Averroé -Chiesa di  s. Caterina - Pisa

 

LA SCIENZA ARABA

 ALLE ORIGINI DELLA

 CULTURA OCCIDENTALE

 

Michele E. Puglia

PARTE II

SOMMARIO:

PARTE II: LA FILOSOFIA (premessa; traduttori e traduzioni; la scuola di Harran;  i filosofi);  IL DECLINO; MISTICI E MONACI.

 

LA FILOSOFIA

 

SOMMARIO: PREMESSA;TRADUTTORI E TRADUZIONI: Severo Sebokht; Atanasio di Balad; Giacomo di Edessa; Giorgio degli Arabi; Ishobokht;  Davide bar Paulos;  Mosé bar Kepa;  al-Hajjaj; ibn Matar; Yahya ibn al-Bitriq; Hunain :Iohannitius;  Hishaq ibn Hunain; LA SCUOLA DI HARRAN: Tabit ibn Qurra; Al-Masudi; Al-Katibi; I FILOSOFI: Abu Yusuf Ya’qub ibn Ishaq al-Kindi: Alkindi-Alcindus; Abu Bishr Matta ibn Yunis; Abu Yahya al-Marwazi, Abu Zakariyya Yahya ibn Amid ibn Zakariyya; Yahya ibn Adi; Abu Hayyan al Tawhdi; Abu Nasr Muhammad ibn Muhammad ibn Tarkhan ibn Awzalagh al-Farabì: Alpharabius-Avennasar; Abu Said al-Sirafi; Abu Hayyan al-Tawidi; Abd Allah abu l’Farag ibn at-Tayyib Alì ibn Isa ar-Rummani; Abu Bekr ibn Bajja: Avenpace; Abu Bakr ibn Tufail-Abubacer; Muhammad ibn Abi Muhammad ibn Zafar; Gregorio abu al-Faradj-Barebreo; Ibn Sab’in-Qutb ad-Din Abu Muhammad ‘Abd al Haqq ibn Ibrahim ibn Muhammad ibn Nasr; Abu ‘Alì al-Husain ibn Abdallah ibn Sina-avicenna-ibn sina; - averroé -Abu ‘l  Walid Muhammad ibn Ahmad ibn Muhammad ibn Ahmad ibn Rushd al Hafid.

 

 

PREMESSA

 

L

a filosofia araba aveva avuto un primo periodo preparatorio con il trasferimento ad Harran, della famosa “Scuola di Atene”, seguita da quello delle traduzioni di testi greci subito dopo le prime conquiste islamiche, alle quali avevano atteso traduttori arabi (il termine come abbiamo visto era ampio e comprendeva cristiani, ebrei, persiani  spagnoli ed altre etnìe), e infine dal periodo dei filosofi arabi propriamente detti.

La filosofia tradotta e studiata dagli arabi era quella cosiddetta “pagana” proveniente dalla Grecia classica, pervenuta nelle due versioni del neoplatonismo ed aristotelismo  non autentico, pervaso cioè di “neoplatonismo”, in quanto fondato sull’errore  determinato da due opere ritenute scritte da Aristotele, che tali non erano.

Si trattava (non erano le uniche apocrife ma le principali), della “Teologia di Aristotele”,  costituita dalla trascrizione degli ultimi tre libri delle “Enneadi” di Plotino (205-270), databile nel periodo di Alessandro di Afrodisia (peripatetico (1) e maestro di filosofia aristotelica alla  Scuola di Atene tra il 198 e 211)  e del “Liber de causis” trascrizione degli “Elementi di Teologia” di Proclo (412-485), anche se in essi il pensiero aristotelico rimaneva predominante.

L’errore si era perpetuato nel tempo fino ad Averroé che, unico tra tutti i filosofi che lo avevano preceduto, aveva proposto il pensiero aristotelico nella sua purezza e originalità.

Anche per Platone circolavano testi apocrifi come il “Testamento di Platone per l’insegnamento dei giovani” e un libro di sentenze morali e testi di alchimia come la “Tetralogia di Platone” (Kitab al-rawabi’li-Iflutum) costituita da una compilazione di sentenze platoniche con commento

Si potevano quindi distinguere due aspetti di questa filosofia aristotelica, uno speculativo rielaborato da Plotino e Porfirio ed uno mistico rielaborato da Giamblico e Proclo.

Vedremo quindi che, dopo tutto questo lungo periodo preparatorio, si giungerà ad al-Kindi, il primo filosofo arabo che prepara il terreno ai massimi esponenti della filosofia islamica,  al-Farabi di provenienza turca, e Avicenna, di provenienza persiana.  

 

1)       I “peripatetici” erano i seguaci di Aristotele.

 

 

TRADUTTORI E TRADUZIONI

 

N

ell’ambito dell’impero bizantino, la culla della cultura era la Siria, dove si trovavano i monasteri cristiani giacobiti e nestoriani (che di buon grado si sottrassero alla dominazione imperiale a causa delle discriminazioni religiose, accettando quella araba più tollerante), fucine di traduzioni  di testi di medicina (Galeno) e di filosofia dal greco al siriaco (aramaico).

A seguito delle persecuzioni  dei nestoriani da parte di Giustiniano (521), Giovanni bar Aphtanius, abate del monastero di s. Tommaso in Seleucia dell’Oronte, con la sua comunità si rifugiò sulla riva sinistra dell’Eufrate, in un luogo chiamato Qenneshrin-Kenneschré (nido dell’aquila).

A seguito della conquista araba della Siria, il convento divenne il principale centro di cultura siro-ellenica e in esso si formarono i filosofi Severo Sebokht (666/7) e  i suoi discepoli Atanasio di Balad (686), traduttore degli “Analitici primi” e “Analitici secondi”, dei “Topici” e delle “Confutazioni sofistiche” (opere non pervenute), e Giacomo di Edessa (708).

Con Giacomo di Edessa il monastero di Qenneshrin divenne sede di intensa attività filosofica. Giacomo fu l’autore di un trattato di sillogismi ispirato agli “Analitici primi”. Severo aveva scritto diverse epistole o commenti di logica aristotelica, un trattato sull’astrolabio e l’ “Encheiridion”,  “manuale di termini filosofici pagani” (vale a dire “stranieri”) utilizzati allo stesso tempo da calcedoniani, giacobiti e nestoriani.

Atanasio, col vescovo Giacomo di Edessa e il discepolo di quest’ultimo, Giorgio degli Arabi (714), vescovo di una tribù nomade di arabi convertiti della Mesopotamia, ebbero il riconoscimento di  “grandi traduttori”.

Atanasio aveva tradotto in siriano l’ “Isagoge” (Prefazione) di Porfirio e scritto una introduzione alla logica e alla sillogistica di Aristotele.

In questa materia i siriaci avevano seguito la logica aristotelica, sulla base  dell’ “Organon” (2), di cui fu costituito un “corpus”  di logica siriaco.

Autori dei principali commenti alle “Categorie” furono Giorgio degli Arabi (724) Ishobokht (780), Davide bar Paulos (785) e Mosé bar Kepa (903); e delle traduzioni (non da originali) di “De Interpretatione” e “Analitici primi” con commenti di Giorgio degli Arabi, considerati capolavori del primo peripatetismo siriaco.

Sugli “Analitici primi” è da dire che i commenti giungono solo fino al primo libro del settimo capitolo, e si fermano ai “sillogismi categorici”. La conseguenza fu che quando gli “Analitici primi” giunsero in Occidente, i vari manuali quivi redatti nel XIII sec., non andavano oltre il primo libro del settimo capitolo, che riguardavano i “sillogismi modali, ipotetici e delle dimostrazioni per assurdo” mentre gli “Analitici secondi” erano rimasti  completamente sconosciuti agli studiosi cristiani medievali. 

A questo primo periodo di traduttori propriamente detti, arabi di adozione, segue il periodo delle traduzioni a cui avevano dato impulso i califfi al-Mansur e al Mahdi  con le traduzioni  di testi di scienze, matematica, astronomia, medicina e filosofia.

Con il califfo al-Mamun (813-33) si era imposto il movimento filosofico dei traduttori-filosofi che aveva avuto inizio con Hunain ibn Ishaq (che troveremo tra breve).

