LIBRI CAROLINI
ICONOCLASTIA E CULTO DELLE IMMAGINI
MICHELE DUCAS PUGLIA
Nel 794 Carlomagno aveva convocato, a Francoforte, su suggerimento
non si sa bene se di Alcuino o Teodulfo di Orleans, un concilio
per discutere sul culto delle immagini, relativamente al quale
i franchi, abituati nell'antichità a pregare tra i boschi
e all'aria aperta, erano contrari.
L'occasione era stata data dal precedente concilio organizzato
dall'Imperatrice Irene, a Nicea (787), in cui il culto era stato
riammesso e confermato.
Si trattava di una controversia che si trascinava già da
tempo, sfociata in lotte intestine, che nascondevano spesso fini
politici e che finivano molte volte nel sangue.
Essa aveva avuto inizio con Leone III (717-741) che era iconoclasta,
quindi contrario al culto che presso i greci era la principale
espressione della loro religiosità.
Sull'opposizione al culto, in generale, vi erano state influenze
musulmane, che escludevano la riproduzione delle immagini (il
volto di Maometto non era mai riprodotto e appariva in bianco).
Sembrava anche che il culto fosse escluso dal cristianesimo, che
era fondato più sulla spiritualità che sulla materialità.
Vi era infine l'influenza ebraica che escludeva anch'essa il culto
delle immagini ,oltre a quella di sette eretiche; non solo, ma
pauliciani e monofisiti già si erano mostrati contrari
al culto.
Quando Leone aveva preso la decisione (726), egli aveva già
maturato l'idea iconoclasta, anche perché ne aveva discusso
con il vescovo Teodosio di Efeso, suo consigliere, e con altri
due vescovi Tommaso di Claudiopoli e Costantino di Nacolea detto
l'Eresiarca, portatori di quell'idea. La diversità d'opinioni
era emersa sin dal II sec., tra i vescovi titolari delle varie
Scuole facenti capo alle rispettive Chiese (che erano acefale
ed autonome). Il primo ad essersi espresso sull'argomento fu Clemente
Alessandrino (Maestro d'Origene), che insegnava nella prima scuola
sorta ad Alessandria (II e III sec.), le cui tesi, in seno alla
letteratura cristiana, erano piuttosto rivoluzionarie. Clemente
sosteneva che il Dio dei cristiani - il vero Dio - si percepisce
con la sola mente, mentre il paganesimo compie l'errore di celebrare
onori divini a statue e immagini.
Successivamente, Gregorio Nazianzeno (IV sec.), per motivi opportunistici,
giustificava, in parte, il paganesimo. Gregorio, infatti, spiegava
che la bellezza delle statue erette dagli idolatri, era un elemento
per attirare l'animo della gente alla loro adorazione come idoli.
Egli riconosceva quindi che la bellezza artistica può essere
posta al servizio dello spirito.
Questa disponibilità di Gregorio, era dovuta al fatto che
il cristianesimo si stava sviluppando come religione di massa,
e si cercava con questa forma di condiscendenza, di superare le
resistenze del paganesimo e indirizzare le masse verso quella
che era definita <la vera fede> (come si sa, ciascuna delle
tre religioni monoteiste si sente depositaria dell'unica e vera
fede,e dell'unico vero Dio ndr.).
Gregorio di Nissa (IV sec.) rilevava che la bellezza dei luoghi
di culto predisponeva alla concentrazione alla preghiera. Per
Gregorio era anche interessante che le pitture raccontassero le
storie dei Maestri e le crudeltà dei persecutori, e questa
forma narrativa non poteva fomentare l'idolatria perché
rappresntava esempi di vita religiosa.
Anche il fratello di Gregorio di Nissa, s. Basilio giustificava
la devozione che si tributava alle immagini dei santi.
Di costui si raccontava che l'imperatore Valente (che aveva regnato
dal 364 al 378 anno della sua morte), ariano, aveva fatto cacciare
da una chiesa i cristiani per far posto agli ariani. Basilio si
era presentato all'imperatore, lamentandosene. Valente gli rispose
risentito, che si considerava ingiuriato da tali insolenze. Autorizzò
comunque Basilio, a risolvere egli stesso la questione <senza
lasciarsi trasportare dal suo eccessivo amore per il popolo>.
Basilio risolse la questione nel modo seguente. Si recò
davanti alla chiesa, dov'erano radunati ariani e cristiani, e
chiese loro di chiudere le porte della chiesa con sigilli, affermando
che la chiesa sarebbe appartenuta a chi fosse riuscito ad aprirla
con la preghiera.
Gli ariani passarono tre giorni e tre notti a pregare, ma le porte
non si aprirono. I cristiani vi si recarono in processione e dopo
che Basilio aveva toccato le porte col pastorale, esse si aprirono.
L'imperatore, venuto a conoscenza dell'avvenimento, propose a
Basilio di diventare ariano, ma Basilio rifiutò affermando
che le parole dei dogmi non potevano essere cancellate. L'imperatore
adirato voleva esiliare Basilio, ma sia la prima, sia la seconda
e la terza volta che aveva iniziato a scrivere la sentenza...
gli si era rotto il calamaio...e ogni volta l'imperatore aveva
dovuto strappare il foglio...con le mani tremanti di spavento!
