagliar la testa a quattro donne del suo harem e a due degli eunuchi sorveglianti.

 

 

 

*) Era questo il secondo assedio, il primo aveva avuto luogo nel 1529

 

 

 

IL GRAN VISIR SI

GIUSTIFICA COL SULTANO

DELLA GRAVE SCONFITTA

DELLE TRUPPE TURCHE

 

 

 

M

entre la disfatta delle truppe, determinata dal suo amore, gli dava grandissimo travaglio, Mustafà era meno inquieto della levata dell’assedio, che di veder vivo il bascià di Buda, malgrado tutti gli artifici di cui si era servito per farlo morire, perché ritenendo che questo bascià potesse mettergli contro il sultano per le considerevoli mancanze commesse durante l’assedio, risolvé prevenire l’animo del suo padrone, accusando il bascià di tutte le disavventure che erano occorse.

Ma, riflettendo che il Gran signore potesse perdonargli in grazia di sua moglie e che il bascià che era uomo di mondo, si sarebbe consolato delle sue calunnie tra le braccia di Basc-larì, amata con tanta passione, un tal pensiero, lo tormentò così crudelmente, che senza esaminare altri particolari, si abbandonò al suo furore e fece strangolare quest’infelice bascià; e, affinché non fiosse argomentata una tal morte con qualche suo odio particolare, fece  lo stesso trattamento agli altri due bascià, accusandoli di non aver soddisfatto il loro dovere.

Il Gran visir non si turbò del giudizio del pubblico e fu solamente travagliato dalla circostanza che la principessa avesse ricevuto  la funesta notizia. Non di meno, sapendo che la maggior parte delle donne non piange la perdita del loro  marito che per benevolenza e che facilmente esse scordano la loro morte in beneficio di coloro che ancor vivono, pensò che il tempo e la diligenza avrebbero potuto diminuire ogni suo sdegno.

Messa ogni sua applicazione a giustificarsi presso il sultano gli inviò un uomo di confidenza, per fargli intendere che il bascià di Buda, geloso delle conquiste e prevedendo che Buda, dopo la presa di Vienna, non sarebbe stata più frontiera, aveva apportato ogni sorta di ostacolo a questa impresa ed egli si era limitato a rimpoverarlo, senza punirlo, sperando che un uomo che aveva l’onore di essere collegato alla Casa ottomana.  riconoscese le sue mancanze e si accingesse a redimersi. Ma il bascià, abusando della sua moderazione, aveva ostinatamente persistito nei suoi primieri sentimenti e dopo aver avuto la viltà di fuggire davanti ai cristiani, aveva rotto gli ordini musulmani e messo in disordine tutta l’armata.

Che parimenti gli altri due bascià, presi dallo spavento, avevano auomentata la confusione, onde gli infedeli cristiani se n’erano ben profitatti, che senza le precauzioni che aveva preso per trattenere i fuggitivi e far ritirare le truppe con qualche ordine, tutta l’armata correva il rischio di esser tagliata a pezzi.

Indi, appreso che il bascià, odioso dello loro viltà. tentando di far cabale che potessero essere di conseguenza dannosa per il servizio di sua altezza, aveva ritenuto esser necessario punire i colpevoli, senza differire un momento, al fine di arrestare con la loro morte qualsiasi tentativo di sedizione.  

Il Gran signore, persuaso dalle ragioni e dallo zelo del Gran visir, approvò tutto quello che aveva fatto e per significargli  esser contento della sua condotta, gli inviò un grande stendardo con sette code di cavallo che l’onoravano della sua benevolenza e che avrebbe avuto il necessario soccorso, nel caso avesse voluto vendicarsi dei cristiani.

 

 

BASC-LARÍ    CONOSCIUTA

LA CAUSA DELLA

MORTE DEL MARITO

SCOPRE LA CRUDELTA

DI MUSTAFA’

 

 

 

L

a principessa sentì molto confusamente della morte di suo marito e si credette fosse stato ucciso in battaglia e il dolore le impedì di ascoltare le altre circostanze della sua morte e neanche si curò di apprenderle; diede una infinità di lacrime alla sua memoria e non trovò consolazione che pensando d’esser sempre amata dal Gran visir, che giunse a Buda in quel tempo, quando ricevette il grande stendardo che il sultano gli mandava con tutti i segni di stima che si potessero desiderare.