Ibn al-Nadim (903, v. par. La storia), raccontava che Aristotele in persona era apparso in sogno al califfo al-Mamun, suggerendogli di raccogliere a Bagdad i manoscritti delle sue opere e dei grandi filosofi greci (di cui vi era gran dovizia non utilizzata, nell’impero bizantino).

I bizantini infatti non avevano dato origine a una produzione filosofica autoctona (se vogliamo tenerla separata dal campo della teologia i cui studi erano spaziati come in un oceano), rivolta invece verso opere di carattere enciclopedico o storico-biografico o bibliografico, arte in cui si era distinto Fozio (v. I mille anni dell’impero biz. Cap.VI) o Michele Psello ed altri (v. Schede, Storia della storiografia bizantina).

Gli arabi si appropriarono di questo patrimonio filosofico trasmettendolo attraverso la nuova lingua araba, divenuta lingua dei dotti (come il latino lo era inOccidente) .

A Bisanzio in una prima missione furono  mandati al-Hajjaj ibn Matar e Yahya ibn al-Bitriq, che erano gli stessi studiosi che avrebbero tradotto le opere, successivamente seguiti,  nel periodo della  “Casa della Sapienza” (v. p. I, Premesse), dagli studiosi che vi lavoravano.  In questo modo, oltre ad acquisire i testi, gli studiosi acquisivano anche le idee per poter produrre opere originali.

A capo dei traduttori (3) della “Casa della Sapienza”, era stato posto Hunain ibn Ishaq (809-73), Giovanni figlio di Isacco. Figura di spicco del cristianesimo siro-arabo, il quale aveva operato su tre fronti linguistici: filosofia pagana (greca), cultura sirio-cristiana e cultura arabo-musulmana.

Come cristiano-nestoriano aveva avuto un ruolo importante nel dialogo tra cristianesimo e Islam. Aveva scritto un testo filosofico-teologico intitolato “Modalità dell’apprendimento della verità della religione” che si può considerare uno dei primi tentativi di interpretazione filosofica della pluralità delle religioni

Egli era anche medico e aveva tradotto  in siriano circa cento trattati di Galeno (romano di Pergamo, trasferito a Roma dove divenne medico di Marco Aurelio, 129-201) e della scuola galenica, e trentanove trattati in arabo. Con queste traduzioni furono salvati dalla distruzione alcuni dei più importanti testi di Galeno.

Hunain era conosciuto presso la “Scuola medica salernitana” come Iohannitius, essendo stato tradotto in latino il suo libro  “Masa’il fi t-tibb (Questioni di scienza medica), col titolo “Isagoge Iohannitii” o “Liber isagogarum”, che costituirà l’introduzione alla medicina di Galeno in Occidente. Aveva scritto anche un “Libro sulle questioni attinenti l’occhio” tradotto nella versione latina col titolo “Liber de oculis”.   

Hunain tradusse opere filosofiche come le “Categorie”, la “Physica” e i “Magna  moralia” di Aristotele,  la “Repubblica”, il “Timeo” e le “Leggi” di Platone, gli “Aforismi” di Ippocrate, la “Materia medica” di Dioscoride, il “Quadripartitum” di Tolomeo e il “Vecchio Testamento” della versione dei Settanta. Tutte opere sconosciute in Occidente.

Hunain fu gratificato per questo suo immane lavoro dal califfo al-Ma’mun, che gli diede una quantità d’oro pari al peso dei libri che aveva tradotto, mandando quasi  in rovina le casse dello Stato.

Hunain fu poi nominato dal califfo al-Mutawakkil, successore di al-Ma’mun, medico di corte, ma gli capitò la disavventura di essere tenuto per un anno in prigione per essersi rifiutato di preparare un veleno, di cui il califfo aveva bisogno per uccidere un suo nemico, che Hunain si era rifiutato di preparare.

Hunain aveva un figlio, Hishaq ibn Hunain, Isacco figlio di Giovanni, che segui il padre nell’ opera delle traduzioni, traducendo i libri della “Metafisica”,  “De Anima” e  “De generatione et corruptione” di Aristotele.

Come abbiamo detto, con Hunain inizia  la serie dei traduttori che sono anche filosofi (o filosofi-traduttori) dei quali parliamo più avanti (par.: I filosofi).

 

2) L’Organon comprendeva tutti gli scritti di Aristotele sulla “Logica” e cioè: 1) Le Categorie; 2) Sull’interpretazione; 3) Analitici primi; 4) Analitici secondi; 5) Topici (costituiti da argomenti fondati su luoghi comuni o probabili per dimostrare una tesi); 6) Elenchi sofistici. Tutti questi scritti, erano integrati dalla “Metafisica”.

La fortuna dell’Organon è stata immensa avendo superato tutti i tempi, essendo alla base anche della “Logica” moderna e contemporanea.

3) Il sistema delle traduzioni era estremamente meticoloso in quanto i traduttori usavano rivedere le traduzioni dei loro predecessori, in questo modo i filosofi si trovavano spesso a disposizione diverse traduzioni da comparare.

Essi seguivano due sistemi, il primo consisteva  nel porre attenzione  ad ogni singolo vocabolo e al suo significato, per sostituirlo col termine arabo dal significato equivalente. Poi il traduttore passava al vocabolo successivo, procedendo allo stesso modo, e così di seguito fino a quando la traduzione non fosse portata a termine.

Hunain però, questo metodo,  com’egli stesso aveva scritto, non lo riteneva valido per due ragioni: a) perché egli riteneva non esistessero nella lingua araba degli equivalenti per tutti i vocaboli della lingua greca, con la conseguenza che la traduzione finiva per riportare molti termini  greci non tradotti. b) perché la sintassi e la struttura delle frasi in una lingua non corrispondevano sempre a quelle di un’altra lingua.

Il secondo metodo, quello adottato da Hunain, consisteva nel leggere la frase e comprenderla per poi tradurla in una frase corrispondente, non importava se con termini equivalenti o meno.

Per questo motivo i libri tradotti da Hunain ibn Ishaq non avevano bisogno di correzioni, tranne per i testi di matematica, per i quali,  era stato commentato, “per questa materia non era affatto portato”!

Il sistema, creato e spiegato da Hunain, sembra un modello di perfezione, peraltro senza fine. Egli stesso racconta che all’età di vent’anni aveva tradotto “De sectyis” (Sulle ferite) di Galeno, sulla base di un manoscritto “molto inesatto”. Raggiunti i quarant’anni, un suo discepolo di nome Hubaish gli chiedeva di apportavi delle correzioni, sulla base di un certo numero di manoscritti greci che Hunain aveva reperito. Egli quindi dopo aver collazionato tutti i manoscritti al fine di stabilire un unico testo corretto, collazionava il testo greco, rivedendo la sua traduzione siriana iniziale. Dopo alcuni anni Hunain aveva proceduto anche alla traduzione del testo che egli stesso aveva tradotto in siriano, in arabo.

A distanza di circa trecento anni (nel 1199) il filosofo ebreo Maimonide (1135-1204),  aveva modo di apprezzare il metodo di Hunain ibn Ishaq, condannando il sistema delle traduzione delle singole parole. Maimonide scriveva che considerava errato conservare l’ordine del testo e delle parole e considerava questo genere di traduzioni confuse e corrotte. Egli invece riteneva che per tradurre, bisogna prima comprendere il senso e poi commentarlo e spiegarlo adeguatamente nell’altra lingua. E questo, aggiungeva, “non si può fare senza cambiare l’ordine delle parole, mettere una parola sola al posto di molte altre, o viceversa,  senza cancellare o togliere certi termini”.

 

 

LA SCUOLA DI HARRAN

 

A

d Atene, successivamente all’Accademia platonica, la tradizione della “scuola” era proseguita con  la gloriosa scuola “neoplatonica” fondata da Plutarco di Atene (IV-V sec d,C., da non confondere con Plutarco di Cheronea - 46-127 - autore delle “Vite”). Fu chiusa da Giustiniano (529) perché considerata “pagana”, e gli ultimi filosofi ateniesi si trasferirono, come già detto, ad Harran (Carrae nel nord della Mesopotamia-Persia), costituendo una comunità conosciuta sotto il nome di “Scuola di Harran”.