In seguito gli ortodossi non lo risparmiarono dalle accuse di
averli perseguitati.
Leone, dopo aver predicato per convincere il popolo della sconvenienza
della esagerata venerazione delle immagini, pensò subito
di far rimuovere l'immagine di Cristo dalla Porta Bronzea del
palazzo imperiale, che provocò l'immediata reazione del
popolo con l'uccisione dei funzionari incaricati della rimozione.
Per contro, molti iconoduli (favorevoli) subirono la mutilazione,
la flagellazione, l'esilio e la confisca dei beni.
La notizia che l'imperatore era contrario al culto delle immagini
provocò la rivolta dell'Ellade, per questo Leone III si
rese conto che su questo campo minato doveva agire con molta prudenza.
Inutilmente però aveva condotto trattative sia con il patriarca
di Costantinopoli (Germano), che era contrario, sia col papa (Gregorio
II), il quale riteneva che l'imperatore non aveva alcun diritto
di legiferare in materia di fede e di apportare innovazioni nella
dottrina tramandata dai padri. Poiché le trattative non
condussero a nulla di fatto, Leone ritenne di ricorrere alla forza,
emanando un editto con cui ordinava la distruzione di tutte le
immagini e convocando un'assemblea delle maggiori autorità
civili e religiose per la sua approvazione. Il patriarca Germano
però si oppose, ma venne immediatamente deposto e nominato
al suo posto Anastasio il quale, con tutti gli altri partecipanti,
approvò l'editto che divenne legge. Per questo l'imperatore
procedette alla distruzione delle immagini e alla persecuzione
dei loro adoratori. Il nuovo papa, Gregorio III, riunito un concilio,
scomunicò sia l'imperatore che il patriarca Anastasio,
allargando ancora più la frattura tra Roma e Bisanzio.
Nel frattempo Leone III moriva e gli succedeva il figlio Costantino
V (741) co-imperatore col padre, che condivideva l'idea iconoclasta.
Per questo motivo, dopo un anno dall'incoronazione, in sua assenza,
avendo intrapreso una spedizione contro gli arabi, il cognato,
Artavasde, che si ergeva a favore del culto delle immagini, gli
usurpava il trono (743), anche se per pochi mesi, facendo riportare
le immagini al proprio posto. Costantino V però riuscì
a riprendere il trono e fu ancora più deciso del padre
nella iconoclastia che accrebbe ancora di più il distacco
da Roma.
Costantino per condannare il culto delle immagini preparò
un concilio, assicurandosi che tutti i vescovi partecipanti (350
vescovi) fossero dalla sua parte. Il concilio (Hieria,754) si
riunì con un'anomalia. Il patriarca Anastasio che aveva
sostituito Germano, era morto e né il papa, né i
patriarchi orientali, avevano inviato loro rappresentanti. Per
questo motivo, il concilio fu presieduto da Teodosio di Efeso,
figlio dell'imperatore Tiberio III Absimaro, ma da parte dei vescovi
ortodossi il concilio fu dileggiato come sinodo acefalo.
Il concilio stabilì il principio che gli imperatori erano
uguali agli apostoli, che Cristo non poteva essere rappresentato
e che i sostenitori del culto delle immagini cadevano nella eresia
nestoriana oppure in quella monofisita, in quanto nell'immagine
o vedevano rappresentata la sola natura umana, come ritenevano
i nestoriani oppure consideravano rappresentata anche la natura
divina come i monofisiti. Nestorio infatti teneva distinte la
natura umana dalla natura divina di Cristo, quindi vedeva le due
nature in un'unica persona e riconosceva la beata Vergine Maria
come madre di Gesù non come madre di Dio. I monofisiti
invece fondevano le due nature in un'unica e sola natura.
Quindi il concilio emise una dura condanna relativamente al culto
delle immagini sacre, che, sosteneva il concilio, era stato introdotto
da Satana per profanare il cristianesimo. Si dette quindi luogo
alla distruzione di tutte le immagini sacre, sostituite da immagini
profane con scene di guerra, caccia, corse di cavalli e spettacoli
teatrali, e principalmente con immagini dell'imperatore.
La distruzione delle immagini condotta con fanatismo, incontrò
una resistenza altrettanto fanatica sfociata nel sangue. La maggiore
opposizione venne dai monasteri, per questo l'imperatore ne ordinò
la chiusura, alcuni di questi furono trasformati in caserme o
in stabilimenti termali o in uffici pubblici, i monaci furono
costretti ad abbandonare la vita monastica.
Costantino V andò anche oltre la condanna del concilio
al culto delle sole immagini. Egli si scagliò infatti anche
contro il culto delle reliquie, il culto dei santi, la venerazione
di Maria. Queste persecuzioni cessarono con la morte dell'imperatore.
