IL BASTONE DI MOSE'

 

Quando Mosè si trovò a dover convincere il popolo ebraico che era lui che doveva provvedere alla loro liberazione, e doveva guidarli fuori dell'Egitto, egli aveva posto il problema a Dio, al quale aveva chiesto cosa avrebbe dovuto rispondere nel caso avessero voluto sapere chi lo avesse mandato.
Dì loro, gli rispose Dio <che sono colui che è, perché non mi si addice alcun nome proprio, ma soltanto l'essere che mi spetta>. <Se però, per la loro naturale debolezza, ti chiedono un appellativo, rivela loro che sono il Dio dei tre uomini, i cui nomi indicano ciascuno una virtù: il Dio d'Abramo, d'Isacco e di Giacobbe, dei quali uno è modello della sapienza che s'insegna, l'altro di quella naturale, il terzo di quella che s'apprende con l'azione. Se poi dubiteranno ancora, si convinceranno da tre segni che nessun uomo ha mai visto o udito>.
Dio ordinò quindi a Mosè di buttare a terra il bastone che teneva in mano e questo animatosi prese a strisciare, essendo diventato un grosso serpente. Mosè si ritrasse spaventato e stava per fuggire. Egli lo richiamò e gli impartì l'ordine e il coraggio di prendere il serpente per la coda; Mosè eseguì. Il serpente snodava le sue spire, ma appena preso per la coda si trasformò nel bastone di prima.
Mosè ritornò in Egitto, volendo mostrare i prodigi, certo che gli increduli sarebbero passati alla fede, in presenza del faraone e dei notabili radunati nella reggia. A questo punto interviene Aronne (che Filone chiama genericamente il fratello di Mosè), il quale, dopo aver agitato il bastone per aria, lo gettò a terra e questo si trasformò in serpente. I presenti si ritrassero presi da paura.
I Maghi presenti (nella realtà storica erano i sacerdoti egiziani che conoscevano bene le arti magiche che praticavano, tanto da essere in grado di spostarsi volando, e Mosè era stato educato da costoro - nda), gli dissero che anch'essi erano in grado di fare le stesse cose. Ciascuno afferrò un bastone che buttato per terra si trasformò in serpente, ma quello di Mosè, secondo il racconto, li avvolse tutti nelle sue spire e li risucchiò, diventando quindi di nuovo bastone!
Poiché con questo prodigio non era riuscito a convincere il faraone, egli si rese artefice delle dieci piaghe che costituivano una punizione, in cui erano coinvolti i quattro elementi della natura: terra, acqua, aria e fuoco. Di cui le prime due affidò al fratello Aronne, aria e fuoco le affidò a Mosè stesso.
Aronne colpì l'acqua col bastone e questa, dall'Etiopia sino al mare, divenne rossa (ricordiamo che il mar Rosso era stato così denominato per una particolare alga, che gli dava quel colore)…tutte le acque dei laghi e dei fiumi diventarono rosse e non si poterono bere. Gli egizi supplicarono Mosè, che fece ritornare le acque al naturale. Dopo aver cambiato per un certo tempo costume, gli egizi ritornarono alle loro abitudini, per cui arrivò l'altra punizione. Dopo che Aronne ebbe toccato le acque col bastone, da esse uscì una quantità enorme di rane che riempirono strade, villaggi, case, templi.
Gli egizi non potevano uscire dalla casa né muoversi, né potevano mangiare, perché le rane finivano perfino nelle pentole. Il faraone promise di lasciar partire gli ebrei e così le rane si ritirarono, altre morirono. Ma gli egizi, come gli atleti, ripreso un poco di fiato, tornarono alle loro malvagità e ancora una volta Aronne dovette gettare a terra il bastone e ne uscì uno sciame di cavallette che invasero tutto l'Egitto.
<Perché?> si chiede lo storico (Filone d'Alessandria*). Egli stesso dà la risposta: perché la cavalletta è un insetto assai nocivo e fastidioso. Esso penetra nel corpo attraverso le narici e le orecchie infilandosi negli organi interni (!) e s'introduce sia nella pupilla sia nell'occhio e la ferisce se non vi si fa attenzione…ma quale precauzione, aggiunge lo storico, si potrebbe avere se si tratta di una punizione di Dio? Alla fine l'Egitto si arrese e fu costretto a gridare: <Questo è il dito di Dio>.
Questi furono i castighi inflitti per mezzo del fratello di Mosè. Ora bisogna passare a quelli inflitti tramite lo stesso Mosè.
Filone fa una divisione degli elementi dell'universo in quattro parti distinte, secondo quella che era la filosofia naturale dell'epoca, in acqua, terra, aria e cielo. Da parte d'Aronne, dice lo storico, erano stati coinvolti i primi due elementi, acqua e terra. Mosè coinvolge gli altri due aria e cielo.
L'Egitto, dice Filone, durante il solstizio d'inverno godeva di un clima di primavera, e la parte costiera dov'era Menfi, residenza del faraone, durante questo periodo era bagnata da poche gocce. <All'improvviso il clima cambiò e si ebbero riuniti tutti i tipi di intemperie: abbondanti piogge, grandine fitta e grossa, venti contrari e strepitanti, squarci di nubi, susseguirsi di tuoni, continui fulmini che producevano uno spettacolo straordinario: correndo lungo la grandine, elemento loro contrario, non la fondevano, né si spegnevano, ma tal quali saettavano dall'alto in basso e lasciavano la grandine intatta> (!). Non fu soltanto l'insolito manifestarsi di tutti questi elementi, ma anche la straordinarietà del fatto indusse gli abitanti allo scoraggiamento. Gli egizi attribuirono, come in effetti era, tutta la devastazione e distruzione di alberi, frutti e animali, alcuni morti e altri che portavano sul corpo le bruciature dei fulmini, all'ira di Dio. Cessato però il flagello, il re e i suoi ripresero a infierire contro gli ebrei. Mosè allora tese il bastone in aria e si sollevò un fortissimo vento secco da sud che aumentò di intensità durante tutto il giorno. Questo vento procurava mal di testa, danneggiando l'udito, e dando nausea e fastidi. Al vento tiene dietro la vampa del sole, che brucia ogni cosa. Assieme al vento arrivò una quantità innumerevole di animali nocivi per le piante, le cavallette che riempivano tutta l'aria, divorando quanto fulmini e grandine avevano risparmiato, cosicché in questa regione non si vedeva germogliare più nulla.
Il faraone, purché il flagello cessasse, pregò Mosè, che fece levare un vento dal mare per disperdere le cavallette. Ma il faraone era ancora restio a far partire gli ebrei, per cui in pieno giorno calarono d'improvviso le tenebre come se fosse avvenuta un'eclissi totale. Il popolo era sopraffatto dalla sofferenza, ma Mosè ebbe compassione, pregò Dio che fece tornare la luce.
Queste furono le piaghe inflitte da Mosè.