Al  giungere dei musulmani, gli harraniani, per essere riconosciuti tra le “genti del libro” accettate dal Corano (giudei, sabei, cristiani e magi (così indicati i zoroastriani) XXII,17) presero il nome di Sabei, ricollegandosi a Ssabi che i musulmani consideravano figlio di Ermete.

La città aveva fornito un notevole numero di filosofi-traduttori, per tradurre la scienza greca in siriano e da questa lingua in arabo. Uno dei maggiori rappresentanti della scuola era stato senza dubbio Tabit ibn Qurra (826-901) il quale aveva scritto opere di matematica e particolarmente di religione dei Sabei. Era considerato un grande esperto nel campo dei “talismani”, e il suo trattato sulle “immagini” (i talismani, appunto),  costituiva una mescolanza di aristotelismo ed ermetismo (era stato tradotto in latino nel XII sec.) .

Ibn Qurra considerava la “scienza dei talismani” la parte più elevata dell’astronomia, affermando che “coloro che non avevano l’esperienza dell’astronomia erano privati della luce della scienza e della sapienza”, e che, “secondo Aristotele, chi si dava alla lettura della filosofia  o geometria o di qualsiasi altra scienza senza avere la benché minima esperienza di astrologia, avrebbe incontrato difficoltà, poiché la scienza dei talismani è più preziosa della geometria e più profonda della filosofia”.

Gli harraniani consideravano i pianeti, ai quali i loro sacerdoti facevano sacrifici, come intermediari indispensabili. Essi erano fondamentalmente dei peripatetici che adattavano di volta in volta le loro tesi alle correnti dottrinarie man mano che esse maturassero,  fino a giungere, con questi adeguamenti, al monoteismo.  

I vari passaggi della loro concezione filosofica con l’adeguarsi ai tempi, era stata riferita dai filosofi musulmani, in diverse epoche e quindi, secondo al-Kindi (800-73), per gli harraniani “c’è una causa che non viene mai meno e  una monade che non è molteplice e che non è affetta da nessuno degli attributi propri degli esseri causati” e quindi secondo al-Kindi essi erano “monoteisti e ad un tempo sostenitori  della creazione e dell’eternità del mondo (come “coeternità dell’effetto causato e della causa”) e fautori di una teologia negativa”.

Al-Masudi (956) poneva distinzione tra gli harraniani rimasti presso la Scuola di Harran,  da lui considerati “filosofi di bassa estrazione e volgari astrolatri” che elevavano templi a Giove, Marte, Saturno, al Sole, alla Luna a Mercurio, Venere e non meritavano il nome di “filosofi”,  e quelli che se ne erano allontanati, astrologi, filosofi e medici, che non vivevano più ad Harran  ma a Bagdad, Bassora o Baalbek e si erano integrati con la comunità musulmana. Al-Masudi sosteneva che non tutti i greci erano “filosofi” e questo nome non poteva che spettare solo ai sapienti, in particolare  ai “sapienti di alto rango”

Al-Katibi (1276), riassumeva che per gli harraniani del suo tempo: “Dio è la causa dell’esistenza delle sostanze immateriali che sono formate dall’Intelligenza, diretta emanazione di Dio. Questa emanazione non è la conseguenza di una libera scelta da parte di Dio, ma promana, come il raggio proviene naturalmente dal sole. Questa Intelligenza è l’unica cosa che promana da Dio il quale, poiché è uno e semplice, non può produrre che un unico essere, non composto. Ogni altra cosa creata, promana dall’Intelligenza”.

 

 

I FILOSOFI

 

 

A

bbiamo visto come nel campo della filosofia (“falsafa”) vi era stato un primo periodo di traduzioni, seguito da un periodo preparatorio, con la scuola di Harran fino a giungere alla vera e propria filosofia musulmana.

Quest’ultimo periodo inizia con al-Kindi, che prepara il terreno ai maggiori esponenti (ma ve ne sono di intermedi, come vedremo), della filosofia islamica, quali al-Farabi e ibn Sina-Avicenna,  facenti parte dell’area orientale. Nell’area occidentale di Spagna, invece, troviamo Averroé , che unitamente ad Avicenna avrà una grande fortuna in Europa per i suoi commenti al “vero”Aristotele. Tra i due si pone al-Ghazali che troveremo nel prossimo paragrafo (Il declino).

Abu Yusuf Ya’qub ibn Ishaq al-Kindi (800-73 c.a), conosciuto in Occidente come “Alkindi” o “Alcindus”, considerato “il filosofo degli arabi”, compose ben duecentosettanta opuscoli nelle materie più disparate, sui vari rami della filosofia, scienze naturali, fisica, ottica (De aspectibus), meteorologia, astronomia, astrologia, matematica, alchimia (alla quale era ostile), ed anche sulle maree e sul colore azzurro del cielo, e infine, su questioni teologiche e polemiche religiose. Aveva infatti pubblicato un’”Apologia del cristianesimo” sorprendendo il mondo musulmano.

Come Platone, convinto che le scienze matematiche fossero essenziali per il filosofo (in quanto facilitavano la radicale conversione dell’anima dal mondo del divenire al mondo della verità e dell’essere), al-Kindi riteneva che nessuno potesse essere filosofo senza prima essere matematico, e si preoccupò di ridurre l’igiene, la medicina e la musica a relazioni matematiche. Egli aveva risentito delle influenze neoplatoniche, che aveva riformulato, successivamente sviluppate da al-Farabì e Avicenna.

Tra al-Kindi e al-Farabi, troviamo: Abu Bishr Matta ibn Yunis (940, discepolo di Abu Yahya al-Marwazi), filosofo e traduttore in arabo di Aristotele. Aveva tradotto gli “Analitici secondi” (sulla base di una versione siriana di Ishaq), e fatto una traduzione del libro “lambda” della Metafisica, assieme ad un  “Commento” su questo libro, scritto da Alessandro di Afrodisia. Aveva scritto inoltre commenti all’Organon, agli Analitici primi e secondi e al libro I dei Topici.

Abu Zakariyya Yahya ibn Amid ibn Zakariyya (893/4-974), conosciuto come Yahya ibn Adi, soprannominato “il Logico”. Cristiano giacobita aveva avuto due maestri, il nestoriano Bishr Matta, e il musulmano al-Farabi al quale  si era avvicendato nella scuola di Bagdad, quando il maestro  l’aveva lasciata per andare in Siria. Traduttore di Aristotele, i suoi commentari, tra i quali il “Commentario ai Topici”, sono andati per la maggior parte perduti.

 La sua opera innovatrice si ritrova nel “Trattato dell’affinamento dei caratteri” che costituisce una riflessione sulla morale pre-islamica (arabo-tribale), sulla morale politico-imperiale (persiana) e sull’etica filosofica (greca), mirando, tra queste, a una sorta di conciliazione.

Ibn Adi, in un’altra sua opera: “Illustrazione della differenza tra le due arti o scienze della logica filosofica e della grammatica araba”, aveva  proceduto alla  teorizzazione della polemica dibattuta tra il suo maestro Matta e al-Sirafi, la c.d. “controversia di Bagdad”(v. più avanti: al-Sirafi).  

Abu Hayyan al-Tawhdi (922/32-1023), discepolo di Yahya, aveva avuto difficoltà ad inserirsi nell’ambiente di corte, ma, assicuratosi l’appoggio dei dignitari e accettato a corte, aveva scritto il libro “al-Imtà wal-mu’amat” (Libro dell’ammaestramento confidenziale o dell’ammaestramento filosofico), fonte di grande interesse per la storia della cultura araba in generale, ma che costituisce una prova dei travagli intellettuali degli eruditi iracheni negli ultimi decenni del sec. X. e della maturazione del loro atteggiamento speculativo  già influenzato dal pensiero ellenistico neoplatonico, come ampiamente documentato nel libro “al-Muqahasat” (Conferenze filosofiche) .

Al-Tawidi aveva preso parte a dibattiti svoltisi in un cenacolo letterario, in cui fungeva da relatore ufficiale e contraddittore. Successivamente aveva scritto una raccolta “al-Muqahasàt” (Conferenze filosofiche).

Giungiamo quindi ad al-Farabi (allievo di Matta): Abu Nasr Muhammad ibn Muhammad ibn Tarkhan ibn Awzalagh al-Farabì (950 c.a), filosofo, matematico, medico, astrologo e valente musicista, noto in Occidente come “Alpharabius” o “Avennasar”, soprannominato in arabo “al-mu’allim ath-thanì”, “il secondo maestro” (il primo era Aristotele).