A Costantino V successe il figlio col nome di Leone IV, il quale
pose un freno alle persecuzioni e alla lotta distruttrice del
padre. Il regno di Leone IV fu di breve durata. Alla sua morte
venne posto sul trono il figlio Costantino VI di dieci anni, la
cui la madre Irene prese la reggenza.
Con Irene le cose cambiano. Irene proveniva da Atene dove era
profondo il culto delle immagini ed essa era una convinta inconodula,
sostenitrice del culto. In quel periodo era patriarca Paolo (780-784)
il quale, pur avendo prestato giuramento iconoclastico, era a
favore delle immagini. Il patriarca si dimette, quindi Irene ne
cerca uno che facesse al suo caso e lo trova nella persona di
uno studioso, funzionario imperiale, il quale accetta l'incarico
a condizione che venga convocato un concilio, che Irene accettò
di buon grado, avendo anche il consenso degli altri quattro patriarcati
(Roma, Alessandria, Antiochia e Gerusalemme). Il concilio fu convocato
per il mese di luglio 786, ma dovette essere rinviato a causa
delle opposizioni di clero e truppe iconoclaste,che non volevano
fossero abrogati i decreti di Costantino V. Il concilio fu pertanto
rinviato all'anno successivo (787) a Nicea (era il VII concilio,
ultimo riconosciuto dalla chiesa ortodossa), nel quale prevalse
l'ala moderata che sosteneva che alle immagini andava riservata
la venerazione, mentre l'adorazione (i bizantini erano esperti
in queste sottili distinzioni!) era riservata solo a Dio. Furono
quindi revocati i provvedimenti del concilio del 754 e restituiti
ai monaci i monasteri, con la riforma però dei loro ordinamenti
e la condanna del traffico delle cose sacre.
Carlo Magno nei suoi Libri (fondati peraltro su errori di traduzione
degli atti del concilio di Nicea), si era in ogni modo mantenuto
su una posizione né contraria né favorevole al culto,
nel senso che era contrario sia alla distruzione delle immagini
che alla loro venerazione. Mentre il concilio di Nicea aveva definito
un dovere di ogni cristiano praticare il culto delle immagini,
il concilio di Francoforte condannò questo principio. Il
papa (Adriano I), che in un primo momento si era mostrato contrario
a quelle decisioni, le accettò per ossequio all'imperatore,
per cui in occidente i germani e i franchi, pur non avendo rimosso
le immagini, non le onoravano del loro culto; in Spagna e Italia
invece le immagini continuarono a essere adorate.
Per concludere sulla iconoclastia, la lotta non ebbe termine con
il concilio del 787, ma ebbe gli ultimi sprazzi con Leone V (813-820)
che riunì un nuovo concilio che rimise in vigore i decreti
del 754, con Michele II (820-829), e infine con Teofilo (829-842),
i quali usarono violenza contro i monaci facendo bruciare le mani
a coloro che eseguivano lavori artistici di riproduzione.
Con l'avvento di Michele III, che riunì un concilio a Costantinopoli
nell'841, si ristabilì il culto delle immagini e l'insensata
lotta tra iconoclasti e iconoduli ebbe finalmente termine. Essa
aveva provocato la distruzione di tante opere d'arte, tra cui
mosaici, icone, preziose miniature in avorio ma, in compenso,
dette una spinta alla evoluzione dell'arte decorativa profana.
FINE
IL GINECEO DI CARLO MAGNO*
Nato probabilmente il 2.4.742, incoronato nella cattedrale
dell' abazia di s. Denis il 754, a dodici anni dal papa Stefano
II. Largo e robusto di corporatura, di statura alta che non eccedeva
il giusto - scrive Eginardo - (la sua altezza era pari a sette
volte il suo piede, tra 1.75/1.80), occhi molto grandi e vivaci,
naso lungo, bella chioma che con gli anni era diventata bianca,
volto piacevole e gioviale, di aspetto autorevole che gli dava
una certa imponenza sia quando era in piedi che quando stava seduto,
anche se aveva il collo grasso e corto. Era un ottimo nuotatore.
Nella piscina di palazzo, ad Aquisgrana (certamente con acqua
termale), nuotava nudo, invitando senza tanti complimenti a fare
lo stesso chi si trovava con lui. Era anche un formidabile cavalcatore.
Tra guerre e cacce era sempre a cavallo. Ma questo sport, con
il nuoto, non gli avevano impedito di metter su pancia (aveva
il ventre prominente, celato dalla giusta proporzione di tutte
le altre parti del corpo). Era anche un grande amatore (peculiarità,
pare, di chi vada a cavallo ndr.), oltre ad essere di buon appetito.
Gli piaceva la carne allo spiedo (anche se i medici , che gli
erano praticamente odiosi, lo esortavano a mangiare carne lessata),
e la selvaggina era sempre abbondante alla sua mensa. Questa intemperanza
gli procurò la gotta. Il digiuno, diceva, gli faceva male.
Stranamente, era parco nel bere. Solo quando non stava bene digiunava
o assumeva cibi leggeri. Il pranzo-cena, normale (all'ora nona
tra le quattro e le sei), quando non vi erano ospiti, era di sole
quattro portate e durante i pasti beveva non più di tre
volte. L'estate a colazione (ora sesta, mezzogiorno circa) mangiava
della frutta e beveva una sola volta. Durante i pasti c'era sempre
qualcuno che leggeva classici latini o greci.