Ma ve ne fu un'altra, ad opera di entrambi i fratelli, in quanto una parte del flagello proveniva dalla terra, di cui Aronne aveva la prerogativa, un'altra parte dall'aria, di competenza di Mosè.
Ambedue i fratelli raccolsero con le mani della cenere dal focolare e Mosè la sparse in aria poco per volta. Si sollevò una nuvola di polvere che produsse negli uomini e negli animali un'ulcerazione irritante e dolorosa su tutta la pelle, i corpi si gonfiarono e si ricoprirono di pustole purulente. Ancora una volta il male cessò per l'intercessione di Mosè.
Vi furono ancora tre piaghe, quella della mosca canina, così chiamata in quanto la mosca e il cane sono gli animali più impudenti che esistano, perché entrambi attaccano e perseguitano la loro vittima e non si danno per vinti finché non sono sazi di sangue. Poi vi fu una seconda piaga, non dovuta all'intervento dell'uomo, la morte di bestiame. Intere greggi di buoi, capre, pecore e altre specie di animali da soma e domestici perirono in un sol giorno come ad un segnale convenuto, che preannunciava l'estendersi dell'epidemia agli uomini. Infine, decimo e ultimo flagello, la morte degli egizi: non di tutta la popolazione o la morte di donne e uomini della stessa età, ma la morte dei soli primogeniti. Verso la mezzanotte quelli che per primi avevano chiamato padre e madre, tutti robusti e in buona salute, furono strappati dalla morte nel fiore della giovinezza. I genitori si recarono alla reggia accusando la caparbietà del faraone di tutti questi mali. Fu così che gli ebrei, scacciati e inseguiti, poterono abbandonare l'Egitto.