Compose in arabo un centinaio di lavori tra libri e opuscoli di filosofia, matematica, astronomia, alchimia teorica e musica e libri di successo, sulla teoria matematica della musica e degli strumenti musicali, avendo applicato per primo le dottrine greche all’arte orientale. La sua Enciclopedia della Scienza (Ihsa al-ulum) costituisce un sommario del sapere del tempo nel campo della filologia, logica, matematica, fisica, chimica, economia e politica.

Le sue numerose opere filosofiche erano costituite da commenti, annotazioni e riassunti   su testi di Aristotele e Alessandro di Afrodisia, oppure opere originali    

Alcune delle sue opere (De intellectu et intellectis; De Platonis philosophia; Compendium legum Platonis) furono tradotte in Occidente ed egli fu spesso citato come “autorità” dagli scrittori medievali latini ed ebraici.

Al-Farabi, come i suoi predecessori, sulla base dei due testi apocrifi attribuiti ad  Aristotele, avendo un animo profondamente mistico e religioso, aveva cercato di mettere d’accordo le dottrine aristoteliche e neoplatoniche con i principi dogmatici dell’islamismo.

La sua filosofia aveva i caratteri generali di quella araba, una sintesi tra il pensiero aristotelico e neoplatonico con elementi di platonismo, influenzata dai filosofi arabi precedenti, particolarmente di al-Kindi.

E’ con il libro “Al-Medina al-Fadila” (La città ideale), che al-Farabi aveva anticipato di diversi secoli  i filosofi occidentali. Egli infatti parla della “legge naturale” descrivendola come una lotta continua di ciascun organismo contro tutti gli altri, in quanto ogni essere vivente considera ogni altro, come mezzo per il raggiungimento dei propri fini: è la giungla della guerra di tutti contro tutti “bellum omnium contra omnes” (Thomas Hobbes 1588-1679).

Questo problema era anche dibattuto tra i filosofi musulmani, tra i quali vi erano sostenitori del “patto” (che J.J. Rousseau - 1671-1741 - definirà “patto sociale”), al quale si era giunti quando gli uomini si erano accorti che per la loro sopravvivenza dovevano porre un freno alla sfrenata libertà individuale, con l’accettazione di costumi o leggi che la limitassero. Ma vi era un’altra corrente (che anticiperà Friedrich Nietzsche: 1844-1900), secondo la quale è naturale che uno Stato combatta con un altro Stato per la sua preminenza e la guerra è quindi inevitabile per affermare con la forza il diritto che è legge di natura.

Al-Farabi, come abbiamo detto, di spirito ascetico, conclude con una esortazione agli uomini perché costruiscano una società basata sulla ragione, devozione e amore anziché  sull’invidia, la forza, la lotta, auspicando una monarchia che poggi su una forte credenza religiosa.

Seguono al-Farabi, prima di giungere ad Avicenna, Abu Said al-Sirafi (979c.a), grammatico, noto per la polemica tra ellenismo e Islam intercorsa con al-Matta (la  CONTROVERSIA DI BAGDAD), avvenuta sotto la presidenza del visir di al-Radi, Ibn al-Furat ibn Hinzaba (937/38).

Questa polemica era stata simile a quella intercorsa circa  un secolo dopo tra Abelardo e Bernardo di Clairveaux (v. art. Abelardo ed Eloisa) e riproponeva il dibattito, vecchio di secoli, tra Socrate-Platone e i sofisti.

Essa fu poi riportata da Abu Hayyan al-Tawidi (922/32-1023) (supra) in al-Muqahasàt (Conferenze filosofiche) che a sua volta si rifaceva un resoconto di Alì ibn Isa ar-Rummani, che aveva preso posizioni favorevoli ad al-Sirafi (4).

A Bagdad troviamo (con l’epiteto di al-Bagdadi), Abd Allah abu l’Farag ibn at-Tayyib (1043) medico e cultore di filosofia, contemporaneo di Avicenna (v.sotto) che lo lodava come medico, non come filosofo. Commentò in arabo  molti scritti di Aristotele (L’Organon,la Retorica, la Poetica, la Storia degliu animali), d’Ippocrate e di Galeno. Era indicato da Averroè come Abelfagar o altri simili.

Abu Bekr ibn Bajja (n. 1106). arabo di Saragozza, conosciuto in Occidente col nome di “Avenpace”, medico, naturalista e filosofo, scrisse diversi trattati (molti non terminati) sull’anima, sulla vita solitaria, sulla logica e sulle scienze naturali, oltre a commenti su Aristotele. Aveva seguito studi scientifici e filosofici e si era occupato anche di musica e poesia. Scrisse un trattato di musica (perduto), che, sull’argomento era un capolavoro. La sua opera più celebre però, era stata  “Una guida per il solitario” in cui riprendeva il tema della filosofia araba sull’intelletto umano.

Fu seguito da Abu Bakr ibn Tufail, detto “Abubacer”, (1185 c.a),  filosofo e  medico alla corte di Abu Ya’qub Yusuf, in Marocco. Scrisse di medicina, in prosa e in versi. Fu conosciuto nel mondo orientale ed occidentale per il suo “Risalat Hayy ibn Yaqzan” (Trattatello su Vivo, figlio di Vigilante), definito da Karl Marx “una robinsonata”. A sua volta ibn Tufail aveva preso l’idea del libro da un opuscolo mistico di Avicenna, Hayy ibn Yaqzan .

Si trattava di un racconto filosofico su un bambino, Hayy, abbandonato dai suoi su un’isola deserta dell’India. Hayy, come Robinson Crusoé (da questo racconto Defoe aveva preso l’idea), vivendo tra la natura, gli animali e le stelle, con la loro osservazione e il loro studio, giunse al più alto grado di conoscenza che un naturalista avesse mai potuto raggiungere, svolgendo l’idea del modo in cui l’umanità si sia andata incivilendo e l’intelligenza abbia potuto svilupparsi.

Non solo. Ma l’idea del libro era stata fondamentalmente quella di mostrare la verità e necessità della religione rivelata, il suo accordo perfetto con la ragione umana e l’incapacità di quest’ultima ad approfondire certe verità sublimi comprensibili nell’estasi mistica.

Il libro ebbe un enorme successo in Europa nel “1600” (chi volesse approfondire l’argomento, trova nell’Enciclopedia Treccani, alla voce “Ibn Tufail”, un’ampia trattazione, con minuta spiegazione di tutti i passaggi del libro ndr).

In Sicilia all’epoca di re Guglielmo I, troviamo  Muhammad ibn Abi Muhammad ibn Zafar (1170 c.a), che scrisse opere teologiche e filosofico-giuridiche. E’ conosciuto per l’opera “Sulwan al-muta”, dedicata al “qaid” di  Sicilia, Abu’l Qasim.

Costituisce una specie di “vademecum” del monarca”, una guida etico-religiosa in cui il “principe” avrebbe potuto trovare (secondo le intenzioni dell’autore) gli ammaestramenti necessari e l’indispensabile conforto per l’espletamento della missione affidatagli. Queste indicazioni precettistiche sono intercalate da notizie storiche e leggendarie, da massime  esemplificative, esortative, ecc.  

Gregorio abu al-Faradj (1226-86), detto Barebreo “figlio dell’ebreo” Aaron, era monofisita e divenne primate dell’Oriente. La sua opera domina tutti i campi della storia con il “Cronichon syriacum” e il “Cronichon ecclesiasticum”, della teologia e della filosofia.

Infine troviamo Ibn Sab’in, (Qutb ad-Din Abu Muhammad ‘Abd al Haqq ibn Ibrahim ibn Muhammad ibn Nasr - 1216/7-1270/1), musulmano di Spagna, filosofo e mistico, probabilmente morto suicida alla Mecca. Fu considerato eretico per il genere di filosofia-mistica da lui seguita. Era conosciuto in Occidente per le risposte filosofiche date alle proposte avanzate dall’imperatore Federico II ai sapienti musulmani.

In questo “excursus” non abbiamo seguito la classica divisione delle due correnti di filosofi islamici d’oriente e d’occidente, tra le quali però, come abbiamo detto nel paragrafo dei “traduttori” vi era stata interconnessione (più accentuata nella linea Oriente-Occidente), abbiamo però inteso seguire un percorso cronologico.