Di frutta e ortaggi, a Corte e nei suoi palazzi, ne arrivava in
gran quantità, avendo Carlo richiesto la coltivazione nelle
proprie terre di una gran varietà sia dell' una che degli
altri**.
Delle donne Carlo non poteva fare a meno, incominciando dalla
madre, BERTRADA o BERTA che era stata sempre con lui fino alla
morte, avvenuta nel 794. Era stato privato della presenza della
sorella Gisella, morta pochi anni prima di lui, solo perché
si era ritirata in convento e lì aveva passato tutta la
sua vita.
Berta (diventata famosa nella leggenda come Berta dal lungo piè
o la Berta che filava), aveva convinto Carlo a sposare la figlia
di Desiderio, per motivi politici, forse pensando a una possibile
unificazione del regno longobardo, che in seguito era avvenuta
lo stesso. E, sempre lei aveva fatto sposare Carlomanno, fratello
di Carlo, con Gerberga e condotto trattative per far sposare Gisela,
sorella di Carlo, con Adelchi, anche a costo di tirarla fuori
dal convento, dove Gisela viveva da tempo. Questo progetto non
giunse a buon fine per il precipitare degli eventi.
Carlo ebbe come mogli:
1. IMILTRUDE - 763 - considerata da Eginardo concubina, ma pare
invece che sia stata moglie legittima. Ebbe un figlio, bello ma
gobbo, PIPINO, che tentò un colpo di stato contro il padre
(792). Carlo lo fece ritirare nel convento di Prum (il cronista
dice che il padre gli permise, presa la tonsura, di ritirarsi
volontariamente a vita religiosa), dove morì nell'811.
2. DESIDERATA o ERMENGARDA (più comunemente è usato
quest'ultimo nome), figlia del re longobardo Desiderio. Sposata
probabilmente nel 770, come detto, su interessamento di Berta,
per fini politici. Il re longobardo, infatti, in quel periodo
stava conducendo una politica d'intesa con i franchi.
Stranamente, dopo appena un anno (771) Ermengarda (1) venne ripudiata
e rimandata da Desiderio a Pavia.
Si ignorano esattamente i motivi, anch'essi politici, del ripudio
di Carlo, certamente collegati con la morte di Carlomanno (771)
che aveva avuto da Gerberga due figli, e questo dava la possibilità
a costei e ai figli di avanzare pretese di successione sul regno
(di Austrasia), con la conseguente possibile interferenza del
nonno Desiderio.
Fu mandata dal padre anche la sorella Gerberga rimasta vedova
di Carlomanno.
Desiderio aveva promesso al papa (Adriano I) dei territori. Dopo
la rottura con Carlomagno egli non ottemperava all'impegno preso.
Sotto il nuovo papa, Stefano III, Desiderio aveva invaso le terre
dell'esarcato e si era spinto fino a Viterbo. Il papa chiese aiuto
a Carlo il quale scese in Italia (v. in Schegge: Carlomagno e
il giullare di Novalesa). Lo scontro tra Carlo, Desiderio e il
figlio di questo, Adelchi, avvenne alla Chiusa di Susa (presso
Torino). I longobardi dovettero ritirarsi (774), Desiderio si
rifugiò a Pavia, Adelchi a Verona. Carlo espugnò
Pavia, mandando Desiderio in un monastero in Francia. Adelchi
andò a rifugiarsi a Costantinopoli, presso Costantino V.
Carlo prese il titolo di rex langobardorum, aggiunto al (rex)
francorum.
3. ILDEGARDA di famiglia sveva, tredicenne, sposata nel 771
(Carlo aveva già ripudiato Ermengarda, ma il papa aveva
posto dei paletti a questo matrimonio; comunque la vinse Carlo)
morì, dopo avergli dato nove figli, all'ultimo parto, nel
783. Di maschi abbiamo: CARLO, PIPINO, LUDOVICO e LOTARIO. Di
questi,
1. PIPINO (re d'Italia moriva nell'810) aveva lasciato un figlio
maschio Bernardo, e cinque femmine Adelaide, Atula, Gundrada,
Bertaide e Teodorada. Morto Pipino, Carlo gli fece succedere il
figlio Bernardo, mentre le cinque nipoti le prese con sé
a palazzo, facendole educare assieme alle figlie;
2. CARLO, morì nell'811;
3. LUDOVICO il Pio, unico maschio rimasto in vita.
4. LOTARIO morto dopo la nascita (779/80);
Delle femmine:
5. ADELAIDE, morta dopo la nascita (774);
6. RORTRUDE (che ebbe un figlio dal conte Rorgone o Roricone del
Maine, Ludovico, divenuto abate di Saint Denis). Era stata l'unica
delle sue figlie promessa in sposa, a Costantino VI (*). Essendo
questo matrimonio andato a monte, Rortrude che non aveva accettato
di buon grado i voleri paterni, aveva provveduto diversamente,
prendendo come amante Roricone. Moriva prematuramente nell'810,
all'incirca a trentacinque anni.