La versione araba (**) del bastone di Mosè è ancora più fantasiosa e più ingenua (non dimentichiamo che si trattava di racconti di pastori erranti, in seguito raccolti e fatti passare per fatti attribuiti al volere di Dio).
Il bastone da una parte era curvo, all'estremità inferiore aveva una punta di ferro. Se Mosè si avventurava nel deserto di notte e non c'era luna, le due punte s'illuminavano come due lingue di fuoco e illuminavano fin dove Mosè era in grado di posare l'occhio. Se invece aveva bisogno di prendere acqua da un pozzo profondo, metteva un secchio a un'estremità e il bastone si allungava fino a raggiungere l'acqua. Se Mosè era affamato, batteva al suolo il bastone e faceva scaturire il cibo per quella giornata. Se invece desiderava della frutta, lo piantava per terra e in questo modo spuntavano i rami di un albero che producevano immediatamente il frutto.
Essendo il bastone di legno di mandorlo, se Mosè era affamato lo piantava a terra e quello immediatamente emetteva le foglie e dava frutti in modo che Mosè potesse mangiare le mandorle. Se invece doveva affrontare dei nemici, dalle due parti del bastone uscivano due grossi serpenti aggrovigliati. Grazie al bastone Mosè non solo si sorreggeva, ma andando in montagna, su terreno scosceso e difficile da scalare, sulla roccia, tra i rovi si vedeva la strada aperta ed il cammino facilitato. Se doveva attraversare un fiume, Mosè lo toccava con il bastone e il fiume si divideva. Dall'una delle due parti, quando voleva, poteva bere miele, dall'altra latte. Se era stanco durante il cammino, bastava si mettesse a cavalcioni del bastone e questo lo trasportava ovunque desiderasse, senza stancarsi.
Il bastone inoltre combatteva i suoi nemici, emanava su richiesta profumi e riempiva lo stesso Mosè di profumo. Quando percorreva strade con briganti in agguato, il bastone gli suggeriva di prendere una strada anziché un'altra. Il bastone gli procurava foglie per le pecore, lo difendeva dai predatori, dagli insetti e dai serpenti. Il bastone, appoggiato sulla spalla, serviva anche per il trasporto di tutto ciò che Mosè doveva trasportare, i suoi beni, il sacco, la fionda, i vestiti, il cibo e le bevande.
Di prodigi compiuti dal bastone ve ne sarebbero ancora. Ci sembrano sufficienti quelli presentati.

La storia di Mosè come prospettata dalla Bibbia o da Filone o dai racconti dei musulmani non è accettata dagli studiosi che continuano nella ricerca della verità storica, sfrondata da quelli che sono narrazioni o interessi religiosi. Il primo a dare una nuova versione sulla figura di Mosè è stato Sigmund Freud con il libro Mosè e il monoteismo.
Secondo Freud, Mosè non era ebreo, ma nobile egiziano sostenitore della riforma religiosa del faraone Akhenaton, che voleva sostituire il politeismo della casta religiosa con il monoteismo dell'adorazione del dio sole, Aton. Akhenaton aveva trasferito la capitale da Tebe in una nuova città, Akhetaton, e pur essendo riuscito ad eliminare il culto di tutti gli dei e ad abbattere i privilegi dei sacerdoti (che poi ripresero il sopravvento), la sua riforma non ebbe il supporto del popolo e non ebbe alcun seguito. Il faraone Ai, che lo succedette, appoggiato dai sacerdoti (erano loro a detenere il potere e a dirigere i faraoni) reintrodusse tutti gli dei, scacciando gli egiziani monoteisti e i semiti che si trovavano in Egitto. Costoro erano capeggiati da Ra Messou-Mosè, che fondò la Giudea (Yahouds-Yahouda), mentre il faraone Akhenaton sarebbe stato Abramo (***) .
Questa popolazione di egiziani transfughi adoratori del dio Aton uniti alle tribù semitiche che adoravano Jahvè-Heloim danno vita a una religione che fondeva i due culti, l'ebraismo.