La filosofia islamica delle due correnti,  come detto, sfocia alla fine nei due grandi filosofi che fecero epoca, quella d’Oriente, in Avicenna, quella d’Occidente di Spagna, in Averroè. Ambedue furono alla base degli studi nelle università europee.

 

avicenna-ibn sina (Abu ‘Alì al-Husain ibn Abdallah ibn Sina: 980-1037) è il grande filosofo che chiude il periodo d’oro della filosofia islamica d’Oriente.

La sua precocità negli studi, la sua intelligenza e la formidabile memoria lo avevano portato all’età di dieci anni a conoscere perfettamente il Corano e ad avere notevoli cognizioni di letteratura, teologia, algebra e aritmetica indiana (appresa da un fruttivendolo che teneva la sua contabilità con quel sistema).

Aveva avuto come istruttore il filosofo Abu Abdallah an-Natili che gli aveva messo nelle mani l’ “Isagoge” di Porfirio, Euclide e l’ “Almagesto” di Tolomeo. A quattordici anni ibn Sina aveva spiegato al suo maestro la “logica”, e an-Natili a quel punto ritenne fosse giunto il momento di aver adempiuto al suo compito di maestro e di andarsene.

Avicenna era portato a studiare da solo e da solo studiò le scienze naturali e la medicina in cui era tanto versato da dirigere (a sedici anni) il lavoro di celebri medici.

Come tutti i medici e scienziati che lo avevano preceduto, riteneva che la meta finale della perfezione dell’intelletto si ottenesse con la filosofia

A diciassette anni aveva guarito il sultano di Bukara, Nuh ibn Mansur, e per questo era stato assunto a corte dove ebbe a disposizione l’intera biblioteca del sultano.

A questa età ebbe il primo approccio con la “Metafisica” di Aristotele che però gli risultò ostico: aveva letto questo testo, senza capire nulla. Il disegno del testo gli si presentava “oscuro”. Lo aveva letto per quaranta volte, riferiva, fino ad imparalo a memoria “tuttavia non riuscivo ad afferrare il contenuto e il disegno del suo autore”.

Con disperazione si era convinto che non v’era mezzo per comprenderlo, fino a quando non gli era capitato tra le mani, acquistato a poco prezzo al mercato dei libri, il “Disegno della Metafisica” di al-Farabi che gli aveva aperto la strada dell’aristotelismo.

Ne era stato tanto felice da precipitarsi in strada ad elargire elemosine. Furono questi due testi a segnare tutta la sua vita. A diciotto anni  aveva completato la sua cultura, con la conoscenza di tutte le scienze.

La sua produzione fu immensa e non lo fermarono la vita avventurosa (descritta nell’ Autobiografia), la passione per le donne e il vino, che non gl’impedirono di scrivere in qualunque situazione si trovasse, a cavallo come in prigione.

Furono gli abusi sessuali, gli strapazzi e una colica con complicazioni epilettiche, curata con una massiccia dose di medicinali a condurlo alla morte a cinquantasette anni (che per quei tempi e per quello che aveva realizzato non era neanche poco).

Scrisse un centinaio di opere in persiano e arabo, che abbracciarono le scienze come la filosofia. Tradusse Euclide, fece osservazioni astronomiche ed escogitò uno strumento per valutare le frazioni delle divisioni di una scala graduata. Compì studi sul moto, la forza, il vuoto, la luce, il calore e la gravità specifica, la formazione delle montagne e dell’azione dell’acqua e del vento. Il suo trattato sui minerali fu una delle principali fonti di geologia in Europa, fino al XIII secolo

Le sue maggiori opere furono il “Qanum fi-l-Tibb” (“Canone di medicina”, di cui si è parlato nel par. La medicina) e il “Kitab al-Shifa”  (il Libro della guarigione (dell’anima) un’enciclopedia di diciotto volumi di matematica, fisica, metafisica e musica, del quale il  “Najat” ne costituiva un riassunto.

Grande opera filosofica era il “Kitab al-Imsaf” (Libro del giudizio imparziale) in cui Avicenna studiava ventottomila problemi filosofici, andata distrutta nell’incendio di Isfahan, della quale è pervenuto il frammento della “Filosofia orientale”.

Tra le sue opere minori  è da ricordare  “Hayy ibn Yaqzan” (Racconto di Hayy, ripreso da ibn-Tufail, v. sopra) con pagine sublimi sull’anima umana che raggiunge la più alta conoscenza a cui possa giungere la conoscenza di Dio, rappresentato come il Re creatore.

L’influenza che le sue opere ebbero in Occidente, nelle scienze come in filosofia e teologia  fu immensa.

L’influsso di Avicenna si ritrova nelle opere del danese Henrik Harpaestraeng (1180-1244), celebre medico; di Domenico Gundisalvi (XII sec), che del “Sifa” tradusse la “Metafisica”, il “Libro dell’anima”e “Del cielo”; di Michele Scoto (fine XII sec.) che tradusse “Gli animali” quando Aristotele era conosciuto solo in alcune parti dell’Organon nella traduzione di Arnaldo di Villanova  (1240-1313) (medico, alchimista e filosofo catalano, autore del “Commentario ad regime salernitano”, traduttore del trattato sulle “Malattie di cuore” (1282)).

In medicina Avicenna  ebbe tutta la sua autorevole influenza, e fu citato da medici come  Guglielmo da Saliceto (1210 c.a-1277), che aveva insegnato a Bologna, Verona, Pavia, autore del trattato latino “Cyrurgia”; dal suo discepolo Lanfranco (m. 1306) fondatore della scuola di chirurgia di Parigi e dal chirurgo francese Guy de Chauliac (2300-1368), autore del celebre trattato di chirurgia “Inventorium sive collectorium partis chirurgicalis medicinae”.

Soltanto nel Rinascimento si ebbe una forte opposizione nei suoi confronti, contro la sua anatomia da parte di Leonardo, mentre Paracelso bruciò il “Canone”. Non c’è da meravigliarsi perché nel Rinascimento era iniziata la dissezione dei cadaveri (eseguita da Leonardo) mentre Avicenna aveva dato il suo grande contributo nella “medicina teorica”da lui resa “scienza razionale”.  

In medicina, nessuno di coloro che esercitava l’arte medica in Occidente poteva ignorarlo. Circolavano le sue opere minori come il trattato del “Polso” e quello sulle “Malattie di cuore”, ma anche parti del “Qanum” come il trattato sulle “Febbri” e, sulle “Malattie degli occhi”. E chi non aveva possibilità di avere i suoi testi, ricorreva alla “Urgùzah fi-t-tibb” la c.d. “Cantica di Avicenna”, poema in cui era riassunta in rima la sua scienza medica, tradotta in latino.

Nelle scienze naturali le parti scientifiche del “Sifa” che trattavano di chimica, astronomia, zoologia e mineralogia, furono fatte tradurre da Federico II e furono utilizzate da enciclopedisti medievali come Alberto Magno.

In filosofia, il pensiero filosofico di Avicenna ebbe grande successo in Europa in quanto considerato come un semplice commentatore di Aristotele. Avicenna invece esponeva sì le idee di Aristotele ma le aveva fatte sue, personalizzandole.

La sua speculazione filosofica, che si ricollegava ad al-Kindi e al-Farabi, fu in parte accettata ed in parte aspramente combattuta dai pensatori che lo seguirono. Egli aveva cercato di conciliare la concezione neoplatonica di Dio come Uno, con quella aristotelica di Dio come Atto puro e fu posto nella linea neoplatonica e agostiniana, in base all’idea che completasse Aristotele che aveva curato poco la trattazione dell’origine del mondo e di Dio.

Avicenna parlava degli “angeli”, dell’immortalità dell’anima, dell’illuminazione dell’intelligenza dall’alto, cercando un accordo tra la ragione e la fede su cui invano si era cimentata la Scolastica.

Tutta la filosofia occidentale e la stessa teologia furono pervase dal pensiero di Avicenna, da Alberto Magno a s. Agostino a s. Tommaso con l’intero “tomismo”. Ruggero Bacone (1214-1294) lo considerò “la più grande autorità filosofica dopo Aristotele”. Senza Avicenna, considerato da al-Ghazali “miscredente”, in Europa non vi sarebbe stata la “Scolastica”. La Metafisica di Avicenna costituiva infatti la “summa” che i pensatori latini avessero raccolto nella “Scolastica”, che nei suoi termini e nelle sue idee è da ritenere assolutamente inscindibile dalla filosofia di Avicenna.