7. BERTA che con lo stessa esuberanza sessuale che circolava in
famiglia, prese come amante il poeta Angilberto che era anche
abate (di Saint Requier), dal quale ebbe molti figli tra cui lo
storico Nitardo e Hatmid;
8. GISELA (innanzi indicata) e infine, 9. ILDEGARDA, morta alla
nascita (783, e morì anche la madre).
4. FASTRADA, moglie, morta nel 794, apparteneva alla stirpe dei
franchi orientali, cioè dei germani, gli dette due figlie:
1. TEODERADA (badessa di Argenteuil, si parlerà di questo
convento nell'articolo Abelardo e Eloisa) e 2. ILTRUDE.
1) Alessandro Manzoni, commosso per la sua sorte, aveva immortalato
Ermengarda nella tragedia Adelchi. Egli certamente aveva preferito
il nome Ermengarda che si addiceva meglio a una tragedia di Desiderata!
*) Si veda in questa Rivista l'articolo "Mille anni dell'
Impero bizantino tra intrighi, complotti e colpi di Stato".
5. CONCUBINA - il cui nome non torna alla mia memoria (dice
Eginardo) - ebbe una figlia, RODAIDE (badessa di Faremoutiers).
Morta Fastrada, sposò l'alamanna
6. LIUTGARDA, moglie, da cui non ebbe figli, ma Carlo si consolò
con quattro concubine:
7. MALDEGARDA da cui ebbe ROTILDE;
8. GERSWINDA della combattuta stirpe sassone (ma per Carlo non
era un problema, di sassoni ne aveva anche a Corte), da cui ebbe
ADELTRUDE;
10. REGINA, da cui ebbe DROGONE (vescovo di Metz, morto nell'855),
e UGO (abate di s. Quentin e di s. Bertin), morta nell'844;
11. ADALINDA, che generò TEODORICO, vescovo di Cambrai.
Nell'800 si era profilato un matrimonio di Stato con l'imperatrice
di Costantinopoli Irene, ma non si realizzò, per fortuna
di Carlo, che non conosceva i sistemi in uso presso quella Corte
e utilizzati dalla stessa Irene, per l'eliminazione del marito,
l'imperatore Leone IV e del figlio, Costantino VI, detronizzato
e fatto accecare, la cui presenza, per la madre, era divenuta
intollerabile, insopportabile o superflua (v. l'articolo citato*)
. Irene stessa fu deposta nell'802 quando erano ancora in corso
le trattative con i legati di Carlomagno.
Tutti questi numerosi figli vivevano a Corte. I maschi cavalcavano
con lui, le figlie pur dovendo imparare l'arte della lana e il
lavoro della conocchia e del fuso (vi erano ordini relativi al
gineceo, che prevedevano che esso fosse rifornito di tutto quanto
necessario per queste attività: <lino, lana, guado,
minio, robbia, pettini, strettoi e tutta l'altra minutaglia che
fa di bisogno>), venivano educate in base alla loro dignità
e tutte lo seguivano ovunque in corteo, protette da guardie del
corpo a loro specificamente assegnate.
Con questo numeroso manipolo di donne, la vita a Corte doveva
essere piuttosto movimentata e licenziosa (Eginardo diceva a un
giovane paggio, non ti auguro che una colomba reale si posi sulla
tua finestra!, ma il paggio, che poteva essere stato uno degli
amanti delle tante fanciulle che svolazzavano per la Corte, avrà
senz'altro avuto piacere della colomba che certamente si era posata
sul davanzale della sua finestra).
Oltre alla partecipazione ai cortei, tutte le figlie dovevano
essere presenti a cena (o pranzo che dir si voglia, trattandosi
di pasto unico) .
Erano tutte belle (ma non è dato sapere quanto effettivamente
lo fossero) e molto da lui amate, dice Eginardo. Sta di fatto
che il padre era geloso di tutte e non permise che qualcuna di
loro prendesse marito, perché, diceva, non poteva fare
a meno della loro compagnia, e certamente le gratificava con le
sue attenzioni
visto che gli piacevano giovinette (abbiamo
visto che aveva sposato la tredicenne Ildegarda). Le figlie, in
ogni caso, si prendevano ugualmente le loro libertà, con
gli uomini che frequentavano la corte.
Quello dei rapporti tra padre e figlie, che per i posteri andavano
oltre i limiti della morale, non suscitava troppo scandalo, anche
se lasciavano spazio a pettegolezzi o malignità, che in
fondo non erano tali, ma cruda verità.
La presenza e la vita di tutte queste donne, era considerata scandalosa
dal figlio Ludovico, detto giustamente il Pio, il quale, appena
morto il padre***), le relegò tutte in convento.
*) Il presente articolo, con gli altri in Schegge e Specchio
dell'Epoca completa quello di Carlomagno e l'Idea dell'Europa,
in questa Rivista.