 

*) Vita di Mosè, a cura di Paola Graffigna. Rusconi Editore.
**) Vita di Mosè secondo le tradizioni islamiche. Roberto Tottoli. Collana La diagonale, Editore Sellerio.
***) A questa soluzione sono giunti due studiosi francesi di origine ebraica, i fratelli Sabbah che hanno scritto un libro in corso di pubblicazione in Italia.

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FINE

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AMORI LONGOBARDI

 

ALBOINO E ROSAMUNDA - AUTARI E TEODOLINDA

Nella storia dei Longobardi sono rimasti famosi due episodi riguardanti due donne la cui vita ebbe sviluppi diversi. Quella di Rosamunda, che finì in tragedia e quella di Teodolinda, che da regina esercitò il potere influenzando il suo popolo fino a farlo convertire al cattolicesimo.
I longobardi, più precisamente langobardi (il nome derivava dalla lunghezza della barba e dei capelli), contrariamente ad altre tribù provenienti dall'est, provenivano dal nord, probabilmente dalla Scandinavia, andando a stanziarsi nel medio Danubio.

 

ALBOINO E ROSAMUNDA

 

Alboino, figlio del re Audoino e di Rodelinda, alla morte del padre, fu proclamato re dei Longobardi. Era un guerriero forte, coraggioso e feroce. Per il valore che aveva dimostrato, il re dei Franchi, Clotario, gli aveva dato in moglie la figlia Alpsuinda. Alboino era, secondo Paolo Diacono, decimo re dei Longobardi e primo re d'Italia.
I Longobardi erano in pace con i Gepidi. Intorno all'anno 567, nel periodo in cui era loro re Torisindo, morto costui, il nuovo re, Cunimondo rompendo la pace gli aveva mosso guerra. Alboino, aiutato dagli Avari-Unni (v. in Specchio Attila e gli Unni), con i quali aveva stretto un patto, sconfisse i Gepidi.
I longobardi fecero razzia di tanto bottino da arricchirsi, facendo prigionieri tutti quelli che si erano salvati dalla strage. Tra i prigionieri vi era la figlia di Cunimondo, Rosamunda, che Alboino prese come moglie, essendogli nel frattempo morta Alpsuinda.
Alboino durante il combattimento aveva ucciso Cunimondo e avendogli staccato la testa, dal cranio aveva fatto ricavare una coppa ricoperta d'oro. Egli si trovava a Verona e stava banchettando per festeggiare la presa di Pavia. Al banchetto partecipava la regina Rosamunda. Il vino lo aveva reso più allegro del normale e ad un certo punto ordinò che fosse dato da bere alla regina, <invitandola a bere lietamente col padre> (sulla veridicità di quest'episodio abbiamo il giuramento, in nome di Cristo, dello storico Paolo Diacono, il quale dice di aver visto con i suoi occhi la coppa, che gli era stata mostrata dal principe Rachis*).
Rosamunda ne rimase tanto offesa, sdegnata e addolorata che meditò di vendicare la morte del padre con l'uccisione del marito.
Per dar corpo alla vendetta ne parlò con Elmichi, armigero e fratello di latte d'Alboino, il quale suggerì di coinvolgere Peredeo, uomo valoroso, il quale però non intendeva partecipare al misfatto. Rosamunda, per costringerlo a partecipare al complotto, gli tese una trappola. Peredeo aveva rapporti con una sua ancella, che andava a trovare di notte. Rosamunda pensò di sostituirsi a questa e una notte, dopo averla mandata via, s'infilò nel letto aspettando Peredeo.
Dopo che questo aveva consumato il rapporto, Rosamunda si svelò accusandolo d'adulterio nei confronti d'Alboino, per cui Peredeo si trovò di fronte alla drammatica decisione di dover uccidere il re o di essere ucciso. A questo punto Peredeo dovette partecipare alla congiura per assassinare Alboino. Mentre questo a mezzogiorno riposava, Rosamunda aveva dato disposizioni che nella reggia vi fosse il massimo silenzio. Aveva sottratto dalla camera tutte le armi, lasciando la sola spada in capo al letto, ma legandola in modo che non potesse essere estratta, dopodiché fece entrare Elmichi, Peredeo e l'uomo che avrebbe dovuto uccidere il re. Alboino si svegliò di soprassalto intuendo cosa stesse per capitargli. Mettendo mano alla spada, non riuscì ad estrarla. Afferrato uno sgabello cercò di difendersi, ma per poco. <Ahimè>, dice il cronista, <quell'uomo, audace e quanto mai valoroso, nulla poté contro l'uccisore, proprio lui famoso per tante stragi di nemici, dovette perire per colpa di una donnucola> (Paolo Diacono, di stirpe longobarda, convertito al cristianesimo parteggiava per Alboino e non risparmia Rosamunda).
La morte d'Alboino avvenne il 28 giugno 572. Il suo corpo fu seppellito sotto la scalinata di una scala contigua al palazzo.
Elmichi aveva ucciso per regnare al posto d'Alboino, ma tutti i longobardi gli erano contrari, per cui Rosamunda, diventata sua compagna, organizza la fuga da Verona. Si rivolge a Longino, prefetto di Ravenna (sotto l'impero bizantino), al quale chiede di inviare un battello per raccogliere lei ed Elmichi. I due riescono a fuggire di notte, portando con sé Alpsuinda, figlia d'Alboino che aveva il nome della moglie deceduta e tutto il tesoro dei Longobardi.
Una volta giunti a Ravenna, Longino cercò di convincere Rosamunda di uccidere Elmichi e unirsi a lui.
Rosamunda accettò la proposta (Paolo Diacono, sempre duro nei suoi confronti, l'accusa d'essere propensa ad ogni iniquità e desiderosa di diventare signora di Ravenna), e mentre Elmichi usciva dall'acqua dopo aver fatto un bagno, gli andò incontro con una tazza che lo avrebbe ristorato. Era veleno. Dopo averlo bevuto ed essersi accorto di cosa si trattasse, Elmichi fece a tempo a sguainare una spada e afferrata Rosamunda la costrinse a bere ciò che era rimasto nella tazza.
<Per volontà di Dio>, dice quel sant'uomo di Paolo Diacono, <i due malvagi perirono nello stesso istante>.