Ma anche nel Rinascimento in cui, come abbiamo visto, Avicenna veniva combattuto sul piano dell’anatomia, troviamo una corrente spiritualista che faceva  capo proprio a lui e che trova un rinnovato interesse da parte di Andrea Alpago (1450-1522), medico, orientalista e suo traduttore.

Alpago, oltre al “Canone” aveva tradotto opuscoli filosofici quali il “Compendium de anima”, “De mahad” (Sulla resurrezione dei corpi),”Aphorismi de anima”, “De diffinitionibus et quaesitis”, “De divisione scientiarum”, testi di carattere religioso-esoterico, che erano stati ignorati nel medioevo ed apportavano nuove conoscenze sul pensiero di Avicenna.

 

averroé, Abu ‘l  Walid Muhammad ibn Ahmad ibn Muhammad ibn Ahmad ibn Rushd al Hafid,  è stato il maggior filosofo che ha chiuso la corrente dell’Islam Occidentale.   

La sua fama di medico fu oscurata da quella di filosofo, ma era anche esperto in diritto ed era stato giudice a Siviglia e giudice supremo a Cordova. Accusato di eresia, fu confinato a Lucena dove gli giunse il  perdono (1198) in tempo per morire. Fu sepolto a Marrakesh.

La sua enciclopedia medica “Kitab al-Kulliat fi-l-tibb” tradotta in latino entrò in tutte le università cristiane d’Europa. L’emiro Abu Yaqub, aveva dato incarico a ibn-Tufail (v. sopra) di scrivere una chiara ersposizione del pensiero di Aristotele e ibn-Tufail diede incarico ad Averroè, che era giunto alla conclusione che tutta la filosofia di Aristotele contenuta nei suoi testi…”bastava interpretarla solo per renderla moderna ed attuale per qualsiasi epoca”.

Decise quindi di preparare  per ciascuna delle sue opere principali un sommario con una breve esposizione e quindi un breve commento accompagnato da un commento particolareggiato per lettori avanzati negli studi. Questo metodo espositivo, della esposizione progressiva sempre più complessa, era il metodo seguito nelle università musulmane.

Averroè non conoscendo il greco dovette ricorrere a traduzioni arabe e siriache, ma con la sua pazienza, chiarezza e acutezza d’analisi, fu riconosciuto in Europa, come “il commentatore” “tout-court”, e nel mondo musulmano fu riconosciuto secondo solo ad Avicenna.

Scrisse opere di logica, fisica, psicologia, metafisica, legge, astronomia e grammatica e una replica alla “Distruzione” di al-Ghazali che intitolò “Distruzione della distruzione”  in cui sosteneva che se un’infarinatura di filosofia poteva condurre all’ateismo, un profondo studio porta invece a una migliore comprensione tra ragione e filosofia che egli riteneva costituisse “una ricerca sul significato dell’esistenza volta a migliorare l’uomo”.

A proposito del mondo (universo) egli lo riteneva “eterno”: i movimenti  celesti non avevano mai avuto inizio e non avranno mai fine, “la creazione è un mito”.

Solo la visione della verità per mezzo della ragione può condurre la mente alla unione con Dio (che i Sufi ritengono di raggiungere con la disciplina ascetica e le danze frenetiche).

Per la filosofia di Averroé, non vi è posto per il misticismo: il “Paradiso” era per lui “la calma alla benevola saggezza del sapiente”. Ruggero Bacone (1214-94), aveva messo Avicenna al secondo posto dopo Aristotele, seguito da Averroè, scrivendo che “la filosofia di Averroè, oggi (1270) ha l’unanime consenso dei sapienti”.

La "filosofia araba”, giunta alla fine del suo sviluppo, si rifaceva come al1'inizio a un Aristotele neoplatonizzato. Ma mentre  in molti filosofi musulmani e cristiani le dottrine di Aristotele  venivano deformate  per essere adattate alle proprie credenze teologiche,  in Averroè sono invece i dogmi islamici ad essere ridotti al minimo per riconciliarli con il pensiero aristotelico.

Questa fu la ragione per la quale Averroé ebbe più influenza nel mondo cristiano che in quello islamico. I suoi correligionari lo perseguitarono e i posteri  musulmani lo dimenticarono e lasciarono che la maggioranza dei suoi lavori andasse perduta nell'originale stesura in arabo.

 

4) Detta in sintesi, con tutti i limiti di una sintesi,  la controversia aveva visto contrapposti Matta ibn Yunis e Sirafi. Il primo cristiano sostenitore della “logica”, il secondo musulmano e “grammatico”. La polemica contrapponeva la logica alla grammatica, scivolata sul terreno della religione, in quanto i musulmani, con molta approssimazione qualificavano la “logica” nella categoria delle “scienze estranee”, e la “grammatica” in quella delle “scienze tradizionali” subordinate in certo qual modo al Corano (scritto in arabo con la conseguenza che ritenevano rientrasse nella materia coranica). Da ciò discendeva che la “logica” che non era quella araba,  nulla aveva a che vedere con il Corano. E’ evidente che la diatriba finiva per riguardare il rapporto tra filosofia e religione.

 

IL DECLINO

Abu Hamid al-Ghazali

 

 

C

om’era potuto succedere che una civiltà che aveva avuto i suoi Leonardo, l’Umanesimo e il Rinascimento, i Bacone (Ruggero e Francesco), i Cartesio, andando oltre con i Voltaire. i Diderot e l’Illuminismo, i precursori di Rousseau,e Nietzsche,  con  menti eclettiche  che primeggiavano contemporaneamente nelle scienze, nella medicina, nella matematica, nell’astronomia, nella filosofia e nella poesia, quando l’Europa era ancora avvolta nel buio della barbarie, dopo aver raggiunto questo alto grado di civiltà, era poi caduta nell’intolleranza, anticipando  nei metodi, ciò che avrebbero fatto i cristiani  in Europa alcuni secoli dopo facendo ricorso all’Inquisizione, se pur senza cadere in quegli eccessi?

Successivamente alla esplosione che aveva dato una spinta iniziale verso una prima forma di democrazia, di una scienza e di una tecnica e aveva posto le basi di un paleo-modernismo, era venuta a cessare la dialettica che aveva impedito il progredire di quel luminoso avvio portando la civiltà islamica sulla via di quel declino da cui, dopo secoli, stenta ancora a riprendersi

Nella diagnosi, purtroppo, non si può sbagliare: la causa fu determinata dal cambiamento di rotta della filosofia che da “speculativa” era diventata “mistica” e questa aveva portato l’ “ortodossia” a prevaricare e prevalere sullo spirito di tolleranza.

Divisa in due correnti: la prima, tollerante, aveva dominato nel periodo in cui la civiltà dell’Islam aveva raggiunto il suo più alto grado lasciando che accanto alla credente, lo scetticismo e l’ateismo seguissero indisturbati il loro corso.

La seconda, ortodossa, con “la fede” posta a fondamento della sua dottrina da al-Ghazali, finì per prendere il sopravvento sulla prima e gli effetti che ne derivarono furono ben diversi dai principi enunciati.

L’ortodossia cancellò la tolleranza ed ebbero inizio le discriminazioni nei confronti dei cristiani. Questa volta furono i non-musulmani (cristiani ed ebrei), obbligati a portare  le strisce gialle sul vestito (anticipando anche in questo i cristiani (5)), a non poter andare a cavallo, ma cavalcare solo muli ed asini (secondo il Corano, il raglio dell’asino era sgradito ad Allah); a non poter costruire nuove chiese o sinagoghe; a non poter esporre la croce all’esterno delle chiese e suonare le campane; a vietare ai bambini cristiani a frequentare scuole musulmane (ma era loro consentito frequentare proprie scuole).

Nella pratica, però, i musulmani nell’Islam si mostrarono più tolleranti di come si mostreranno i cristiani in Occidente. A Bagdad nel X secolo vivevano 45mila cristiani e i loro funerali non venivano disturbati. Cristiani ed ebrei coprivano alti impieghi negli uffici pubblici, anche se vi era chi protestava, essi venivano mantenuti al loro posto.