**) L'ORTO DI CARLOMAGNO. Carlo aveva dato disposizioni che nel
suo orto fossero coltivate tutte le piante possibili, espressamente
indicate, quindi, oltre ai gigli e rose, il fieno greco (trigonella),
la menta-gallo, la salvia, la ruta, la limoncina (melissa), i
cocomeri, i meloni, le zucche lunghe i carciofi di spagna, i fagioli,
il comino officinale (cumino-cuminum cyminum), il rosmarino, il
carvi (kummel), il cece, la scilla (urginea maritima), il gladiolo,
la serpentaria (dragoncello-artemisia dracunculus), l'anice, la
coloquintide (cytrullus colocynthis), l'eliotropio (heliotropium
europeum), la nutellina (motellina-ligusticum mutellina), il cerfoglio
di Marsiglia (cerfoglio) , le lattughe, la zampa di ragno (sconosciuto),
la rughetta, il crescione da orto (crescione inglese), la bardana
(bardana-arctium lappa), il puleggio (menta poleggio), il macerone
comune (macerone-smyrnium olusatum), il prezzemolo, il sedano,
il levistico (sedano selvatico), la sabina (ginepro sabina), l'aneto,
il finocchio dolce, le cicorie, il dittamo di Creta (origano di
Creta-origanum dictamnus)), la senape, la santoreggia (santureja
ortensis), la menta acquatica, la menta dei giardini (menta piperita),
la menta a foglie rotonde (menta), il tanaceto (tanacetum vulgare),
la nepitella (mentuccia-calamintha nepeta), la piccola centaurata
(centauro maggiore), il papavero da giardino (papavero domestico),
le bietole, il nardo (nardo-valeriana celtica), l'altea, la malva,
le carote, la pastina (pastinaca-sativa), il bietolone rosso,
gli amaranti, il cavolo rapa, il cavolo, le cipolle, l'allocriptopina
(non consciuta), i porri, le rape e i rapanelli, lo scalogno,
le cipollette, l'aglio, la robbia (rubia tinctorum), i cardi,
le fave di palude (favagello-ranunculum ficaria), i piselli, il
coriandolo, il caprifoglio, la catapurzia (catapuzia-euphorbia
lathyris), la chiarella maggiore chiarella-salvia sclarea). E
una raccomandazione: il giardiniere tenga nella sua casa la barba
di Giove (tipo erba medica con peluria che si trova ancora nel
meridione d'Italia).
(Tra parentesi i nomi attuali e scientifici, che sono stati forniti
dal dott. Giancarlo Cassina dell'Orto Botanico dell'Università
di Padova)
Per gli alberi, gli intendenti dovevano avere meli e peri e pini
di diverse specie, sorbi, nespoli, castagni, peschi di diverse
specie, cotogni, noccioli, mandorli, gelsi, lauri, fichi noci
e ciliegi di diverse specie.
Le varietà di mele erano la gozmaringa, geroldinga, crevedella,
spirauca le une dolci, le altre aspre da conserva, e anche quelle
che si mangiano appena colte e che maturano precocemente. Le pere,
di tre quattro specie, dolci, da cuocere e tardive.
***) Carlo morì d'infarto il 28 Gennaio 814 alle 9 del
mattino, a settant'anni.
FINE
L' INCORONAZIONE DI CARLOMAGNO
Correva l'anno 795 e a Roma il giorno di Natale moriva il
papa Adriano I, che aveva retto il papato per ventitré
anni. Dopo appena due giorni, il 27 dicembre era eletto papa Leone
III, figlio di Azuppio. Leone al momento dell'elezione era cardinale,
era stato uomo di curia, allevato da giovane in Laterano. Appena
eletto annunciò la morte di papa Adriano e la sua nomina,
inviando a Carlo gli atti della nomina. Carlo gli rispondeva dicendogli
tra l'altro: <Con l'aiuto del divino amore a noi spetta
proteggere con le armi la Santa Chiesa dalle minacce
a Te
Santissimo Padre
spetta pregare per i nostri cavalieri
sì
che la cristianità ottenga vittoria sopra i nemici
>. Successivamente Leone III invitava Carlo a mandare a Roma
uno dei suoi legati per ricevere il giuramento di fedeltà
del popolo romano, nella sua qualità di patricius romanus,
che comportava la potestà militare e giurisdizionale di
Carlo, con il diritto supremo non solo di difendere ma anche,
ove si fosse reso necessario, di punire il papato.