Avendo egli sentito che il suo signore fosse soddisfatto della sua condotta, non pensò ad altro che a giustificarsi con la principessa; ma, informato della considerazione che aveva per suo marito, lasciò passare del tempo prima di presentarsi.

Tuttavia, i contrassegni di grazie ricevuti dal sultano lo avevano riempito  tanto di orgoglio, da rendere impaziente il suo amore, che risolse di chieedere  udienza alla principessa. fingendo di avere ordini del Gran signore da comunicare.

Basc-larì lo ricevé piangendo e lo pregò di darle tempo di asciugar le sue lacrime; nel mentre, il Gran visir, ritenendo fosse stata informata sui particolari della morte del marito, la rassicurò di aver dissimulato le mancanze del bascià di Buda, per quanto fosse stato possibile; ma essendo egli stato causa della sconfittaa della più gran parte dell’armata, non aveva osato punirlo nel timore di esporre la sua testa.

La principessa, sentite queste parole, pensò di morire di dolore  di fronte a questo inaspettato discorso, che suo marito fosse morto per mano del carnefice, con gli ordini del suo amante, invece che in battaglia: queste barbare circostanze, le fecero serntir  maggiormente la sua pedita, che gli fu impossibile ingannarla di non aver avuto maggior sorte nel suo delitto.

Il suo amore non  lasciò che parlasse in favore del visir. ma ella ebbe tanto orrore delle sue crudeltà. che malgrado i movimenti segreti del suo cuore, ella lo riempì di ingiurie e rimproveri e lo minacciò di strangolarlo con le proprie mani se non si ritirava dalla sua presenza. Andato via, lei condannò il proprio rigore, ehe ancor che il suo dolore le sembrasse giusto, si rese conto che la sua collera l’aveva fatta parlare al posto dei veridici sentimenti.

Ma venendo a cosiderare che né il rispetto che il Gran visir aveva per lei, né il timore di  dispiacergli, non avevano potuto distoglierlo dal far strangolare suo marito; ella si ritenne offesa da un’arditezza così criminale e le parve che il suo dovere l’obbligasse a vendicarsi della crudeltà di Karà-Mustafà.

Piena di questi sentimenti, ebbe in odio la sua debolezza e credendo di aver vinto la resistenza segreta che risentiva nel suo cuore, partì da Buda per rendersi ai piedi del Gran signore, con risoluzione di domandar giustizia della morte di suo marito.

In questo tempo il Gran visir se ne viveva angustiato per lo sdegno della principessa, usando grandi liberalità per avere più vicine le sue donne e suoi eunuchi, persuaso che il tempo e l’amore avrebbero fatto facilmente il resto.

Scrisse al Gran signore, per prevenire il viaggio di Basc-larì, col dirgli che non poteva perusadersi che una principessa del sangue ottomano, fosse travagliata dalla morte di un marito che non aveva coraggio.

La sua lettera fece più effetto che non avesse sperato, perché il sultano, cercando di giustificar la condotta del suo Gran visir, per tutte le vie che potessero fargli credito, mandò ordine alla principessa, di non approssimarsi a Belgrado; e dopo averle fatto intendere di non voler vedere chi gli facesse sovvenire di un uomo che si era reso indegno dell’onore che aveva di essere cognato del Gran signore, la rimandò a Costantinopoli; fu accompagnata da un ministro dell’Alcorano il quale le espresse che il sultano, avendo condannato la memoria del bascià di Buda e volendo cancellar che le sovvenisse dell’alleanza che egli aveva avuto con la casa ottomana, aveva scelto Ibarahim per suo cognato. Le disse  inoltre che il sultano, l’avebbe riconosciuta come sorella e la vedrebbe con piacere  ogni qual volta potesse riguardarla come moglie di un uomo che egli amava e non come un traditore.

Basc-larì fu subito sopresa da queste parole, ma, riflettendo sulla circostanza che non era permesso replicare agli ordini del Gran signore e che vendicaava il matrimonio  di suo marito, valsasi essa stessa della crudel necessità, ella ebbe men fatica a sposare Ibrahim bascià, che era giovane e ben fatto.

Il Gran signore  arrivò poco tempo dopo a Costantinopoli, ricevé sua sorella con tutti gli onori e credendo di far cosa gradita al Gran visir che si trovava a Belgrado, gli fece sapere del matrimonio della sorella con Ibrahim bascià, per distruggere ogni ricordo che avesse con il bascià di Buda.