Della generosità del “feroce Saladino”nei confronti dei sudditi cristiani, si parlerà in apposito articolo.

Nel 1150 il califfo di Bagdad, Mustanijd diede ordine che fossero dati alle fiamme tutti i libri filosofici di Avicenna e dei Fatelli della  sincerità (v. par. seguente).

Nel 1194 l’emiro Abu Yusuf Yaqub al-Mansur, a Siviglia, ordinò che fossero bruciati tutti i libri di Averroé, ad  eccezione di alcuni di scienze naturali. Proibì ai sudditi riprendere gli studi di filosofia e li esortò a gettare nel fuoco qualsiasi libro di filosofia.

Queste distruzioni vennero eseguite dal popolo  indignato per gli attacchi della filosofia alla fede, che per i diseredati è sempre stata l’unica consolazione alle disgrazie e alle avversità della vita.

In questo periodo ibn Habid fu messo a morte perché studiava filosofia.

Dal 1200, poiché l’Islam rifuggiva dal pensiero speculativo ed era iniziato il declino della potenza politica, si cercava l’aiuto dei teologi e ci si attaccava all’ortodossia come all’ancora di salvezza. L’aiuto “spirituale” fu dato, ma non riuscì a frenare il declino e il decadimento di quella che era stata una vera e propria civiltà d’oro.

In Spagna i cristiani avanzando una città dopo l’altra, si fermarono alle porte di Granata che rimase in mani musulmane ancora per qualche secolo (1492). In Oriente ebbero inizio le crociate e Gerusalemme finì in mani cristiane nel 1258; i Mongoli, con la loro avanzata, presero e distrussero Bagdad. Con la loro disfatta (Qutuz e Baibar 1260 e Damasco 1303), musulmani e cristiani tirarono un sospiro di sollievo, ma il processo di disgregazione dell’Islam raggiunse il suo traguardo con l’assorbimento da parte dell’impero ottomano.

AL-GHAZALI: Abu Hamid al-Ghazali (1058-1111,) il sant’Agostino dei musulmani, il Kant dell’Islam. Fondatore del sufismo, dall’ortodossia era giunto al misticismo  attraverso l’ascesi. Il suo insegnamento mirava al giusto mezzo e all’equilibrio: “è l’ascesi che conduce alla mistica” (mukashafah); il cuore purificato riflette le realtà celesti e il mistico acquista la “gnosi” (ma’rifah), la conoscenza che conferisce grande felicità ed è seguita dall’amore. E’ la “gnosi” che costituisce per Ghazali il centro del misticismo che si può definire misticismo moderato.

Aveva studiato legge, filosofia e teologia. A trenatre anni insegnava nel collegio Nizamiya  a Bagdad dove aveva riscosso un grande successo per la sua eloquenza, erudizione e abilità dialettica.

Ghazali si era trovato nella strana posizione di essere stato considerato  filosofo-suo malgrado , per errore, per essere stato semplicemente frainteso.

Egli era un teologo che aveva inseguito l’assurda idea di demolire la filosofia e distruggere i filosofi. Non era riuscito né nell’intento di  demolire la filosofia né in quello di distruggere i filosofi. Le conseguenze derivate da quest’idea furono peggiori (suo malgrado!), perché la sue dottrine, se pur moderate, erano state male intese (ed esasperate), con la conseguenza che avevano portato alla  distruzione della tolleranza e della libertà, di cui fino a quel momento aveva goduto l’intero Islam.

Dopo aver scritto “Maqasid al-falasifah” (I propositi dei filosofi), nel libro “Tahafut al-falasifah” (La distruzione dei filosofi) cercò di abbattere completamente la filosofia, sostenendo che essa, con la logica e la scienza, non potevano provare l’esistenza di Dio o l’immortalità dell’anima, “perché soltanto l’intuizione può dare quella fede, senza la quale nessun ordine morale e quindi nessuna civiltà può sopravvivere”.

Nel “Tahafut” Ghazali aveva attaccato in particolare Avicenna in nome del “kalam”, la logica-lo sforzo inteso a conciliare la ragione con la fede.

Ghazali aveva diviso i pensatori in tre categorie:  teisti, deisti o naturalisti e materialisti.

 I teisti  accettavano Dio e l’immortalità ma negavano la creazione e la resurrezione dei corpi e consideravano il paradiso e l’inferno come condizioni spirituali e psicologiche. I deisti riconoscevano una divinità ma rifiutavano l’immortalità e consideravano il mondo come una macchina dotata di autonomia. I materialisti ripudiavano completamente l’idea di Dio. Tutte e tre le categorie  erano da considerarsi infedeli.

Dopo il misticismo, Ghazalì ritorna all’ortodossia e, sentendo sul proprio capo la presenza degli occhi di Dio, minacciando gli orrori dell’inferno musulmano, volle che si predicasse su questo  argomento che riteneva necessario a preservare la moralità del popolo. Ritornò quindi al Corano e agli Hadith e nel libro “Ihya Ulum al-Din” (Il risveglio della scienza della religione) espose e difese la sua rinnovata ortodossia con il meglio della sua eloquenza e dialettica. Diede così un aiuto consistente non solo all’ortodossia islamica ma a quella delle altre religioni, cristianesimo in primo luogo, i cui teologi ne trassero grande vantaggio a sostegno delle proprie posizioni.

Dopo Ghazalì e malgrado Averroé, la filosofia nel mondo musulmano fu completamente annientata, gli studi scientifici furono abbandonati, tutti i pensatori si rifugiarono nello studio del Corano e degli Hadith. Da quel momento, nell’Islam, sola a predominare fu la religione

 

5) Il papa Innocenzo III (1198-1216)  aveva condannato gi ebrei  “alla servitù perpetua”, e aveva decretato (1215) l’obbligo di portare un segno distintivo costituito da un dischetto giallo (che poi fu esteso ai musulmani, agli eretici e alle prostitute). Al dischetto si aggiunse il cappello a punta simile ad un corno, che rappresentava il corno del demonio.

Paolo IV (1555-59, istituì l’obbligo per gli ebrei di risiedere in un quartiere separato cinto da mura con chiusura del portone dall’esterno dal tramonto all’alba. Aveva  inizio la segregazione del “ghetto” (v. Articolo: L’Europa verso la fine del medioevo,  il p. III: Papi e movimenti religiosi).

 

 

SETTE, MISTICI E MONACI

 

SOMMARIO: I Mutaziliti-Separati; Abu’l Hasan al-Ash’ari; al-Suhrawardi; Sadr ud-din Shrazi: Mullā Sadra; Abul-Barakat al-Baghdadi; Fakhr al-Din al-Razi; Abdal Latif; Nasir al-Din al-Tusi; Farid ad-Din ‘Attar.

 

 

I

ntorno al 757 all’interno degli studi filosofici, si era sviluppata la scuola dei “mutaziliti” (separati: in moschea erano andati ad occupare un angolo), che negava l’eternità del Corano. Sulla base delle altre due religioni monoteiste con i loro testi sacri, Torah per gli ebrei e Bibbia per i cristiani, anche l’Islam ortodosso era convinto che il Corano fosse un libro eterno da sempre esistito nella mente di Allah, rivelato  tramite Maometto.

I Mutaziliti  pur rispettando quel testo sacro,  sostenevano che nei punti in cui il Libro o gli Hadith  contraddicevano la ragione, essi dovevano essere interpretati allegoricamente. Allo sforzo compiuto per conciliare la fede e la ragione avevano dato il nome di “kalam”

Dalla scuola dei “mutaziliti” si era staccato il teologo al-Ash’ari (873-936) che aveva lasciato il suo maestro al-Jubba’i (912) e ne aveva fondato una propria, “asharita”, destinata a diventare la scuola “ortodossa” per eccellenza dell’Islam.

Gli ashariti accettavano il metodo dialettico “mutazilita”, senza ritenere necessariamente la “ragione” (aql) come il fulcro principale dell’universo, alla quale la stessa volontà divina sarebbe stata costretta a sottostare. Gli ashariti occupavano quindi una posizione intermedia tra “mutaziliti” e “hanbaliti” (6).