 

*) Rachis era stato duca del Friuli e re dei Longobardi dal 745 al 749, poi si era ritirato nel convento di Montecassino.

 

AUTARI E TEODOLINDA

 

Autari, re dei Longobardi dal 584 al 590, era succeduto al padre Clefi e fu il terzo re d'Italia. Nel sistema dei matrimoni politici, aveva mandato un'ambasceria in Bavaria, dove era re Garibaldo (anch'egli aveva sposato una longobarda, Valderada, e una figlia aveva sposato il duca longobardo Evin di Trento), per chiedere la mano dell'altra figlia, Teodolinda.
Gli ambasciatori tornarono assicurandogli che il re aveva accettato. Autari, desideroso di conoscere la promessa sposa, prese alcuni uomini fidati e un anziano, anch'esso fidato, e partì per la Bavaria.
Giunti alla presenza del re, dopo i convenevoli rivolti dal più anziano del gruppo, Autari che nessuno conosceva, avvicinatosi al re gli disse che Autari, suo re e signore, lo aveva mandato per vedere la figlia che sarebbe divenuta sua sposa e loro regina, in modo da riferirgli almeno vagamente il suo aspetto. Garibaldo fece introdurre la figlia e Autari, che era nel fiore degli anni, di bella statura, dai capelli biondi e lunghi e di nobile aspetto, dopo averla osservata e ammirato la bellezza delle forme, essendogli piaciuta, disse al re che il suo aspetto faceva desiderare a buon diritto che diventasse la loro regina. Chiese poi di poter ricevere dalle sue mani una coppa di vino, come d'altronde lei avrebbe dovuto fare in seguito. Teodolinda prese una coppa e dapprima la offrì a quello che sembrava il più anziano, e poi la offrì ad Autari. Costui, dopo aver bevuto restituì la coppa a Teodolinda e senza che nessuno se n'accorgesse le toccò la mano con un dito e poi fece scorrere la mano destra sulla fronte, sul naso e sul viso. Teodolinda arrossendo raccontò il fatto alla nutrice, la quale la rassicurò dicendole che doveva trattarsi del re, il suo futuro sposo in persona, perché se così non fosse stato, nessun altro avrebbe osato toccarla. La nutrice poi raccomandò di non dir niente al padre.
Autari con il suo gruppo fu riaccompagnato dai Bavari fino ai confini d'Italia, e quivi giunto alzatosi sul cavallo, preso un albero come bersaglio, scagliò un'ascia che si piantò nell'albero, mentre esclamava <ecco i colpi di Autari>, facendo comprendere ai Bavari che era lui il re in persona.
Qualche tempo dopo, Garibaldo ebbe delle difficoltà con i Franchi e pensò di mandare sua figlia con il fratello Gundoaldo da Autari. Costui, essendo stato preavvertito, le andò incontro preparandosi a riceverla nel campo di Sardi a nord di Verona e festeggiare le nozze. Per la festa (15 maggio) erano convenuti i duchi longobardi e fra questi il duca di Torino Agilulfo.
All'improvviso scoppia un temporale e un palo che si trovava all'interno dell'accampamento fu colpito da un fulmine. Agilulfo si era appartato, seguito da un suo servo esperto in presagi, il quale gli predisse che la donna che era venuta per sposare il loro re, sarebbe diventata sua moglie. Agilulfo lo minacciò che gli avrebbe tagliato la testa se avesse osato dire ancora una cosa del genere, ma il servo ribattè <io potrò anche essere ucciso, ma il destino non può essere cambiato, è certo che quella donna è venuta per sposare te>.