Il Gran visir, che si era lusingato che i tempi e i servizi potessero acquietar la principessa, apprese col più terribile dolore che Basc-larì era stata maritata  a Ibrahim bascià; egli si abbandonò alla sua disperazione e cadde in così gran melensaggine che non meditò più conservare il suo favore, né sostenere le sue fortune.

Fu avvertito che la sultana tesseva nuove cabale contro di lui e che Gran (?) era assediata dai cristiani, ma ciò no lo mosse e trascurò di soccorrere la Piazza e di andare a giustificrsi col Gran signore, amando meglio il perdersi che di esser testimonio dell’avventura di Ibrahim bascià.

 

 

IL SULTANO CAMBIA

SENTIMENTO VERSO MUSTAFA’

E FA DECIDERE LA SUA

 CONDANNA DAL MUFTÍ

 

 

I

 grandi della Porta, annoiati dalla tirannia del Gran visir che per la sua trascuraggine aveva perduto il più bel fiore dell’impero, avevano tentato di distruggerlo nell’animo del Gran signore; ma essendo stata presa Gran dai cristiani, la sultana Valediè si servì di questa congiuntura favorevole, che il sultano, tediato dal cattivo stato dei suoi affari, cominciò a cambiar sentimento per il suo Gran visir.

I giannizzeri, che non potevano perdonare l’aver abbandonato le loro camerate  alla vendetta dei cristiani quando aveva levato l’assedio di Vienna, animati dalle segrete pratiche della sultana Validé, tumultuarono nel Serraglio, chiedendo la testa di questo ministro.

La situazione degli affari confermò la loro sedizione, così il sultano parlò loro con molta fermezza e dopo aver fatto distribuir dell’argento, li fece sperare che avrebbe pensato  al modo di soddisfaarli e li licenzoò.

La sultana e i nemici del visir, rinnovellando le loro istanze al sultano, non cessarono di persuaderlo che l’impero era minacciato dal generale sollevamento, se non sacrificava il visir all’odio pubblico.

Il Gran signore acconsentì che la decisione fosse presa dal muftì, il quale avrebbe giudicato se Mustafà avesse meritato la morte: si epressero al muftì tutte le colpe e il muftì, avendo esaminato l’affare con i Dottori della Legge, scrisse di propria mano che colui che aveva commesso degli errori era degno di morte.

Il Gran signore volle tenere segreta questa decisione per alcuni giorni, ma pressato dalla sultana, fece scegliere due’agà dei giannizzeri.conosciuti come uomini saggi, ai quali, dopo aver raccomandato molta prudenza alla conduzione dell’affare, gli diede un hatcherif e comandò di recarsi segretamente a Belgrado per strangolarvi il Gran visir.

I due agà, essendo arrivati a Balgrado, fecero intendere a Mustafà essere inviati in nome del sultano per prendere giuste misure con lui, per rimettersi in campagna e riparar con vantaggio i malori che erano accaduti.

Il Gran visir, che avvertito delle cabale che si erano fatte alla Porta contro di lui, ebbe qualche sospetto che questi agà non fossero venuti per domandargli la sua testa e differì lungo tempo per dar loro udienza.

I due agà, falsificando la vertità, riferirono di esser venuti a prendere ordini e avrebbero atteso il tempo che gli fosse piaciuto. Questa prudente condotta, ingannò il Gran visir il quale riunì il divano e ricevé i due agà; uno dei due gli presentò l’ordine del Gran signore, che era una piccola scarsella di Siviglia, creminìsina; l’altro, nello stesso tempo, disfece la sua cintura che era composta di piccoli cordoni di seta e la gettò al collo del Gran visir, che cominciò a leggere l’atcherif: egli rimase sorpreso, nominò la sua princiopessa senz’altro esplicare e non riconoscendo nel viso dei due ufficiali alcun movimento che gli permettesse sperare nella loro compiacenza, chiese che gli concedessero tempo per una breve preghiera, e subito dopo fu strangolato.

Si portò la testa, con tutta diligenza ad Adrianopoli ove fu uno spettacolo molto gradito al popolo e molto più ai giannizzeri.

La sola Basc-larì che ancora l’amava, malgrado tutte le ragioni che ella aveva di dolersi di lui, si diede a pianger la sua morte e non potendo soffrire che la testa di un uomo che ella aveva onorato con la sua propensione, servisse di spettacolo al popolo, la fece segretamente levare dal luogo in cui era e fu debitamente sepolta.