Sotto Adriano I si era sviluppato un nepotismo tale che i suoi
parenti mal sopportavano che un altro papa, un estraneo, li limitasse
nel potere e negli onori, che essi avevano esercitato per tanti
anni e ai quali si erano abituati, e ciò, nonostante avessero
incarichi elevati. La famiglia era tra le maggiorenti della città,
Adriano era figlio di un console romano. Teodulo. Uno dei nipoti
di Adriano, Pasquale, aveva pensato a un piano per togliere di
mezzo il papa e impadronirsi del potere. Fu così che durante
una processione per la festa di s. Marco (25 aprile 799), alla
quale partecipava il papa a cavallo, con tutto il suo seguito,
gli si avvicinò Pasquale con Campulo sacellario del papa
(facente parte cioè della segreteria del papa e che probabilmente
era suo fratello), si unirono a lui, mettendoglisi uno davanti,
l'altro dietro. In prossimità del convento di s. Silvestro
in Capite un gruppo di congiurati si gettò sul corteo con
le spade sguainate. La processione si disperde, il papa viene
buttato giù da cavallo e stanno per tagliargli la lingua
e cavargli gli occhi (qualcuno poi dirà che gli occhi erano
stati strappati e la lingua tagliata, e poi era avvenuto il miracolo!),
ma lo lasciano sul sagrato della chiesa. Pasquale e Campulo, lo
prendono e lo consegnano ai monaci con l'ordine di rinchiuderlo
in convento. In suo aiuto era accorso Guinigiso, duca di Spoleto,
che riesce a liberarlo e a portarlo a Spoleto.
Da qui il papa si mise in viaggio per andare da Carlo, al quale
fu annunciato il suo arrivo. Carlo che stava per andare a combattere
contro i sassoni, andò ad accamparsi a Padeborn per attenderlo.
Leone III giunse accompagnato da una scorta di ecclesiastici.
L'incontro fu di portata storica. Carlo manda immediatamente dei
messi a Roma per conoscere la situazione. Il papa viene colmato
di onori, ma Carlo anziché riaccompagnare con il suo esercito
il papa a Roma, stabilisce che devono comparire innanzi al suo
tribunale sia il papa sia gli avversari, per essere giudicati.
Gli avversari del papa, Pasquale con i suoi accusavano il papa
di essere adultero e spergiuro.
Il papa riparte con una numerosa scorta, compresi dieci legati
(*) di Carlo che avrebbero dovuto istruire il processo. A fine
novembre (29) il papa giunto alle mura di Roma trovò tutta
la popolazione ad accoglierlo, come lo avevano accolto tutte le
città durante il percorso del suo viaggio. Pasquale e Campulo
si presentarono ai legati, fu istruito il processo, contro i congiurati
fu emessa una sentenza di colpevolezza, sarebbe spettato a Carlo
emettere la condanna.
Carlo aveva passato il Natale di quell'anno ad Aquisgrana, mentre
per la Pasqua dell'anno successivo (800) si reca a Centula al
monastero di s. Ricario. Da qui si reca a Tours per rendere le
sue devozioni a s. Martino e qui si dovette fermare perché
la moglie Liutgarda non stava bene, e dopo alcuni giorni morì
(4 giugno), e lì fu sepolta.
Il sovrano ritorna ad Aquisgrana passando per Orleans e Parigi.
Aveva promesso al papa di venire in Italia, per cui, passata l'estate,
si mette in viaggio diretto a Ravenna dove aveva dato appuntamento
al figlio Pipino che con l'esercito doveva andare a Benevento
contro il ribelle duca Grimoaldo. Da Ravenna padre e figlio raggiunsero
(percorrendo la via Emilia) Ancona dove si separarono. Carlo proseguì
per Roma percorrendo la via Flaminia. Un giorno prima del suo
arrivo a Roma (23 novembre), il papa lo raggiunge a Mentana (Castrum
nomentanae), il 24 novembre Carlo fa il suo ingresso solenne in
Roma. Relativamente al processo, venne convocata per il primo
dicembre in s. Pietro, una grande assemblea di franchi e romani
in cui si decise che il papa non sarebbe stato processato in quanto
ciò avrebbe costituito una grave offesa al suo prestigio,
alla dignità e al suo ministero. Si trovò la soluzione
al problema con un escamotage, il papa cioè si sarebbe
presentato spontaneamente per discolparsi. Il 23 dicembre il papa
con il libro dei vangeli in mano e sotto giuramento, dichiarò
liberamente e spontaneamente, senza esservi stato condannato o
costretto, di essere innocente davanti a Dio di ogni sospetto.
I cospiratori invece, in una udienza successiva, venivano condannati
a morte, ma Carlo li graziò sostituendo la condanna con
l'esilio.
Mai Carlo aveva passato giorni più splendidi, tra lo sfarzo
delle cerimonie dove gli ori e le pietre preziose brillavano alla
luce di oltre mille candele, con il papa che era sotto la sua
protezione, da Gerusalemme era rientrata una sua delegazione,
inviata al califfo Harun al Rascid (i rapporti pre-crociate, tra
musulmani e cristiani erano di grande, reciproca tolleranza),
che gli portava le chiavi del Santo Sepolcro, della collina del
Calvario e della città, oltre a uno stendardo a testimonianza
della sua potenza e autorità. Inoltre il figlio Pipino
doveva essere incoronato re d'Italia.
Giunse il giorno di Natale, e Carlo si reca in s. Pietro, con
tutto il suo seguito, in abito romano (clamide e calzari),
ricevuto sul sagrato dal Papa. Dopo l'abbraccio entrambi entrano
in chiesa.
Carlo si inginocchia davanti all'altare e, mentre è
lì in ginocchio, Leone gli pone sulla testa una corona
d'oro, pronunciando la frase, a Carlo Augusto, da Dio incoronato
grande e pacifico imperatore dei Romani, vita e vittoria.