Il matrimonio tra Autari e Teodolinda (ebbero una figlia, Gundemberga) non durò molto, perché Autari morì a Pavia (590), avvelenato, dopo sei o sette anni di regno (pare che fosse stato avvelenato proprio da Agilulfo).
I longobardi, che apprezzavano Teodolinda, le permisero di continuare a mantenere la dignità reale e le dissero che poteva scegliersi il marito che desiderasse, a condizione che costui fosse in grado di governare validamente. La scelta cadde su Agilulfo, duca di Torino e cognato di Autari, di bell'aspetto, valoroso e adatto a governare.
Teodolinda lo convocò e andandogli incontro lo attese in prossimità della rocca di Lomello. Dopo essere arrivato e dopo i convenevoli, Teodolinda gli offrì una coppa di vino e Agilulfo, accettata la coppa, le baciò rispettosamente la mano. Teodolinda arrossendo gli sussurrò che avrebbe dovuto baciarle il viso e non la mano, e, lasciandosi baciare, lo informò delle nozze e del regno a lui destinato. Dopo poco furono celebrate le nozze e Agilulfo salì al trono nel mese di novembre (591) e nel corso dell'assemblea della primavera successiva fu acclamato re dai longobardi.
Nel frattempo Teodolinda si era convertita al cristianesimo e aveva fatto convertire probabilmente anche Agilulfo, il quale (anche se non convertito assecondò la moglie) provvide a restituire alla Chiesa tutti i beni di cui i longobardi si erano impossessati.
Teodolinda fece costruire un palazzo (anche Teodorico, re dei Goti ne aveva fatto costruire uno), che fu abbellito con affreschi in cui erano riportati i costumi dei longobardi di quel periodo. Da quegli affreschi risultava che essi radevano i capelli tutt'intorno alla fronte fino alla nuca, e i capelli lasciati lunghi fino all'altezza della bocca erano divisi in due bande. I vestiti erano ampi e di lino (come quelli degli Anglosassoni), ornati di balze più larghe e intessuti in vari colori. Portavano calzari di cuoio sino all'alluce, fermati da lacci di cuoio intrecciati. In seguito cominciarono a usare le uose e sopra, quando andavano a cavallo, una specie di calzoni di panno rossiccio (moda che era stata ripresa dai romani).
Teodolinda si dedica quindi a opere benefiche e, sempre a Monza, fa costruire una basilica dedicata a s. Giovanni Battista, abbellita di ornamenti d'oro e d'argento e dotandola di terre.
Agilulfo muore nell'Anno 615, dopo aver regnato venticinque anni, lasciando il trono al figlio Adaloaldo, avuto da Teodolinda che assume la reggenza, continuando nelle donazioni e nell'opera di restauro delle chiese. Adaloaldo dopo dieci anni impazzirà. Il regno longobardo passerà nelle mani di Arioaldo e dopo dodici anni in quelle del più famoso Rotari.
Teodolinda morirà nel 628, lasciando dietro di sé fama di regina saggia e pia.

FINE

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