Voglia il cielo che il monarca prenda nelle proprie
mani la difesa del miserabile contadino lapidato e tiranneggiato
dagli agenti, dai signori, dalla giustizia e dal clero.
Sire
Tutti quelli che venivano in vostro nome venivano
sempre per chiedere danaro. Ci facevano illudere che sarebbe finita,
ma ogni anno diventava sempre peggio non l'abbiamo con voi, tanto
vi amiamo, ma con coloro che voi impiegate e che sanno fare i
loro affari meglio dei vostri
Siamo oppressi da imposte di
ogni specie, finora vi abbiamo dato parte del nostro pane, ma
presto ci mancherà se le cose vanno così
Se
vedeste le povere capanne dove abitiamo, il povero cibo che mangiamo,
ne sareste commosso, ciò vi direbbe meglio delle nostre
parole che non ne possiamo più e che bisogna alleviarci.
La cosa che ci fa più male è che coloro i quali
hanno di più, pagano di meno. Noi paghiamo per le taglie
e per ogni specie d'imposta e gli ecclesiastici e i nobili che
hanno tutti i beni più belli, non pagano nulla. Perché
i ricchi devono pagare di meno e i poveri pagare di più?
Non dovrebbe ciascuno pagare per quello che può?
Se
osassimo, cominceremmo a piantare qualche vigna sui pendii, ma
siamo così perseguitati dagli agenti che piuttosto preferiremmo
strappare quelle che vi sono piantate. Tutto il vino che produrremmo
sarebbe per loro e a noi non rimarrebbe che la fatica. Tutti questi
sbirri sono un flagello e per salvarci preferiamo lasciare incolte
le terre
Il più disastroso degli abusi è la
feudalità, e i mali che essa causa superano di molto
il fulmine e la grandine.
Impossibile sopravvivere se si
continua a prelevare i tre quarti dei raccolti per diritti di
champart, terrage, ecc (**). Il proprietario si prende la quarta
parte, il ricevitore la dodicesima, la Chiesa la dodicesima, l'imposta
la decima, senza contare dei danni di una selvaggina innumerevole
che divora la campagna coltivata a verdura, all'infelice coltivatore
non restano dunque che la fatica e il dolore
Non sta a noi
pagare il deficit annuale, tocca ai vescovi, ai beneficiari; togliete
ai principi della Chiesa i due terzi delle loro rendite.
>Sin dall'epoca di Luigi XIV le campagne in stato d'abbandono
avevano un aspetto di miseria e desolazione; alcune strade per
la sporcizia e il puzzo si potevano paragonare a sentieri aperti
in un mucchio di letame, nelle locande di grossi borghi vi era
ristrettezza, miseria, sporcizia e tenebre.
Sembra veramente strano che nel 1750, quando già un secolo
prima erano stati scritti trattati di agricoltura, una gran quantità
di terra era incolta e, quel che è peggio, abbandonata.
Erano le conseguenze della politica di un secolo prima di Luigi
XIV. Un quarto del suolo francese era ancora da dissodare. Le
brughiere formavano pianure immense che avrebbero potuto essere
coltivate. Le terre che erano coltivate avevano un bassissimo
rendimento perché l'agricoltura era arretrata, era rimasta
quella del medioevo, i campi restavano a maggese un anno su tre
o un anno sì e uno no. Gli utensili erano rimasti all'aratro
di Virgilio, nessuno usava ancora l'aratro di ferro come l'asse
dei carri e i cerchi delle ruote che erano in legno e il più
delle volte l'erpice è un pezzo di carretta.
Dopo ogni raccolto le provviste duravano da tre a quattro mesi
e poi c'era la fame. Era stato scritto che accanto al vaiolo,
causa di morte vi era un'altra malattia endemica altrettanto dominante
e altrettanto mortale, la fame!
Il contadino conduceva una vita grama, la sua dieta era fatta
di pane nero fatto con segale e orzo, o addirittura con avena
integrale (nel senso che non veniva tolta la crusca), nero e pesante
come il piombo e da bere aveva acqua colorata, cioè acqua
versata sulle vinacce; quando c'era la zuppa, era condita con
olio da lumi, vestivano con lana delle loro pecore e canapa che
essi stessi coltivavano, e niente calze, scarpe o zoccoli.