Al Ash’ari aveva confutato i “mutaziliti” nel “Kitab al-luma’ ” (Libro dello splendore),  sostenendo che il Corano è la parola eterna e increata  di Dio ed anche la possibilità di una visione di Dio nell’altro mondo, respinta dai “mutaziliti”.

Seguirono i Fatelli della sincerità: “Ikhwan as safa” (la cui traduzione è più propriamente “Amici sinceri” e chiamati impropriamente  anche “fratelli puri” o della purezza”), erano riuniti in associazione segreta a carattere filosofico-religiosa, collegata al movimento dei Carmati (Qarmati), che avevano preso il nome da Hamadan ibn- Ash’at, detto Qarmat, il cui centro era situato ad al-Basrah (Bassora), con le loro diramazioni in  Batiniti (Batiniyyah) e Ismailiti o Assassini.

Il loro libro (983-373 Egira) era costituito  da una raccolta di scritti che andava sotto il nome di Rasaa’il Ikhwan as-Safa (Trattatelli degli amici sinceri) una specie di enciclopedia filosofico-religiosa, costituita da una miscellanea di nozioni di neoplatonismo, astrologia, islamismo, gnosticismo, interpretazioni allegoriche e audaci del Corano. Fondamentale è l’idea in essa contenuta  della derivazione delle anime individuali dall’anima universale e il loro ritorno a questa, che si confonderà con Dio nel giorno del giudizio universale.

Essi costituirono in vari luoghi dei piccoli stati come quello dei Carmati ad al-Ash’at (Bahrain), così potente (890) da invadere la Mesopotamia meridionale nel secolo successivo; il principato dei Batiniti, presso il Mar Caspio (1090-1256), così detti dal significato interno (batin) dato al Corano, in quanto ritenevano che il libro sacro contenesse un significato interno allegorico che poteva essere conosciuto con l’interpretazione (ta’wil); lo Stato degli Ismailiti in Siria (1116-1273), così detti in quanto ritenevano chiusa con Ismail ibn-Gia’far (762-63) la serie dei sette “imam” (profeti-depositari della rivelazione) dopo Maometto; l’impero dei fatimidi  (909-1171) in tutta l’Africa settentrionale compreso l’Egitto; nello Yemen;  infine, una loro diramazione era costituita anche dalla setta dei Drusi.

Come abbiamo visto, dopo al-Ghazali gli studi si indirizzarono solo verso la religione e si ebbe uno sviluppo di mistici o “filosofi dell’illuminazione” (ishaq), che si rivoltarono tutti contro Avicenna per attaccare la sua dottrina.

Tra costoro troviamo al-Suhrawardi, “il martire” (1191), che partendo dalla filosofia contemplativa di al-Farabi (v. sopra), ne aveva sviluppato l’aspetto mistico che, superando il medioevo, proseguirà fino al XVII secolo, e sfocerà in Iran nella mistica speculativa.

Questa era rappresentata da Sadr ud-din Shrazi, conosciuto come Mullā Sadra (1649), uno dei protagonisti del risveglio del pensiero “sciita” (sebbene l’ortodossia sciita lo consideri ai margini dell’eresia). Le sue maggiori opere furono “Asfar al-araba’a (I quattro libri) e “Shawadid ar-rubwiyya (Le prove della divinità).

Anche Abul-Barakat al-Baghdadi (dopo il 1164), critica la dottrina di Avicenna nel “Libro meditato”e Fakhr al-Din al-Razi (1149/50-1209).che prosegue con gli attacchi all’ebreo convertito al-Barakat, e ad Abdal Latif.

Al-Sharhastani (1086-1153), nel libro “La lotta contro i filosofi”, aveva attaccato Avicenna che aveva trovato in Nasir al-Din al-Tusi (1274) uno dei pochi che, da una parte lo avevano difeso con l’opera “Debolezze del lottatore”, mentre dall’altra lo aveva attaccato sul piano filosofico.

Dopo Ghazali, il sufismo, accettato dall’ortodossia ebbe per un certo tempo il predominio sulla teologia, e i monaci sufi assunsero il monopolio del pensiero religioso a scapito dei mullah (interpreti della dottrina religiosa e della legge musulmana).

Si ebbe quindi uno sviluppo del monachesimo sufi, parallelo a quello francescano in Occidente.

I devoti sufi (in lingua araba “fachiri” e persiana “dervisci”, termini che indicavano il povero o mendicante), abbandonavano le famiglie e si riunivano in comunità sotto la guida di un maestro o sceicco, dandosi alla vita ascetica.

Costoro ritenevano di superare l’io individuale, attraverso la meditazione o la preghiera  o le danze ascetiche, per raggiungere con l’estasi l’unione con Dio. I sufi, come gli indù, credevano in un metodo particolare di disciplina necessario alla rivelazione mistica di Dio, costituito da esercizi purificatori di devozione, meditazione, preghiera, completa obbedienza del novizio al maestro e completo abbandono di ogni desiderio personale.

Come si era verificato in Occidente, anche i monasteri musulmani si arricchirono con donazioni e i monaci si rivolsero a godere le ricchezze materiali di cui disponevano, abbandonando le cure dello spirito, fino al punto in cui uno sceicco lamentava (1250) che: “i sufi erano una società dispersa nella carne ma unita nello spirito,  ora essi sono un corpo fisicamente ben vestito, ma miserabile per ciò che concerne i misteri divini”.

E come si era verificato in Occidente, questi monaci riscuotevano ugualmente le simpatie del popolo, verso i quali mostrava non solo un’accesa devozione, ma ritenendo  possedessero poteri straordinari, ad essi attribuiva fatti miracolosi e li onorava come santi, li celebrava nei giorni di anniversario della nascita e implorando la loro intercessione  presso Allah, faceva pellegrinaggi alle loro tombe.

Un santo famoso che indichiamo a chiusura dell’argomento, fu certamente Abd al-Qadir al-Gilani (1078-1166) che, dalla corrente hambalita (v. nota 6) era passato al sufismo e i suoi scritti mistico-filosofici e poetici erano ispirati a questa corrente. Aveva fondato la prima confraternita mistica musulmana (Qadoiriyya), tutt’ora esistente e dotata di grande spirito di tolleranza. Le sue predicazioni e sermoni furono considerati i migliori dell’Islam ed è ricordato per i suoi numerosi e importanti prodigi.

Sarà il poeta mistico Farid ad-Din ‘Attar, (1229/30) a ricordare nel libro  “Thadhkiram al-Awliya” (Memoriale dei santi),  una “Leggenda aurea” araba, la vita, i miracoli e le sentenze di 72 mistici arabi. Il libro è considerato un dei più notevoli della letteratura persiana e della letteratura religiosa in genere.

‘Attar è stato il biografo del sufismo musulmano, tra le sue opere troviamo il poema mistico"Ilahi name" (Libro divino) formato da una serie di racconti e apologhi, racchiusi in una cornice unitaria: un sovrano invita i suoi sei figliuoli a esprimere il desiderio di ciò che ciascuno vorrebbe possedere. Ognuno chiede beni mondani, come "la figlia delle Peri" (fata, secondo le credenze iraniche), "la magia", "la miracolosa coppa del re Gemshid entro cui si vede riflesso il mondo intero" (una specie di coppa del Graal occidentale), l'acqua di vita, l'anello di Salomone, l'alchimia.

Ai figli però il padre racconta episodi intesi a dimostrare la vanità dei loro desideri  svelando che la profonda essenza delle cose chieste, abbia un valore spirituale: “la figlia delle Peri” è in realtà “l'anima”, “la coppa di Gemshid” l'intelletto, “l'acqua di vita” è la fede, e così via. L'opera presenta un quadro della spiritualità musulmana e il suo  fine è quello dell'elevazione dello spirito dalla terra verso l'eterno. 

Altra opera poetica con finalità mistiche di ‘Attar, è il “Mantiq ut-attir” (La lingua degli uccelli) in cui descrive un immaginario volo di uccelli verso il mitico “Simurg” (una specie di luogo della Fenice), attraverso le tappe della via mistica, la progressiva ascesa dell’anima verso Dio.

 

6) Ahmad ibn Hanbal († 855) seguiva un rigorismo di carattere inquisitoriale, tanto da tacciare di eresia tutti coloro che, tra i suoi predecessori, avevano seguito il discorso della ragione.

 

FINE

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