 

 

RIFERIMENTI STORICI

 DELLA

INVASIONE DELL’UNGHERIA

E DELL’ASSEDIO DI VIENNA

 

 

S

ulla porta del serraglio era stata appesa una coda di cavallo che costituiva il segnale di raccolta per tutti i combattenti e il Gran Visir Mustafà, aveva raccolto un esercito di duecentomila uomini, in parte turchi, tatari, moldavi, valacchi, riuniti ad Adrianopoli alla presenza di Maometto IV il quale se ne tornò a Costantinopoli, mentre Mustafà proseguiva per Belgrado e superato il fiume Sava, giunse a Essek dove aveva trovato il conte Teckeli, uno dei nobili ungheresi spogliati dei loro possedimenti, i quali avevano l’aiuto dei turchi per riprenderli.

In Ungheria continuavano i torbidi a causa delle persecuzioni esercitatee dai gesuiti contro i protestanti; il palatino Wesseleny si era messo alla testa deigli insorti, ma era stato vinto dalle armate imperiali; le proscrizioni invece di diminuire, aumentavano considerevolmente.

Dopo Wesseleny, i conti Zrini, Nadasty, Frangipani, Trassemback, Michel Teckeli e molti altri magnati, avevano preso le armi per la difesa dei loro concittadini, ma erano stati sopraffatti per il numero dei loro nemici e forzati a sottomettersi.

L’imperatore Leopoldo, al fine di realizzare i suoi ambiziosi progetti, dichiarò eredeitaria la corona d’Ungheria e stabilì un governo militare dispotico e un tribunale dell’inquisizione mandando al patibolo tutti i sospetti di essere ostili all’impero e ai gesuiti, sia protestanti che cattolici.

Risultò che gli ungheresi dell’una e dell’altra comunione, mettendo da parte le loro inimicizie, chiamarono in aiuto Abaffi o Apafi, voyvoda della Transilvania, i bascià vicini e la Francia, e si preparraono alla lotta contro l’impero. Ai primi rumori di guerra Emerikc Teckeli, figlio di uno dei conti che avevano preso parte all’ultima insurrezione, percorse tutto il paese con uno stendardo su cui erano scritte in lettere d’oro,  Pro aris et focis” (per la casa e il focolare) e reclutò un’armata di trentamila uomini.

Per ben tre anni combatté contro le armate imperiali, le sconfisse ripetutamente, penetrò in Moravia minacciando l’Austria. Leopoldo non potendo vincere l’ungherese, decise di farlo assassinare e inviò un agente che chiedendogli una udienza doveva pugnalarlo. Una indiscrezione di uno dei suoi emissari, fece scoprire il complotto e impedì l’assassinio e Emerico Teckeli decise di ricorrere alle rappresaglie contro Leopoldo I. Invase ’le province austriache e massacrò tutti gli abitanti senza distinzione di sesso e di età e alla fine,  quando giunse Mustafà, fece unire le sue truppe con quelle di Mustafà.

Mustafà durante il suo percorso si era impadronito di diverse piazzeforti e a Essek era venuto a sapere che il giovane imperatore Leopoldo I, all’approssimarsi dei turchi,’aveva abbamdonato Vienna recandosi a Linz e la città era mal fortificata; così egli decise di conquistarla e vi giunse nel mese di luglio 1683, accampandosi con centottantamila uomini nei pressi del sobborgo di Ulrich.

Al di là del Danubio si trovava il duca Carlo di Lorena che era in attesa dell’arrivo delle truppe di Baviera e di Sassonia e del re di Polonia, Ian Sobieski (1629-1696).

L’arrivo di tutte queste truppe era dovuto a un trattato firmato dall’imperatore Leopoldo I e dal re di Polonia, ai primi di quell’anno (1683).

L’imperatore Leopoldo I infatti, voleva mettere ordine alla sitazione polacca, dove regnava un re elettivo, Sobieski, e a quella ungherese, dove vi era una parte non occupata dai turchi e un’altra parte occupata da truppe tedesche.

Con il trattato, al fine di rendere ereditaria la Corona elettiva della Polonia, l’imperatore Leopoldo si impegnava a mantenere settemila uomini in aperta campagna e  ventimila in guarnigioni.