Con questo tipo di alimentazione i contadini erano deboli e piccoli
di statura con una bassa natalità e alta mortalità
tra i bambini che non avevano nulla da poppare dal seno materno
e, se arrivavano a un anno, gli facevano mangiare crusca bagnata
e pane nero, sì che tutti avevano il ventre gonfio come
quello di una donna incinta. Una donna di ventotto anni ne
mostrava sessanta o settanta, tanto il suo corpo era irrigidito
e indurito dal lavoro
soltanto la cortesia suggeriva
di chiamare questi esseri donna, più che altro erano
mucchi di letame ambulante. Era questo il popolo delle campagne
fatto di poveri schiavi, bestie da tiro attaccate a un giogo,
che camminano a colpi di frusta, non s'interessano né si
preoccupano di niente, purché possano mangiare e dormire
alle loro ore, che non si lamentano e non pensano nemmeno di lamentarsi,
i loro mali gli sembrano una cosa naturale come l'inverno o la
grandine.
Le case dei contadini erano fatte di paglia mescolata a fango,
coperte di strame, senza finestre e il pavimento era fatto di
terra battuta, in alcune località erano costruite su quattro
forche, spesso erano stalle o fienili in cui si era fatto un camino
con quattro bastoni e fango.
Era questo il popolo delle campagne, che aveva un quinto del territorio
francese, ad essere oppresso dalle tasse, mentre i privilegiati,
che n'erano esenti, possedevano gli altri quattro quinti, cioè
un quinto apparteneva alla corona e ai comuni (demanio), un quinto
alla nobiltà, un quinto al clero e un quinto al Terzo Stato.
Le città. Paragonate alle campagne sono sicuramente un rifugio, ma la miseria segue i poveri, perché da un lato esse sono oberate di debiti e dall'altro la casta, che le amministra, ne fa fare le spese agli indigenti. Oppresse dal fisco, esse opprimono il popolo e scaricano sulle sue spalle il peso che il re impone loro (1).
Carlomagno, quando si apprestava a venire in Italia per
combattere contro Desiderio re dei Longobardi, si era accampato
presso l'abbazia di Novalesa. Qui un giullare longobardo si era
fatto notare cantando un messaggio con cui chiedeva: <Che
premio si darà all'individuo capace di guidare Carlo in
Italia, per un itinerario dove nessun'asta si leverà contro
di lui, né lo scudo troverà opposizione, né
alcun danno verrà patito dai suoi?>
Il giullare fu portato da Carlo il quale gli promise che, dopo
la vittoria, avrebbe esaudito ogni sua richiesta.
Carlo e i suoi soldati furono guidati dal giullare lungo gli strapiombi
di un monte, attraverso una strada che in seguito venne chiamata
la via dei Franchi. Una volta scesi essi si trovarono nella piana
di Giaveno. Così mentre Desiderio pensava di prendere Carlo
frontalmente, se lo trovò alle spalle. La battaglia si
svolse presso la Chiusa di Susa (v. in Schegge: Il gineceo di
Carlo), con la vittoria riportata da Carlo.
Il giullare si ripresentò da Carlo per ricordargli la promessa
e Carlo gli chiese cosa desiderasse avere. Il giullare gli chiese
dei territori; la estensione sarebbe stata quella raggiunta dal
suono del suo corno. Carlo accettò e il giullare salito
su una collina, dopo aver suonato il corno se ne andò per
villaggi e campagne chiedendo ai contadini se avessero sentito
il suono di un corno. A chi rispondeva affermativamente dava un
pugno, dicendo che < sarebbe diventato un suo schiavo>.
Carlo mantenne la promessa, assegnando in feudo al giullare il
territorio nel quale si poteva sentire il suono del corno, che
da allora fu soprannominato dei Transcornati.
*) Questo racconto è stato scritto da un monaco anonimo
vercellese, dell'Abbazia di Breme (Torino) nel Chronicon della
Novalesa del XII sec. .
Questo Anonimo per aver scritto in maniera colorita avvenimenti
popolari (che piacquero ai romantici dell'8oo, Manzoni compreso),
era stato preso molto poco in considerazione dagli storici prestigiosi
(oggi diremmo i baroni), che lo criticarono per aver scritto senz'ordine,
senza cronologia e senza spirito critico.
Il monaco venne considerato un romanziere. E, allora! Sarebbe
stato il primo romanziere italiano, di origine germanica (era
stato precisato dai Germanici!).