Segue immediatamente la acclamazione del Senato romano, di tutto
il popolo e dei franchi dell'esercito e nobili del seguito.
Nel momento in cui il papa mette la corona sulla testa di Carlo,
il sovrano dà un segno di insofferenza. Eginardo scriverà
che il sovrano gli aveva riferito che se lo avesse saputo prima,
non si sarebbe recato in chiesa.
Si è molto discusso su questo gesto di Carlo, il quale
sarebbe stato contrariato della incoronazione avvenuta a sua insaputa,
o forse egli era stato contrariato dal fatto che la corona gliel'avesse
posta il papa, e il gesto poteva avere valore di una sottomissione
che certamente Carlo non accettava, ben geloso dei rispettivi
ruoli. Da parte di alcuni studiosi si è sostenuto che Carlo
invece sarebbe stato a conoscenza della incoronazione.
Senza voler approfondire le varie tesi, riteniamo probabile che,
se se ne fosse anche parlato nelle rispettive cancellerie (e i
colloqui erano avvenuti solo tra ecclesiastici), il progetto poteva
anche non essere stato portato a conoscenza di Carlo. Non dimentichiamo
che suo figlio Pipino, doveva essere incoronato dal papa, re d'Italia
e di questo si era parlato nelle rispettive cancellerie.
In ogni caso non è stata molto sottolineata la circostanza
secondo la quale il papa doveva a Carlo tanta riconoscenza per
come era stata risolta la sua questione personale, che avrebbe
potuto portare a ben altre conseguenze, come una sua condanna
e una sua destituzione. Sarebbe ingenuo credere che avendo il
papa giurato di essere innocente, lo fosse veramente. In un'epoca
in cui gli ecclesiastici non si facevano scrupolo di avere o convivere
con concubine, non c'è da meravigliarsi che le accuse mosse
a Leone, fossero veritiere. Non bisogna poi dimenticare che Carlo
nel 796, quando aveva mandato come ambasciatore a Roma Angilberto
di s. Ricario, aveva ammonito il papa a condurre una vita onorata
e a osservare i decreti della chiesa, e un motivo per questo richiamo
ci doveva essere senz'altro (non dimentichiamo che le notizie
in quell'epoca circolavano, e anche abbastanza celermente)! Per
cui da parte del sovrano non vi era stato bisogno di alcuna sollecitazione
o manifestazione di desiderio di essere incoronato imperatore.
Peraltro Leone, dando il riconoscimento di imperatore a Carlo,
si assicurava quella protezione che dagli imperatori bizantini
non gli poteva arrivare e concedere quel riconoscimento non gli
costava nulla in termini territoriali, visto che di territori
la Chiesa da Carlo ne aveva ricevuti e continuava a riceverne
in abbondanza.
Quando Carlo aveva avuto quel gesto di insofferenza, non aveva
tutti i torti ad aver pensato che non doveva essere il papa a
investirlo con la corona.
Questo gesto, compiuto per pura riconoscenza, avrebbe dato
ai canonisti, nei secoli a venire la possibilità di disquisizioni
bizantine e sarebbe stato causa di dispute durate per tutto il
medioevo. Infatti nel momento in cui l'impero romano germanico
sarebbe venuto a conflitto con il papato, da una parte i canonisti
avevano creato la teoria secondo cui l'imperatore riceveva la
corona solo per grazia del pontefice; dall'altra, gli imperatori
si appellarono all'acclamazione del popolo, sostenendo di portare
la corona per grazia di Dio (secondo la frase di papa Leone
III
a Carlo
incoronato da Dio); dall'altra ancora
i Romani sostenevano che Carlo aveva ricevuto la corona dall'assenso
del Senato e dalla acclamazione del popolo. Infine dall'Oriente,
gli imperatori di Bisanzio considerarono quella incoronazione
una usurpazione.
Finite che furono le acclamazioni, il papa gli fece indossare
il manto di porpora, simbolo della autorità imperiale.
Poi venne il turno della incoronazione del figlio, che fu incoronato
re d'Italia. Il papa procedette quindi per ambedue, alla cerimonia
dell'unzione, rinnovando la cerimonia alla quale, per la prima
volta, si era fatto ricorso con il vecchio Pipino, padre di Carlo
e nonno del giovane re d'Italia. E' stato detto che dopo l'unzione
il papa si sia inginocchiato davanti a Carlo per rendergli la
devozione.
Finita la messa, da Carlo e Pipino furono offerti i doni. A s.
Pietro fu donata una tavola d'argento con preziosi arredi d'oro;
alla chiesa di s. Paolo doni di uguale portata; alla basilica
del Laterano una croce d'oro tempestata di gemme; a s. Maria Maggiore
doni altrettanto preziosi.
*) Gli arcivescovi Ildebrando di Colonia, Arno di Salisburgo,
i vescovi Cuniberto, Bernardo, Atto, Flacco, Jesse, i conti Helmgot,
Roitgar, Germar.
FINE