Mustafà aveva commesso un errore nel voler prendere la città per fame anziché per assalto, nel quale sarebbe riuscito prima dell’arrivo di Sobieski: l’assedio era durato quarantacinque giorni durante i quali i turchi si erano limitati a sparare cannonate  con i sei grossi cannoni di cui erano forniti, facendo saltare delle mine e lanciare sassi con gli argani, per cui Sobieski aveva avuto tutto il tempo di arrivare e congiungersi all’armata imperiale (e questo era stato l’altro grave errore compiuto da Mustafà, nonostante il bascià di Buda gli avesse suggerito di non far riunire le truppe di Sobieski con quelle imperiali ndr.).

Il quattro agosto era giunta una staffetta polacca che annunziava che l’esercito polacco si trovava a Laxembourg; poco dopo Teckeli era stato battuto a  Presburgo e l’8 settembre le truppe ausiliare dell’elettore di Sassonia, si unirono alle armate imperiali, a quelle polacche e agli altri alleati che diedero il comando al re polacco.

Il bascià di Adrianopoli aveva suggerito a Mustafà di togliere l’assedio senza mercanteggiare e recarsi con le truppe a Neuchatel dicendo che la ritirata era di necessità assoluta, ma Mustafà non aveva accettato il consiglio; un corriere lo avveva avvertito dell’ arrivo di un grosso esercito di cristiani e quando la notte vide alzarsi i fuochi sul Kahlemberg, per i turchi sarebbe stata impossibile qualunque altra decisione diversa dalla battaglia.

La prima cosa che fece il Gran visir fu di disfarsi dei trentamila prigionieri che aveva portato con sé, mettendoli a morte; quindi divise l’esercito in tre corpi: Il comando dell'ala destra era stato assegnato al bascià di Buda; quello dell’ala sinitra, al bascià di Diarbekir; Mustafà prese il comando del centro; i giannizzeri guidati dal loro agà furono messi a difendere le trincee.

Quando Mustafà vide la precisione delle manovre eseguite in campo nemico, riconobbe Sobieski ed esclamò: “Maledizione, il re di Polonia è là”, parole che si diffusero in un baleno nel campo turco, gettando lo scompiglio tra i suoi soldati.

Il duca di Lorena che comandava la loro ala destra, penetrò (12 settembre) nella sinistra dei turchi e la rovesciò. La destra turca comandata dal bascià di Buda avrebbe potuto fare altrettanto, penetrando nella sinistra nemica. ma i soldati si rifiutarono; i giannizzeri delle trincee seguiromo l'esempio; vi fu un grande scompiglio; solo il  centro con il Gran visir resistette, ma fu assalito da Sobieski; i giannizzeri e gli spahì perdettero coraggio e voltarono le spalle al nemico trascinando il Gran vusir in una rotta generale.

Sobieski aveva creduto in un primo momento a uno stratagemma dei turchi, ma si rese conto che i turchi avevano lasciato le loro tende, tutte le loro armi i cannoni e tutte le loro ricchezze; i viennesi acclamarono Sobieski.

Il Gran visir era andato a trincerarsi a Buda; chiamato il  bascià gli aveva chiesto  il motivo del suo comportamento e il bascià si era giustificato dicendo di aver saputo che “sua altezza (il sultano) aveva vietato di combattere se nell’armata cristiana vi fosse stato il re di Polonia”;  di questo ordine però  non vi era alcuna certezza,

Mustafà fece giustisìzia dei bascià di Buda, di Essek e all’Agà dei giannizzeri per la loro inettitudine e per giustificarsi col sultano dell’esito di quella campagna.

Egli scrisse al sultano riferendogli dei tradimenti dei bascià, dei quali aveva fatto giustizia; ma in quel periodo la madre del sultano, Valedé, che lo proteggeva, era morta  e tutti i suoi nemici alzarono la voce contro di lui.

In risposta, il sultano mandò due messi con un ordine che diceva:  Hai meritato la morte ed è nostra volontà che fatte le debite orazioni, consegni la tua testa ai due messi che ti abbiamo inviato; Mutafà toccò la sua fronte con lo scritto del sultano per tre volte e mise egli stesso intorno al suo collo il cordone di seta e così fu strangolato; la sua testa fu messa nel sacco di velluto viola che i due messi portarono al sultano.

Il gran visir Karà-Mustafà era al sommo della ricchezza e della potenza (scrive Compagnoni nella sua Storia dell’impero Ottomano, 18289); era stato ambizioso, crudele e iniquo e spesso aveva detto che alla sua felicità mancava la grazia del martirio morendo per il suo sultano; con la sua morte accettata stoicamente aveva dimostrato di  credere in ciò che aveva detto. 

 

 

 

 

IL FINE